A proposito di Schmidt

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Un film di Alexander Payne. Con Jack Nicholson, Kathy Bates, Hope Davis, Dermot Mulroney, June Squibb.
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Titolo originale About Schmidt. Drammatico, durata 125 min. - USA 2002. MYMONETRO A proposito di Schmidt * * * - - valutazione media: 3,27 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

FILM REAZIONARIO E BANALMENTE PESSIMISTA Valutazione 2 stelle su cinque

di THEOPHILUS


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venerdì 29 novembre 2013

ABOUT SCHMIDT
 
 
Non ci sentiamo di attribuire a questa pellicola del regista americano Alexander Payne il valore di fiction: c'è parsa più un documentario sui luoghi comuni, la retorica e le ipocrisie che attraversano la vita del piccolo borghese.
Preso a prototipo un fantoccio gonfio, inespressivo, incapace di articolare un pensiero o una critica al mondo in cui vive, insignificante ed indistinta tessera di un grigio mosaico qual è.
Neppure il regista sembra però in grado di farlo, dal momento che non eleva una sola voce di dissenso, di protesta o, almeno, di commento. Si potrebbe ribattere che le immagini proposte sono più che eloquenti e che si commentano da sole e anche che A proposito di Schmidt può voler rappresentare un esempio negativo da non seguire: se è così, il pessimismo di Payne è perlomeno altrettanto letale quanto la noia che ingenera la visione di questa pellicola. Prendiamo atto che per il regista americano l’uomo è un Frankenstein – tale è sembrato a chi scrive Jack Nicholson che si aggira come uno zombie sulla terra, portandosi appiccicata appresso – grosso lumacone – la sua casa, incapace di poter fare a meno di quel teorema. Ma, certo, il camper - l’avventura on the road (?!) – non può essere la sua vera casa. Solo là, in quell’insieme di mattoni dove riporta la sua carcassa dopo aver incassato dosi da elefante di rimpalli, Schmidt – nell’apoteosi consolatoria del buonismo –  potrà trovare la soluzione ai suoi problemi, una ragione di vita, anzi la ragione di vita: una lettera di ringraziamento scrittagli da una suora missionaria in Africa che allega a Schmidt un disegno fatto dal bambino che il nostro eroe ha adottato a distanza.
Il film ha inizio in una stanza vuota con Schmidt, seduto, che fissa un orologio appeso alla parete che sta per segnare le ore 17. L’ora arriva e Warren Schmidt si alza, dà una rapida occhiata e se ne va: il suo ultimo giorno di lavoro è terminato e ha così ufficialmente inizio la sua vita da pensionato. In realtà, il film non parla di ciò che accade all’uomo dopo la sua quiescenza o, perlomeno, ciò appare incidentale. Che il film abbia inizio con quella scena, in quel particolare periodo della sua vita, è casuale e trascurabile. Tutto quello che questo impiegato di una società di assicurazioni qualsiasi incontra da questo momento, gli sarebbe accaduto comunque, a partire da qualsiasi altro momento della sua esistenza. Vediamo infatti la cena d’addio con i colleghi, i regali, i discorsi, le pacche sulle spalle, le proteste che senza di lui non sapranno come fare, le raccomandazioni di farsi vivo: insomma, tutto il campionario tipico che, con qualche trascurabile variante, viene sfoggiato in queste o similari circostanze; poi i rapporti stantii e livorosi con la moglie, che non c’è motivo di supporre che fossero diversi prima; l’incapacità di Schmidt di gestire la casa al momento della morte improvvisa di lei, che, verosimilmente, il nostro aveva già sperimentato in periodi di lontananza della donna; i rapporti difficili con la figlia, che lo rimanda a casa prima ancora di vederlo: anche in questo caso sembra difficile poter incriminare la pensione; la vuota e banale cerimonia di matrimonio della ragazza che non deve essere stata molto diversa dalla sua; l’approccio patetico e maldestro con una donna più giovane; un altro dove è la donna che ci prova, ma lui non ne vuole sapere… tutto come sempre. Dopo aver visto tutto questo e altre delizie (confessiamo che una parte ci è sfuggita perché il sonno ci è venuto in soccorso, ma chi era con noi ci ha assicurato che non ci siamo persi niente), ci aspettavamo che il film decollasse, o perlomeno terminasse, che il regista – dopo una disamina impietosa – ci proponesse una sua visione, ci facesse intravedere una soluzione, facesse arrivare il nostro impiegato ad un riscatto impensabile, magari mostrandocelo mentre si sparava un colpo in bocca – scontato, ma meglio che niente. E invece, niente. Il finale che abbiamo già sopra descritto, con qualche lacrimuccia: l’evidente convinzione da parte del regista che per l’uomo non c’è proprio nessuna strada per combattere l’abbrutimento al di fuori di un assegno mensile. A noi è parso offensivo e reazionario: ma sappiamo di essere controcorrente.
C’è chi ha visto in questo film un quadro amaro dell’America contemporanea, in stridente contrasto con gli strombazzamenti guerrafondai del suo presidente. Noi non abbiamo notato dei riferimenti sociali, politici o geografici tali da delimitare quel quadro alla pur grande area americana: abbiamo invece avvertito una voluta e convinta valenza universale in quelle immagini, così come nella figura di Schmidt.
Se comunque non abbiamo letto di lodi incondizionate al film, la prova di Nicholson è stata unanimemente giudicata degna di oscar. Noi, ancora, ci permettiamo il beneficio del dubbio e ci chiediamo, con espressione colorita e in voga, se il vecchio Jack c’è o ci fa: temiamo cioè che quella sua maschera impietosa sia ormai quella vera di un attore che, dopo una splendida carriera, ha imboccato la strada del tramonto e che negli ultimi anni (a partire da Qualcosa è cambiato) è sempre più usata come stereotipo, anziché quella di un grande istrione che ci ha dato un’ulteriore prova delle sue capacità.
 
Enzo Vignoli    
6 marzo 2003

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