salvatore scaglia
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martedì 12 novembre 2013
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il capitano e il terrorista, diversi e simili.
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La mia generazione è una pellicola introspettiva tutta fondata sul duo Orlando-Amendola.
Il primo interpreta un rigoroso capitano dei Carabinieri che si occupa di traduzioni di detenuti particolarmente pericolosi, tra cui i c.d. politici, mentre il secondo, Braccio, veste i panni di un ex terrorista, destinato a scontare una pena assai dura, pagando anche colpe di altri.
Lungo il viaggio di trasferimento da un carcere del Sud ad uno di Milano, dove Braccio dovrebbe incontrare l'ex fidanzata (Neri, la cui presenza nel film è quasi esornativa), i due personaggi si studiano a vicenda e, gradualmente, finiscono col darsi del "tu". A un certo punto della traduzione sale sull'autoblindo della Benemerita un carcerato comune, che è costretto a disfarsi di una pistola cedendola al politico.
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La mia generazione è una pellicola introspettiva tutta fondata sul duo Orlando-Amendola.
Il primo interpreta un rigoroso capitano dei Carabinieri che si occupa di traduzioni di detenuti particolarmente pericolosi, tra cui i c.d. politici, mentre il secondo, Braccio, veste i panni di un ex terrorista, destinato a scontare una pena assai dura, pagando anche colpe di altri.
Lungo il viaggio di trasferimento da un carcere del Sud ad uno di Milano, dove Braccio dovrebbe incontrare l'ex fidanzata (Neri, la cui presenza nel film è quasi esornativa), i due personaggi si studiano a vicenda e, gradualmente, finiscono col darsi del "tu". A un certo punto della traduzione sale sull'autoblindo della Benemerita un carcerato comune, che è costretto a disfarsi di una pistola cedendola al politico. E' ora, in medias res, che lo spettatore inizia ad aspettarsi un colpo di scena basato su questa pistola che passa di mano, ma che non viene mai usata, nè dal comune nè dal politico.
Il vero colpo di scena consiste, piuttosto, in ciò: scopo del film è quello di mostrare le diverse, ma nel contempo simili, personalità del capitano e di Braccio, in un'interessante indagine psicologica, valorizzata da reiterati primi piani dei volti e dallo svolgersi delle scene in ambientazioni cupe e buie (il carcere, il furgone blindato, la notte). Entrambi i protagonisti sono agli ordini, rispettivamente, dello Stato e dell'organizzazione sovversiva; entrambi sono inflessibili servitori delle loro cause. E forse per questo, dunque, scoprono di avere qualcosa in comune, pur da irriducibili avversari.
Così, anche quando infine il capitano rivela il piano finalizzato alla collaborazione del terrorista con un colonnello dei CC (una sorta di generale Dalla Chiesa), Braccio non se la sente di svelare chi avrebbe sparato nell'omicidio per cui è stato condannato e chi avrebbe le armi. Egli è un dissociato, non un pentito. Si autoaccusa, ma non coinvolge altri. Ma soprattutto comprende che la sua generazione è ormai fuori tempo massimo. Sintomatico, a questo proposito, è il filmato senza sonoro dei bei tempi, che l'ex di Braccio guarda nostalgicamente: come se la sua generazione non avesse più nulla da dire o non fosse più nelle condizioni di dire la propria.
La fidanzata del terrorista ormai sta con un altro; un suo ex compagno di lotta è un insegnante; e Braccio è in carcere. Egli, però, non si vende, come invece fa una prostituta con cui ha la possibilità di andare grazie alla generosità pelosa del capitano e dei suoi sottoposti.
Braccio non cede, nonostante il fatto che "la democrazia ha vinto", come sottolinea enfaticamente il capitano, invogliandolo al pentimento.
Nell'atteggiamento di Braccio c'è pertanto tutta la rassegnazione di chi ha capito che, se collaborasse, potrebbe sì cambiare la sua condizione individuale, ma non certo quella di una generazione intera e di un'illusione rivoluzionaria armata tramontata miseramente, ma per la quale ha speso la sua vita.
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rescart
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domenica 28 febbraio 2010
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né con lo stato né con le b.r.
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C’è chi si limita ad sfruttare questo motto per portare a termine la sua “missione” di convincere un ex-terrorista a fare il nome del suo complice e ritrovare armi nascoste; c’è invece chi lo vive, il motto, cercando di ritrovare prima o poi un equilibrio psicologico sottoposto ad un attentato non meno cruento, anche senza spargimento di sangue reale. Ed è forse proprio questo il tema che Wilma Labate, alla sua seconda opera da regista, vuole passare ai suoi più attenti spettatori. Già perché il cinema è probabilmente lo strumento più in grado di rendere quanto possa sanguinare una persona senza essere stato ferito nel corpo bensì, nell’anima, nella psiche. Anche perché comunque le ferite che esso rappresenta sulla scena, per quanto realistiche possano essere, rimangono pur sempre una finzione cinematografica.
