E'un film che abbatte tutti i cliche' a cui siamo abituati, quando si parla di terrorismo internazionale. Nelle ultime scene si scopre che il cattivo e'il buono e viceversa. Uno scambio di parti,interpretate da eccellenti attori che riescono ad ingannare lo spettatore fino all'ultimo.Il personaggio "buono" interpretato da un giovane pianista jazz,che si accinge ad andare in Marocco x aiutare i bambini malnutriti, non e'che in realta' un terrorista,che con grande coraggio,a volte, con aperta sfrontatezza e autoironia riesce a contrastare, il presunto cattivo, di nome Almat che comincera' a giocare con la sua vita a una partita a scacchi,in palio le dita del pianista se non rivela le vere ragioni che lo hanno portato in Marocco.
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E'un film che abbatte tutti i cliche' a cui siamo abituati, quando si parla di terrorismo internazionale. Nelle ultime scene si scopre che il cattivo e'il buono e viceversa. Uno scambio di parti,interpretate da eccellenti attori che riescono ad ingannare lo spettatore fino all'ultimo.Il personaggio "buono" interpretato da un giovane pianista jazz,che si accinge ad andare in Marocco x aiutare i bambini malnutriti, non e'che in realta' un terrorista,che con grande coraggio,a volte, con aperta sfrontatezza e autoironia riesce a contrastare, il presunto cattivo, di nome Almat che comincera' a giocare con la sua vita a una partita a scacchi,in palio le dita del pianista se non rivela le vere ragioni che lo hanno portato in Marocco.La storia e'attuale e da allo spettatore innumerevoli spunti x una profonda riflessione sulla condizione dei popoli sottomessi dalle grandi societa' occidentali,sulla minaccia terroristica internazionale (in questo periodo portata alla ribalta dal grande schermo con film come United 93 e il prossimo World trade center)che fanno ricordare,senza che ce ne sia bisogno,la strage dell'11 settembre,del comportamento ambiguo dei servizi segreti americani che x proteggere il loro paese sono disposti a tutto,anche a diventare come coloro che combattono. Questi sono alcuni spunti che emergono da questo film, che, all'apparenza potrebbe sembrare un banale film di spionaggio,ma che invece a un'analisi piu'profonda, fa pensare molto sull'attuale scenario internazionale,sulle nostre paure contro questo pericolo invisibile, ma esistente,che a condizionato e continua a condizionare molti di noi. Un pericolo costituito (e forse x questo, che ci spaventa di piu')dall'insospettabile,rappresentato dal film,dal giovane pianista olandese,che come afferma lui stesso, in una battuta del film,e' una rarita',con i suoi capelli biondi e gli occhi blu,nessuno lo scambierebbe x un terrorista islamico. Un thriller psicologico tra Almat e Martyin che giocano al gatto e al topo e solo uno dei due vincera. Chi avra' la meglio?.......
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Del film non si può dire troppo: c'è il rischio di rovinare allo spettatore il piacere della visione. In verità, bisognrebbe andare a vederlo, con uno spirito un po' naif, senza essersi documentati prima. Male fanno quegli spettatori che, pensando di poter avere una visione più colta del fim che hanno scelto, s'affannano a documentarsi, a leggere recensioni, pareri ed interviste. Utilizzando una griglia interpretativa di tipo psicologico, questi sono gli spettatori razionali che vogliono avere il pieno controllo su tutto ciò che vedono e potere così esercitare quindi un dominio su tutte le emozioni e i turbamenti che la visione d'uno spettacolo qualsiasi possa avere su di loro. Quindi, di questo film, nulla può essere detto, proprio perchè la partita che vi si gioca corre su d'un filo di rasoio (ma sempre con un evidente squilibrio tra una "vittima" presunta ed il suo "aguzzino") nell'incertezza e nell'impossibilità di capire dove sta la verità (c'è qualcuno che sta mentendo? ed in tal caso, perchè?).
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Del film non si può dire troppo: c'è il rischio di rovinare allo spettatore il piacere della visione. In verità, bisognrebbe andare a vederlo, con uno spirito un po' naif, senza essersi documentati prima. Male fanno quegli spettatori che, pensando di poter avere una visione più colta del fim che hanno scelto, s'affannano a documentarsi, a leggere recensioni, pareri ed interviste. Utilizzando una griglia interpretativa di tipo psicologico, questi sono gli spettatori razionali che vogliono avere il pieno controllo su tutto ciò che vedono e potere così esercitare quindi un dominio su tutte le emozioni e i turbamenti che la visione d'uno spettacolo qualsiasi possa avere su di loro. Quindi, di questo film, nulla può essere detto, proprio perchè la partita che vi si gioca corre su d'un filo di rasoio (ma sempre con un evidente squilibrio tra una "vittima" presunta ed il suo "aguzzino") nell'incertezza e nell'impossibilità di capire dove sta la verità (c'è qualcuno che sta mentendo? ed in tal caso, perchè?).
