J'ai tué ma mère è un piccolo gioiello di cinematografia del talentuoso quanto precoce Xavier Dolan, che, al suo esordio alla regia, a soli 20 anni, ha scritto il soggetto e la sceneggiatura, diretto ed interpretato da protagonista un film nel quale immagini, musica, citazioni, colori e sentimenti si fondono, con estrema naturalezza, in un’opera drammatica, che, pur prendendo spunto da vicende autobiografiche, non rimane un racconto intimista asfitticamente chiuso nell’ambito di una soggettività adolescenziale, ma si espande da subito abbracciando temi universali.
Più adatta nell’incipit sarebbe stata, forse, la citazione di alcuni versi di Supplica a mia madre di Pasolini: “Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia”, piuttosto che quella di un aforisma di Guy de Maupassant “On aime sa mère presque sans le savoir, et on ne s’aperçoit de toute la profondeur des racines de cet amour qu’au moment de la séparation dernière”.
Dolan, impressionando la pellicola con l’arte di un Degas, fa risaltare il carattere essenziale dei suoi personaggi, colti in un particolare stato d’animo, quello della stasi che prelude al movimento, ritraendoli in spazi angusti, limitati, a rappresentare metaforicamente la chiusura al mondo e contemporaneamente l’anelito inconsapevole alla rottura degli schemi e all’apertura verso l’altro. La donna intrappolata nel suo ruolo di insegnante e raffigurata mentre serve il tè al suo giovane ospite, quasi immobilizzata, prigioniera del mobilio antiquato della vecchia casa ereditata dalla nonna, fuggirà in un viaggio liberatorio verso la Columbia Britannica a raggiungere un’amica. La madre bloccata in un angolo, tra il computer e una stupida trasmissione televisiva, in una impenetrabile fortezza di finta indifferenza, eretta a difesa della propria inadeguatezza, avrà la forza di reagire, rompendo la monotonia delle schermaglie tipiche del conflitto generazionale, in uno slancio emotivo che supera la barriera della incomunicabilità.
Se la ragione si rivela impotente e le parole inutili, sembra dire Dolan, non resta che fare appello al cuore e risalire la china dei ricordi, fino al paradiso perduto dell’infanzia, al rifugio ancestrale dei giorni felici della casa al mare, ritrovando la simbiosi perfetta di madre e figlio nelle nostalgiche immagini sgranate di un vecchio filmino a colori, girato in Super 8, che idealmente si contrappongono a quelle iniziali, riprese con una video camera, in bianco e nero, a raccogliere le confessioni di odio-amore del protagonista verso suo madre per l’incapacità di dirle la sua diversità, dovuta a quel nemico interiore che impedisce la verità nei rapporti, creando ostacoli alla reciproca comprensione, e che è il vero nemico da uccidere.
Alcune piccole pecche si possono riscontrare nelle sequenze finali. Ad esempio, l’inquadratura frontale dei due, mentre il ragazzo prende la mano della madre, speculare alla precedente scena, nella quale i due sono ripresi di spalle, davanti a una scogliera, con la madre che sedutasi accanto al figlio lo abbraccia, risulta ridondante rispetto alla prima, già poeticamente suggestiva e compiuta, così come ultroneo e retorico appare il gesto del protagonista di staccare la grossa lacrima azzurra dal viso del pupazzetto che raffigura sua madre.
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