Cosa c’è di più doloroso di un batterista che non riesce più a sentire? Cosa c’è di più umiliante di chi ha dedicato la possibile redenzione dalla tossicodipendenza alla musica, per poi veder i suoi propositi infranti da una terribile malattia degenerativa?
Se lo domanda il regista esordiente Darius Marder che nel suo ultimo film, Sound of metal candidato ai prossimi Oscar, trova proprio nel volto cinico e tormentato di Ruben (Riz Ahmed) la risposta ai suoi interrogativi. L’attore e rapper britannico di origini pakistane dona il suo volto e il suo phisique du role dopo il fortunato Mogul Mowgli a un nuovo dramma indipendente americano firmato Amazon Prime Video in cui fondendo musica, storia d’amore e sofferenza, si muove tra i lacerti di un’esistenza fin troppo contrastata.
E noi spettatori ne seguiamo l’evoluzione, quella di una malattia alla coclea che astrae presto dalla vicenda di un batterista del duo Blackgammon insieme alla cantante e fidanzata da quattro anni, ex depressa cronica, Lou (Olivia Cooke) in tour “rurale” in continuo nomadismo, ad una riflessione organica sui limiti dell’amore. E soprattutto della musica.
Quando infatti, la malattia permea come un sibilo acuto il lento declinar di Ruben nell’inferno in maniera irreversibile, impedendogli di dar voce alla sua vita, questi non si arrende ma inizia a frequentare una comunità di non udenti, gestita da Joe, reduce dal Vietnam, per ritrovar in essa una sorta di elaborazione lenta ma necessaria al lutto. E mentre Lou si allontana in Francia dal padre, per permettere all’amato di vivere un’elaborazione precisa ma ineluttabile di una perdita, ecco allora che Ruben, non demorde ma ricerca qualcosa che già in cuor suo è inevitabile e a cui non vi è scampo. Neanche se si hanno quei quarantamila euro per un’operazione, neanche con l’uso artificioso di micro-cuffie dal sordo eco metallico. Ecco quindi che noi spettatori assistiamo impotenti a un dramma decostruttivo e distruttivo sulla personalità di Ruben che Riz Ahmed riesce a donare con grande capacità, grazie a una perfetta mimesis nel ruolo da cui, quale assertore della musica, cerca in tutti i modi di sfuggire, rivolto a un’esperienza sensoriale completamente diversa e per converso assai più isolata.
Marder indugia nel volto scavato del protagonista, nella sua apparente serenità all’interno della comunità di non udenti, volendo in qualche modo evidenziare la lotta quotidiana di coloro che giudicati diversi, vengono spesso additati come “handicappati” da gente fin troppo superficiale, e chiaramente ne enfatizza le scelte, epurando ogni scena da una sana retorica di fondo sulla disabilità e riuscendo, in ogni caso, a creare quella difficile empatia grazie a una colonna sonora sperimentale.
Certo, l’operazione non è esente da difetti, specie nel rapporto assai discordante tra due solitudini incrociate, nello sviluppo a tratti forzato della perdita d’udito quasi estemporanea eppure, Sound of metal è una pellicola onesta, sincera, apologo di un’America che ha smarrito troppo presto il suo senso d’orientamento e che ricerca nello sguardo complice di un passante, di un amico, di un conoscente confuso tra la gente, un imponderabile vaticinio per un futuro incerto, in cui, pare dirci il regista, talune volte forse appare scelta più saggia quella di non sentire, isolandosi in un ovattato silenzio. E nel suo riparato suono.
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