Baby.
Un paio di occhiali da sole, cuffiette nelle orecchie, lo sguardo perso nel vuoto e due cicatrici, segno di un trauma fisico e ancor più psicologico.
Baby parla poco, ma ha un’eccellente padronanza alla guida. Filtra le amicizie come la musica, convinto, come un passa-basso, di lasciar da parte i rumori più assordanti che lo fanno soffrire, rifugiandosi in suoni familiari, opportunamente e gelosamente conservati su nastro che ascolta di continuo “remixandoli”.
Baby ha perso i genitori in un terribile incidente d’auto, convive con un sordomuto, il vecchio afroamericano Joe che lo ha cresciuto, si dà da fare per affari poco leciti per sanare un vecchio debito con un boss, Doc, (un convincente Kevin Spacey), elegante e atarassico e letale.
Baby non è un delinquente, è un passivo osservatore della vita violenta. Vorrebbe essere libero come la stessa musica che ascolta, condurre “un’esistenza normale”, con la sua “bella” cameriera del Diner di cui si è innamorato (Lily James) e scappare dalle difficoltà seminandole come fa abilmente con le auto della polizia.
Baby sa che non potrà sfuggire per sempre. Sa che la vita non è bianca o nera. Sa che non è possibile rimanere candidi a lungo senza rischiare qualcosa. E le mani, Baby se le sporcherà di sangue perché il suo idillio d’amore possa rivelarsi, compiuto, scontando quanto gli rimane.
La vita di Baby si nasconde dietro mille sfumature di grigio, tanto che quando il vecchio debito è colmato e tutto sembra oramai andare per il meglio, il passato di poche settimane prima torna alla ribalta, seppellendo i suoi sogni di vita normale sotto un profondo strato di inquietudine.
Baby…. è ora di prendere decisioni da adulti, si fa o non si fa?
Soldi, motore e azione. Il frullatore pop di Edgar Wright tiene i toni di un action-movie, travestito da commedia, pulp e love-story sullo sfondo di una musica che tutto muove, precisa e implacabile.
Baby driver è un crogiolo di andrenalina, suspense, citazionismo (tra i tanti: Monsters and Company, Bonnie e Clyde), fatto di inseguimenti, macchine in fiamme, titaniche lotte per amore e tanto sangue.
L’intento di Edgard Wright non è quello di realizzare un film fanciullescamente ancorato al mito dell’intramontabile James Dean o Marlon Brando (di cui il protagonista ne ricorda le fattezze in maniera adeguata, specie nella seconda parte del film) ma di accendere i motori e mostrare la violenza ribelle e selvaggia di un ragazzo affacciato alla dura esistenza che dovrà imparare a “sporcarsi” le mani per sopravvivere, protagonista attivo di un percorso su una strada senza ritorno.
In Baby driver, Wright ci riporta all’atmosfera degli anni ’50, a un racconto di iniziazione e fuga dalla violenza, sottendendo generi diversi, con una leggerezza e una grazia che nei suoi momenti più duri fa anche sorridere come stessimo quasi vedendo un film di Tarantino.
Il sentiero narrativo del film scorre rapido grazie alla bravura degli attori: dal convincente protagonista (Ansel Elgort), all’ingrassato boss Doc sino alla figura del Pazzo-Jamie Fox-ben descritta nella sua diffidente crudeltà.
E poi la giovane Cenerentola-cameriera per cui Baby perde la testa, ricorda l’immaginario collettivo americano dell'amore, del lavoro (anche disonesto) e di un dream, quello di una vita insomma, che scorre come fiume in piena, alla volta del benessere oltre ogni costrizione mentale e giudiziaria.
Film decisamente consigliato.
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