Le invasioni barbariche

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Un film di Denys Arcand. Con Remy Girard, Stéphane Rousseau, Dorothée Berryman, Louise Portal, Dominique Michel.
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Titolo originale Les Invasions Barbares. Commedia nera, durata 99 min. - Canada, Francia 2003. - Bim Distribuzione MYMONETRO Le invasioni barbariche * * * - - valutazione media: 3,21 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Parlare è un po' morire Valutazione 4 stelle su cinque

di Germon


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lunedì 11 febbraio 2013

Gerardo Monizza

Delusione o arroganza, isolamento o fratellanza: sono i dubbi (o le certezze) di una vita. Rémy muore o meglio: sta morendo, ma non tace un attimo. È un professore universitario di storia forse non tanto male (nella didattica); in quanto al fisico è un uomo ultracinquantenne della specie comune: calvo, pancetta, fiacco, ma non flaccido. Adorabile e possente, se si devono considerare i suoi racconti erotici e le sue amanti; un “porco” lo considera tuttora la ex moglie (abbandonata, ma mai definitivamente lasciata) testimone perenne delle sue scappatelle e dei suoi malumori di rivoluzionario deluso.

Rémy (un corposo e sconsolato Rémy Girard) ha fatto il Sessantotto traendone sogni, una buona dote d’ideologia, una discreta cultura e tonnellate di dialettica. Dunque: Rémy sta morendo, ma non vuole. È umano. Si trova in un ospedale canadese (con tutte le caratteristiche di confusione, malasanità, disorganizzazione, pressappochismo di quelli nostrani) e muore scontento e infelice. La (ex) moglie Louise (Dorothée Berryman) ha un rigurgito di tenerezza e chiama al capezzale il figlio Sébastien (Stéphane Rousseau). I due non si parlano da tempo: il padre, professore, intellettuale non apprezza, né tollera il figlio finanziere, affarista, liberista, avventurista, capitalista. Li separano l’idea stessa della vita e della morte e migliaia di chilometri.   Rémy sta a Montreal, il figlio a Londra. Ma Rémy sta morendo. Non c’è ideologia che tenga: le forze e la vita se ne vanno; il dolore sopravviene.

Buttati fuori dalla porta, l’amore e i sentimenti rientrano dalla finestra e insieme ritornano non l’unità della famiglia (che sarebbe impossibile), ma la comprensione e la compassione. Riappaiono, chiamati dal figlio che intende organizzare al meglio gli ultimi istanti del padre, anche agli amici di un tempo e le amanti amate per un tratto della vita, ripresentatesi a percorrere – insieme per pochi giorni – il ricordo e l’esperienza della giovinezza, senza nostalgie sciocche e senza rimpianti inutili, ma per godere attraverso le parole (e i piaceri della vita e della tavola) gli ultimi momenti di una vita fuggente.

“Le invasioni barbariche” è un film aspro, ma non cattivo e addirittura tenero nel tratteggiare il tempo delle delusioni profonde che attraversano i diversi soggetti di questa piccola comunità che si raccoglie intorno al capezzale di un amico. Rémy che muore è anche il simbolo di un mondo che scompare e che solo la parola può salvare. Rémy parla parla parla e con gli amici riempie le ultime giornate di piccole delizie (della tavola) e di parole che liberano finalmente i pensieri più nascosti (quelli sul sesso sono godibilmente sporcaccioni) o più eccitati (quelli sulla politica sono addirittura indecenti) rivelando del gruppo (tutti insegnanti universitari) una profonda cultura (diciamolo: classica e filosofica) e – infine – una grande umanità.

“Le invasioni barbariche” (regia e sceneggiatura Denys Arcand) è una storia che cerca di dare il giusto senso alle cose (idee, amori, passioni, rapporti umani eccetera) e di trasmettere l’amore per la vita. Rémy e i suoi amici, a furia di parlare, ristabiliscono le proporzioni, ma soprattutto le distanze, tra il Grande Impero Americano (già bersaglio del regista nel “Declino dell’Impero Americano”, 1987) e la razza dei “barbari”. I quali, nonostante il nome e le apparenze, non sarebbero gli “invasori” temuti, ma i “salvatori” dell’umanità e gli unici capaci di reagire attraverso la concretezza del pensiero.

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