Film di strada, con giovani attori professionisti agli esordi o dilettanti presi dalla gente comune, girato in una New York bellissima e vera, mai vista prima così, se non nelle immagini in bianco e nero di Woody Allen in Manhattan, comunque artificiosa e priva della spontaneità con cui è filmata da Cassavetes.
In primo piano il vagabondare di tre amici sfaccendati da un bar all’altro, a caccia di donne di poco conto e pronti alla rissa, che riecheggiano specularmente i borgatari pasoliniani d’oltreoceano, e il menage familiare di tre fratelli afroamericani dalla diversa gradazione del colore della pelle, la bianca, il meticcio, il nero, nell’ordine, accettata, in bilico, rifiutato, dalla società razzista americana del 1959.
Dialoghi improvvisati in presa diretta a rappresentare il vuoto esistenziale, quell’angoscia di vivere heideggeriana citata in un salotto di intellettuali ed inserita volutamente in modo paradossale e sarcastico proprio tra le chiacchiere borghesi, per il Filosofo antitesi del vivere autentico.
Il vuoto è riempito soltanto dalla musica, un jazz sincopato che scandisce il tempo di una giornata qualsiasi, uguale a tante altre, una colonna sonora in sintonia con le note della canzone che ha in testa il musicista di colore e che stenta a prendere una forma accettabile, un motivo che resta nell’aria come un accenno di qualcosa, che è ancora vivo perché incompiuto.
Non è neorealismo, è puro vitalismo. A parte qualche scena drammatica ed intimistica, dove subentra forse il desiderio di performance attoriale della giovane protagonista, Lelia Goldoni, peraltro simbolo convincente di una femminilità che tenta di rompere le catene dei pregiudizi sessisti dell’epoca e anticipatrice delle battaglie femministe degli anni ’60, l’intento di Cassavetes non è di riprodurre il vero affrontando tematiche sociali, ma di cogliere queste nella vita quotidiana di gente qualunque, attraverso una recitazione naif che a tratti si mostra per ciò che è, svelando l’uomo dietro la maschera e così vivificando la denuncia piuttosto che teorizzarla, ingabbiandola in uno schema scenico costruito ad arte. Il ragazzo bianco nell’impulsivo rifiuto, quasi una repulsione istintiva per il colore diverso della pelle, incarna, in quel momento, il Razzismo.
Ombre è un documento prezioso, una testimonianza disperata di un altro modo di fare cinema, alternativo sia alle produzioni hollywoodiane di film di cassetta, sia alle regie costruite su solide sceneggiature che in contemporanea in Europa ed in particolare in Italia tentavano una mimesi interpretativa della realtà che Cassavetes invece si limita a riprendere, nella ricerca dell’autenticità al di là della finzione.
L’improvvisazione predomina a tal punto sul soggetto che in alcune scene gli attori appaiono per quello che sono, ovvero uomini che fanno gli attori impegnati a recitare una parte, ombre di sè stessi e dei personaggi che interpretano e la loro risata naturalmente sguaiata e spesso senza motivo rimarrà per questo nella storia del cinema.
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