Il film si svolge tutto all'interno di quello che sembra un antico opificio abbandonato, con elementi che lo rendono orientaleggiante anche se in maniera spuria: è forse la bottega d'un conciatore di pelli o di un tintore (si intravedono le tipiche vasche per la coloritura dei tessuti che si possono osservare nei suk marocchini), ma in questo ambiente cupo versante in uno stato di degrado ncome se non venisse utilizzato da tempo, non mancano anche degli oggetti tecnologici, a rendere più complicata la sua location.
L'atmosfera claustrofobica è sporadicamente spezzata da improvvisi e rapidi flashback sulla vita passata di Martijn (la "vittima"), ambientati il più delle volte in freddi scenari di mare, spiagge e dune del Mare del Nord, spazzati da quello che si suppone un freddo vento invernale. I flashback rappresentano anche il rimando al mondo degli affetti, delle passioni e delle emozioni, per il momento forzatamente messo tra parentesi: nel linguaggio della psicologia, sembrerebbero essere di tipo "dissociativo", cioè quesgli stati della mente che si attivano quando s'è esposti a situazioni di violenza; spesso in questi casi, la "vittima" per sfuggire a forme di dolore ed umiliazione intollerabili, si rifugia in una piega dell sua memoria, in un angolino della mente dove nulla e nessuno possono più toccarlo.
L'unità di tempo e di luogo, l'apparente staticità, l'impianto recitativo quasi da pièce teatrale non pesano sullo spettatore ormai aduso a linguaggi cinematografici fondati sull'azione e sui continui cambi di scenario: i dialoghi incalzanti, a volte ossessivi e martellanti nella loro ripetitività si susseguono, tenendolo sulle spine. Noi che assistiamo vogliamo tanto sapere dove questa vicenda insensata andrà a parare e desideriamo ristabilire un'embrione di controllo su d'un universo assurdo ed irrazionale che s'apre davanti come un incubo.
La verità è che il mondo si muove su binari sempre più violenti, ma silenziosi, inapparenti, criptati: di ciò si viene a sapere ben poco attraverso gli organi di stampa.
A prescindere da questo e da eventuali agganci con le realtà del nostro tempo, il film - come è rappresentato - può anche essere letto come una grande metafora dei rapporti tra chi è vittima e chi è persecutore e del fatto che, comunque, tra le due categorie, non vi è poi tanta differenza, semmai una complementarità: è il nostro tempo a produrre mostri, che sono nella realtà, ma che vivono anche nella nostra mente.
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Dato che si tratta di un film che discute anche la vita di un musicista, per la precisione di un pianista, mi è stato richiesto un parere (essendo anch'io pianista) su questa pellicola.
Tutti i recensori precedenti fanno rilevare il "climax" proprio del "thriller" che la pellicola sa ricreare.
Ed è proprio l'impostazione secondo la teoria hitchcockiana della "chambre claquée",ossia della camera chiusa a permettere al regista Malkin di creare quella "pressione" necessaria al thriller.
Sinceramente più che una partita a schacchi od a poker o a qualunque altro gioco, io ci vedo un semplice interrogatorio di tipo militaresco in cui però le parti ,pur talvolta scambiandosi (ma soltanto per pochi istanti) alla fine tornano come all'inizio ed il pianista , cioè la quintessenza dell'artista o del filosofo o dell'idealista per dirla più semplicemente , è destinato a soccombere.
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Dato che si tratta di un film che discute anche la vita di un musicista, per la precisione di un pianista, mi è stato richiesto un parere (essendo anch'io pianista) su questa pellicola.
Tutti i recensori precedenti fanno rilevare il "climax" proprio del "thriller" che la pellicola sa ricreare.
Ed è proprio l'impostazione secondo la teoria hitchcockiana della "chambre claquée",ossia della camera chiusa a permettere al regista Malkin di creare quella "pressione" necessaria al thriller.
Sinceramente più che una partita a schacchi od a poker o a qualunque altro gioco, io ci vedo un semplice interrogatorio di tipo militaresco in cui però le parti ,pur talvolta scambiandosi (ma soltanto per pochi istanti) alla fine tornano come all'inizio ed il pianista , cioè la quintessenza dell'artista o del filosofo o dell'idealista per dirla più semplicemente , è destinato a soccombere.
Invece , al di là della "chambre" chiusa, e del carnefice ufficiale e della vittima (il pianista Martijn,per l'appunto che subisce l'amputazione progressiva delle dita secondo un'ancestrale e medievale legge del Taglione,ma per motivi politici, economici, medici e pseudo-umanitari), è sicuramente la apparentemente secondaria rete di figure di contorno a detenere un ruolo centrale .Si tratta di donne.
