Roberto Nepoti
La Repubblica
Deserto del Sinai, esterno notte. Una dozzina di ragazze giunte dai paesi dell'Est europeo sono vendute all'asta, come bestiame. Avviate alla prostituzione con un corso accelerato, traversano una via crucis dove la terra promessa (Israele e i Territori) si trasforma in luogo di orrori e sopraffazione prestando il nome, con sadica ironia, a un bordello di piaceri da mattatoio.
Sfruttate, brutalizzate, violentate, le vittime dell'infernale tratta delle bianche - in Terra promessa - sono le schiave del XXI secolo; carne ridotta a pura merce dalla legge del profitto economico, sotto la cui bandiera si uniscono uomini altrove divisi da tutto: israeliani, palestinesi, russi. Pur se Gitai è visibilmente arrabbiato, la sua collera si esprime a freddo.
La prima parte di Terra promessa non racconta una storia in senso stretto, non ha un personaggio principale. Tagliato corto con tutti i cliché sulla prostituzione (a cominciare dal voyeurismo), la regia prende la distanza dal soggetto; trasuda energia nervosa nelle immagini girate con telecamera digitale; adotta la crudezza del reportage senza commento.
Proprio nel momento in cui sopprime l'emozione a comando, però, stabilisce un contatto forte con lo spettatore comunicandogli disagio, un malessere ai limiti della sopportazione. L'impresa di Gitai non si mantiene, purtroppo, coerente fino in fondo col suo assunto formale coraggioso e intransigente. Vengono fuori alcuni personaggi già visti e un epilogo che sa di espediente narrativo.
Da La Repubblica, 20 maggio 2005
di Roberto Nepoti, 20 maggio 2005