Le invasioni barbariche

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Un film di Denys Arcand. Con Remy Girard, Stéphane Rousseau, Dorothée Berryman, Louise Portal, Dominique Michel.
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Titolo originale Les Invasions Barbares. Commedia nera, durata 99 min. - Canada, Francia 2003. - Bim Distribuzione MYMONETRO Le invasioni barbariche * * * - - valutazione media: 3,21 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Non è un film del filone neostorico (a dispetto di quello che suggerisce il titolo). Non è un sequel (a dispetto dei fatto che rimette in scena a distanza di 17 anni lo stesso gruppo di personaggi e una situazione non dissimile: diciamo che è un nuovo incontro). Non è un film per tutti (perché bisogna aver vissuto un pochino, almeno un pochino, per capirne i risvolti e l’umanità, oltre che il divertimento). Non è un film di star (ma di bravissimi attori, cosi bravi che a una del Coro, Marie Josée Croze, è andato il premio per l’interpretazione femminile a Cannes). E non è un film triste, anche se parla di morte, anzi, di morire, anzi della mortalità, di come ci si avvia al grande sonno: doloroso sì, vero sì, toccante sì, ma non triste, perché Denys Arcand, il regista canadese che aveva realizzato quel piccolo capolavoro della chiacchiera e dell’allegro cinismo che è Il declino dell’impero americano, tratteggiando , moeurs , modi di essere, di pensare, di far sesso della sua generazione, usa l’ironia e lo humour come un spada contro il patetico e la tristezza, per trattare in modica quantità quello che il cinema di questi tempi tratta all’ingrosso: la morte di una persona. E ne approfitta per parlare di quello che costituisce la vita: gli amori, i tradimenti, le ambizioni, la politica, gli ideali, i soldi, l’etica, la droga. la libera scelta, e persino i sindacati.
Dunque perché Le invasioni barbariche? Beh, ha spiegato a più riprese Denys Arcand, francocanadese, 61 anni, regista di film intelligenti, divertenti e/o interessanti come, appunto, Il declino dell’impero americano, Jésus di Montreal, Love and Human Remains, perché «quando una civiltà è in declino arrivano i barbari». Perché, scrive nelle note di regia, le immigrazioni, i «diversi», fanno paura all’Impero e «visti da Washington, i francesi, i bulgari e i giapponesi sono la stessa cosa: barbari». Perché l’America l’11 settembre 2001 è stata colpita al cuore dall’invasione dei barbari e ha reagito «invadendo barbaramente altri paesi». E, in senso metaforico, perché il film parla anche di un’altra invasione, quella delle malattie, le nuove epidemie come l’Aids e la Sars, le vecchie come il cancro, di cui il suo protagonista Rémy sta morendo - e di cui sono morti la madre e il padre di Denys Arcand, che li ha assistiti e ha sviluppato dunque una speciale sensibilità ospedaliera.
Pare di sentire Mike Bongiorno invocare «allegria». E invece no. C’è una paradossale allegria (e molta intelligenza) nel modo in cui vive questo passaggio Rémy — che nella vita è l’attore Rémy Girard, il professore donnaiolo di Il declino dell’impero americano. Eterno ragazzaccio, seduttore incallito, pessimo marito, uomo intelligente, polemista (ce n’è anche, dal Canada, per Berlusconi...), Rémy si trova confinato in un letto di ospedale con un cancro terminale. Che si fa? L’ex moglie, che gli vuole ancora bene, convince il figlio Sébastien, che vive a Londra e non va molto d’accordo con il padre, a venirlo a trovare. E Sébastien, che a Londra fa uno di quei misteriosi e ricchissimi mestieri legati alla finanza, viene e organizza: una stanza conquistata a colpi di mazzette in un piano abbandonato di un ospedale dove altrimenti si muore nei corridoi, gli amici del padre convocati per tenerlo allegro e per rievocare i bei tempi, gli errori, le illusioni su tutti gli «ismi» vissuti insieme (marxismo, strutturalismo, nichilismo, femminismo), i suoi studenti, che se ne fregherebbero, comandati a venire a tenergli su il morale. E un’amica d’infanzia dei figlio, ex drogata e molto sola, per procurargli la droga che può alleviare le sue sofferenze.
Potere del denaro ma anche dell’immaginazione. Attorno al letto di ospedale di Rémy si muove un teatrino di sentimenti, di intelligenza, di quello che si chiama in inglese wit niente che possa sconfiggere la morte, ma molto per alleviare la strada che vi conduce. Compreso l’aiuto, impensabile, di una suora, per accelerare il grande passo.
Nelle mani di un altro regista, con tutti questi figli, amanti, ex consorti, ricordi, intrecci, ragazze disperate, malattie, Le invasioni barbariche avrebbe potuto essere una soap opera (beh, veramente c’è sempre Almodòvar, capace dì trattare con umanità e intelligenza il tema della morte, come ha fatto in Parla con lei). Nelle mani di Denys Arcand il film diventa il ritratto di una generazione, o meglio di una fascia di quella generazione (quella che ha vissuto con tutti i suoi eccessi la liberazione sessuale, il distacco dalle tradizioni, una piccola rivoluzione sociale, le speranze di trasformazione, le passioni politiche e intellettuali), oltre che una meditazione sull’esistere, un fuoco d’artificio di humour e una lezione di controstoria; terribile, tragico, quello che è successo l’il settembre (di cui si intravedono alcune immagini spaventose), ma la storia dell’umanità, che noi raccontiamo sempre dal punto di vista occidentale, è sempre stata così, conciona Rémy, davanti a un’allibita infermiera, facendo un lungo catalogo di orrori di cui l’Olocausto, l’11 settembre e la guerra d’Iraq sono solo gli ultimi episodi.
«Non so se si possa morire in letizia», ha detto Arcand ai tempi della presentazione dei film a Cannes alla nostra Natalia Aspesi, «ma si può forse concludere la propria vita con un bilancio positivo, con la certezza di lasciare dietro di sé qualcosa». E non si parla certo di denaro, che è semmai appannaggio della nuova generazione rappresentata da Sébastien: il quale non ha mai letto un libro, sostiene suo padre, ma guadagna mezzo milione di dollari all’anno («Lui è un capitalista puritano. Io un socialista sensuale»). Si parla di idee: Rémy lascia alla sua giovane amica ex junkie i suoi libri (Primo Levi e Samuel Pepys, Cioran e Solzenicyn), «il tesoro magico della cultura europea, quella che ha alimentato la mia generazione e che rischia di scomparire». Perché «la cultura segue gli eserciti, che distruggono quello che sottomettono. E ormai sono le armate dell’impero americano a decidere la cultura del futuro». Per questo, ci dice Arcand, è importante fare quello che farà la Nathalie del film, l’ex drogata: «Conservare i manoscritti, come nel Medioevo». Conservare la memoria. Il solo modo di sopravvivere alla morte.
Da Il Venerdì di Repubblica, 5 dicembre 2003


di Irene Bignardi, 5 dicembre 2003

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