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C’è chi si limita ad sfruttare questo motto per portare a termine la sua “missione” di convincere un ex-terrorista a fare il nome del suo complice e ritrovare armi nascoste; c’è invece chi lo vive, il motto, cercando di ritrovare prima o poi un equilibrio psicologico sottoposto ad un attentato non meno cruento, anche senza spargimento di sangue reale. Ed è forse proprio questo il tema che Wilma Labate, alla sua seconda opera da regista, vuole passare ai suoi più attenti spettatori. Già perché il cinema è probabilmente lo strumento più in grado di rendere quanto possa sanguinare una persona senza essere stato ferito nel corpo bensì, nell’anima, nella psiche. Anche perché comunque le ferite che esso rappresenta sulla scena, per quanto realistiche possano essere, rimangono pur sempre una finzione cinematografica. La raffica di mitra alle spalle che colpisce Anna Magnani, protagonista di Roma città aperta, rimane il simbolo del tradimento subito dal popolo italiano che si è lasciato ingannare da un regime totalitario fascista apparentemente dalla sua parte, in realtà dalla parte di Hitler; del capitalismo che il dittatore tedesco si era assunto il compito storico di difendere contro ogni attacco, tanto da ottenere fino all’ultimo l’appoggio della chiesa cattolica. Le code violente del regime mussoliniano si erano fatte sentire in Italia sin dal dopoguerra, prima sotto le forme di una mafia “politicizzata”, poi sotto forma di un terrorismo nero nascosto fra le pieghe dei servizi segreti e di altri organi dello Stato. La reazione delle B.R. sarà stata sbagliata, violenta e in definitiva perdente, come sottolinea lo stesso capitano dei carabinieri interpretato da Silvio Orlando parlando a Braccio, ma un risultato l’ha ottenuto: rendere un po’ meno grande la massa degli intellettuali al servizio di un potere capitalistico che produceva e continua e produrre disoccupazione, di cui si ode un eco nel film con la protesta dei senza lavoro che blocca il treno su cui viaggia scortato un criminale comune che verrà dirottato, per raggiungere il carcere di Bologna, sul blindato che stava apparentemente trasportando Braccio da Palermo a Milano. Se infatti per Rocco e i suoi fratelli Milano rappresentava solo un luogo di emigrazione che, lungi dall’arrecare reale benessere, mostrava tutta la differenza in negativo di una metropoli settentrionale a confronto con quelle più solari del centro e sud d’Italia, per Braccio rappresenta il porto di approdo dove ritessere legami umani e ritrovare qualcosa di familiare dopo quattro anni di regime speciale carcerario a Palermo. Ma niente di tutto questo e forse le critiche dei detrattori del film di Visconti restano vere. Milano è e resterà sempre un oscuro luogo fonte di depressione anche per chi deve affrontare una promessa mancata inventata ad arte da un colonnello dei carabinieri per estorcergli una confessione che non ci sarà. Non si può fare a meno di pensare che quel colonnello avesse in qualche modo a che fare con le stragi di matrice fascista mentre è certo che il capitano che ne realizza il piano è una delle tante vittime della disoccupazione, un laureato in economia e commercio espulso dal mondo mercato. Chissà perché ancora oggi la crisi economica preoccupa poco quella parte della politica italiana, che con i tagli alla scuola contribuisce ad incrementare la disoccupazione intellettuale?
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lorenzo
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sabato 12 novembre 2005
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ottimo film sugli "anni di piombo"
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E' uno dei pochi tentativi seri di elaborare in sede filmica il retaggio degli "anni di piombo": gli ex-rivoluzionari sono fotografati nella loro realtà umana, quella di vecchi ragazzi che, negli anni Settanta, progettavano attentati ed omicidi fra una festa ed una gita scolastica, senza la minima idea delle conseguenze devastanti che simili azioni avrebbero potuto avere sulle loro vite.
Non solo le condanne penali ed i sensi di colpa attanagliano i sopravvissuti, ma nella misura in cui i carcerati possono ottenere sconti di pena solamente collaborando cogl'inquirenti e denuciando i compagni rimasti a piede libero, paura e rancore li dividono uno dall'altro. Braccio, il protagonista del film, è un uomo profondamente solo.
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E' uno dei pochi tentativi seri di elaborare in sede filmica il retaggio degli "anni di piombo": gli ex-rivoluzionari sono fotografati nella loro realtà umana, quella di vecchi ragazzi che, negli anni Settanta, progettavano attentati ed omicidi fra una festa ed una gita scolastica, senza la minima idea delle conseguenze devastanti che simili azioni avrebbero potuto avere sulle loro vite.
Non solo le condanne penali ed i sensi di colpa attanagliano i sopravvissuti, ma nella misura in cui i carcerati possono ottenere sconti di pena solamente collaborando cogl'inquirenti e denuciando i compagni rimasti a piede libero, paura e rancore li dividono uno dall'altro. Braccio, il protagonista del film, è un uomo profondamente solo.
Gli stessi carabinieri che lo deportano da un carcere all'altro, cercando di sfruttarne le povere speranze per farlo "parlare", non sono trasfigurati in prodi difensori delle istitituzioni democratiche né in biechi servi del capitalismo reazionario: sono individui qualunque, colle loro storie e le loro paure. Il loro capitano si rende perfettamente conto del carattere rivoluzionario di quegli anni e di come un'utopia politica potesse risultasse affascinante agli occhi di ventenni cresciuti nel clima dell'Italia degli anni Settanta, ma deve compiere il suo dovere e sfruttare la disperazione di Braccio per fargli denunciare i suoi ex-compagni.
Il film rimane centrato sulle contraddizioni d'una rivoluzione abortita, che ha rovinato tante vite senza mai sfociare in una vera guerra civile (che per quanto feroce avrebbe potuto giustificare e dare un senso alle sofferenze che l'avevano preparata e che ne sarebbero risultate). Si tratta d'un film tipicamente italiano, a cavallo fra tristezza, malinconia e convinzione che la vita non ha alcun senso predefinito; lo si potrebbe forse paragonare a "Regalo di Natale" di Pupi Avati.
Il suo unico difetto: una certa tendenza a trasvalutare il protagonista in una sorta di eroe tragico, smarrendo l'equilibrio che caratterizza la struttura complessiva del film. Le conclusioni sono spesso il luogo di simili "inciampi", e questa rappresenta forse il momento più debole d'un film altrimenti apprezzabilissimo.
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