Bologna, 1954. Un timido giovane ha il sogno di diventare membro della comitiva del bar Margherita, un locale di via Saragozza, frequentato da personaggi eterogenei e singolari. Il bar rappresenta il paradigma della vita lenta italiana anni ’50, con le sue storie, le sue chiacchiere e le sue ghignate tipicamente provinciali.
Per il suo Gli amici del bar Margherita pare proprio, sin dalle prime scene, che Pupi Avati abbia preso Amarcord e I vitelloni di Federico Fellini come due grandi punti di riferimento.
Se del primo possiamo notare il carattere nostalgico che porta al riemergere di una realtà lontana dalla nostra, è del secondo la sua struttura non unitaria, episodica, fatta di aneddoti che coinvolgono i protagonisti. Purtroppo tra i film sopracitati e questo vi è però un abisso che non permette particolari lodi di parentela bensì una sorta di sconcerto che alla fine, nonostante le risate qua e là, porta inevitabilmente ad affermare: “si poteva fare meglio”.
Le motivazioni sono molteplici. In primo luogo non c’è una solida sceneggiatura e non c’è profondità nei personaggi. Gli episodi si susseguono senza una tangibile appartenenza a un tutto che li deve racchiudere, sono isolati, soffrono di un sistema di vasi non comunicanti. La quasi totale mancanza dei dialetti, delle cadenze e degli accenti rende la rappresentazione artificiosa e plastica, elemento inverosimile se si tratta di ritrarre un ambiente popolare come quello di un bar. Il dialetto ha un ruolo essenziale nell’immersione dello spettatore nel contesto ed è proprio questa mancanza che pone Gli amici del bar Margherita a notevole distanza, in fatto di ricostruzione storica, da un Baarìa (tra l’altro nemmeno l’opera migliore di Tornatore, a mio parere).
Un altro punto debole sul quale vale la pena soffermarsi è la condizione di sagome in cui sono costretti a muoversi i personaggi. La maggior parte di essi grida invano per tutto il film nel tentativo di raccontare la propria storia ma vengono relegati in macchiette. In particolare è sconfortante vedere come il personaggio di Diego Abatantuono venga ulteriormente compresso, non pago del suo già modesto spessore, schiacciato sulla reiterazione di un tormentone a lungo andare indigesto. E così egli si manifesta come un Abatantuono di Mediterraneo di Salvatores che però vagheggia nei pressi della dimensione grottesca di Attila flagello di Dio.
Infine vi è la discutibile scelta, sebbene ammetto si tratti di pura opinione personale, di trasformare in cinepresa l’occhio di un personaggio che possiede fin troppi aspetti negativi per essere il protagonista di un film di questo tipo. Se in I vitelloni, il protagonista, Moraldo, che mantiene allo stesso modo un ruolo abbastanza passivo, da osservatore, è però proprio lui l'unico ad avere il coraggio di lasciare il paese e partire per Roma; nel film di Avati questo ruolo appartiene a Coso, che però non ha nessuna parabola, nessun riscatto, anzi, ambisce a far parte della comitiva del bar poiché gode proprio nell’osservare i suoi amici, che per lui sono più che amici, sono miti, ma in realtà miti non sono. Tutto lo sforzo di Moraldo nel lasciarsi alle spalle una realtà deleteria e maturare una visione più sobria di ciò che lo circonda, il suo sguardo amareggiato, viene sostituito dal sorrisetto beota di Coso che al contrario abbraccia quella realtà fatta di goliardia paesana e irresponsabile.
Che dire di buono, quindi, di questa grande occasione sprecata? Sicuramente l’aspetto “estetico”.
Scenografie e luci sono veramente eccezionali. I costumi bellissimi e coerenti. Infine gli interpreti dimostrano una bravura che riesce, fortunatamente, a rimanere indipendente dalla natura farsesca dei personaggi, da segnalare soprattutto Neri Marcorè, Fabio De Luigi (da antologia il suo provino per partecipare a Sanremo) e Luigi Lo Cascio (una risata tanto irritante quanto indimenticabile).
In sintesi un buon film, non eccezionale ma nemmeno sconsigliabile.
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