Donne manipolate nella visione registica: la moglie del pianista che in realtà alla fine appare complice di un programma di avvelenamento di massa (anzichè fautrice di un programma alimentare positivo...); la complice del carnefice Ahmat (l'effettistico Laurence Fishburne)che in realtà da buona infermiera si trasforma a tratti (come le bambole cinesi) in una sorta di "deus ex machina" perfettamente a conoscenza delle modalità di persecuzione e soprattutto di tortura (nel senso medievale del termine) previste per prigionieri internazionali.
E si tratta sempre di donne straniere, di donne nord-africane secondo un'impostazione registica che le vede quasi secondo un'ottica maschilizzante, sempre complici oscure, "dark ladies" che alla fine della fiera perorano cause indette e programmate pur sempre da uomini.
Sicuramente scioccante la sequenza finale del film, l'apertura sulla statua della libertà di Eiffel a Nuova York che ammicca all'annosa questione dell'illegale e segreta esportazione di prigionieri internazionali, ma che riporta al tema dell' Occidente che ha in passato sfruttato l'Oriente ed i paesi cosiddetti del Terzo Mondo per attuare grettamente, egoisticamente e spesso anche ambiguamente i propri interessi.
Un film da vedere , comunque , anche si di musicale non contiene che pochissimo o nulla (!): una pellicola sul rapporto fra le civiltà, fra i mondi ,ma basato sull'analisi dei rapporti peggiori e distorti,politicamente sporchi.Una sorta di "Memento" che mette sul "chi Va Là" i turisti meno agguerriti.
E che fa capire come anche cittadini europei siano spesso "doppiogiochisti" in quanto asserviti e schiavizzati da oscure organizzazioni internazionali, che magari dietro a facciate di bontà e speranza celano invece programmi di violenza e di morte.
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Five Fingers – Gioco Mortale conduce lo spettatore a ripensare più volte, durante la sua visione, a dove sta il bene e a dove si posizioni il male. Proprio come avviene quando cerchiamo, sforzandoci di ragionare senza arbitrio, di giudicare le parti in conflitto dopo l’abominio delle Torre gemelle.
E’ giunto, evidentemente, il momento di costruire il cinema del dopo 11 settembre. C’è chi lo fa raccontando la cronaca di quei fatti, c’è chi, come Laurence Malkin, sceglie la via dell’invenzione pura creando una storia che ha proprio nella sua ambiguità la cifra più consistente.
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Five Fingers – Gioco Mortale conduce lo spettatore a ripensare più volte, durante la sua visione, a dove sta il bene e a dove si posizioni il male. Proprio come avviene quando cerchiamo, sforzandoci di ragionare senza arbitrio, di giudicare le parti in conflitto dopo l’abominio delle Torre gemelle.
E’ giunto, evidentemente, il momento di costruire il cinema del dopo 11 settembre. C’è chi lo fa raccontando la cronaca di quei fatti, c’è chi, come Laurence Malkin, sceglie la via dell’invenzione pura creando una storia che ha proprio nella sua ambiguità la cifra più consistente.
E’ la psicosi del pericolo terrorista – che giustamente ci coglie in questi tempi bui – che muove tutto il film. Su di essa si impernia l’opera di Laurence Malkin – scrittore, regista e produttore assieme a Laurence Fishburne – su una domanda che ci assale sin dalle prime inquadrature: chi è il terrorista e chi il poliziotto? Chi è la vittima e chi il carnefice?
Girato con la discrezione che si riserverebbe ad un’opera teatrale, campi lunghi in ambienti chiusi, forti rumori di fondo per esaltare le atmosfere esterne, un sito circoscritto dove si consuma quasi tutta l’azione, la narrazione è scandita dai freddi flashback che si generano durante la perdita dei sensi del protagonista (Ryan Philippe): cinque, come le sue dita... Dita sapienti di pianista jazz, musica che dà il ritmo al film e che fortemente contrasta con l’ambiente rappresentato: una fabbrica abbandonata in mezzo ad un deserto ventoso e rumoroso. Dentro di essa i personaggi si confrontano in un gioco pericoloso teso a scoprire di quanta fiducia l’uno meriti dall’altro. Un gioco delle parti dove ognuno, in un supremo esercizio sofistico, è costretto, per raggiungere il suo scopo, a sostenere le tesi dell’altro. E in questo bailamme affabulatorio si confondono contrastandosi e confrontandosi le aride mire del capitalismo, le innocenti ragioni del volontarismo, le strategie no global quando si trasformano in letale distruttivismo.
Film difficile per la scarna azione che rischia di svilire quello che è a tutti gli effetti un thriller e che solo gli ottimi dialoghi e la convinzione dei cinque interpreti riescono ad evitare anche se nel finale, ovviamente a sorpresa, una maggiore creatività avrebbe consentito di mantenere un buon livello di originalità per l’intera durata del film.
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