Il fiore delle mille e una notte

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Un film di Pier Paolo Pasolini. Con Franco Citti, Ninetto Davoli, Ines Pellegrini, Christian Alegny, Margareth Clementi Commedia, Ratings: Kids+16, durata 130 min. - Italia 1974. MYMONETRO Il fiore delle mille e una notte * * * - - valutazione media: 3,34 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Una voce espressa a favore della carnalità. Valutazione 4 stelle su cinque

di Great Steven


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sabato 16 marzo 2019

IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE (IT/FR, 1974) diretto da PIER PAOLO PASOLINI. Interpretato da NINETTO DAVOLI, FRANCO MERLI, INES PELLEGRINI, FRANCO CITTI, CHRISTIAN ALEGNY, MARGARETH CLEMENTI
Alla base v’è l’omonima raccolta di novelle arabe, sistemate in forma canonica attorno al 1400: nella vicenda del giovane Nur-er-Din, figlio di un mercante, che dapprima acquisisce come sua schiava la bella e sveglia Zumurrud, se ne innamora ricambiato, la perde perché abbindolato da un cristiano malvagio con loschi fini e la ritrova, dopo numerose peripezie, sotto le spoglie maschili del re Sair, sono contenute, come in una scatola cinese, le altre quattro, fra cui due in particolare spiccano: il tormento di Aziz, promesso sposo alla cugina Aziza, infatuato di una dama aggraziata ma, a sua insaputa, maligna per la quale perde il senno e fa morire di dolore Aziza per poi subire egli stesso la castrazione come castigo per il suo ingenuo ma intenso doppiogiochismo amoroso e ritrovarsi infine solo con la disperazione del tempo male utilizzato; la storia del figlio di un capitano marittimo che impalma fisicamente l’amante di un demone in una caverna sotterranea finché la malvagia creatura non scopre la loro tresca, uccide la ragazza e trasforma il giovane in scimpanzé, salvo poi ritornare uomo quando un re riconosce in una pergamena da lui scritta un’eccezionale grafia umana e vede sacrificarsi la figlia, tramite un incantesimo, per restituirgli le sue originali sembianze. Come citazione che fa da filo conduttore all’ultima parte della cosiddetta trilogia della vita, tutta all’insegna dell’esaltazione del sesso e della morte incombente, c’è la seguente frase: «La verità intera non sta in un solo sogno, ma in molti sogni». Fra Il Decameron e I racconti di Canterbury, appare come quello maggiormente risolto e sereno, e la sua genialità deriva dalla natura stessa della raccolta araba, che in questo caso ha dispensato l’autore da qualunque obbligo di confrontarsi narrativamente con la Storia e il potere, qui rimpiazzati dalla forza trascinatrice della fatalità e dalla pienezza dei sentimenti assoluti. Nonostante i costumi di Danilo Donati, le orientaleggianti musiche di Ennio Morricone, il placido montaggio di Nino Baragli e la sfarzosa scenografia di Dante Ferretti riescano a farla da padrone per buona parte della durata della proiezione, le interpretazioni trovano comunque un loro spazio espressivo senza farsi mettere in secondo piano e con un accento d’emersione per imporporare il linguaggio di negoziazione emotiva che parlano i personaggi, spesso tinto di mordace ironia, pungente sarcasmo, intenzioni birichine, fuoco che cova sotto la cenere e comunicabilità anelata oltre ogni pericolo. Davoli e Citti, come sempre attori feticci insostituibili nel repertorio pasoliniano, brillano ancora per carisma anti-divistico e si ritagliano una consistente fetta di torta nel quadro recitativo: il primo è estremamente ammirevole nelle vesti di Aziz, ragazzo piuttosto stoltarello che, in quello che dovrebbe essere il più felice giorno della sua vita, rovina il suo futuro di marito ed uomo a causa di un capriccio del cuore che finisce per costargli carissimo, mentre consuma un rapporto sessuale dopo l’altro nella fatua ignoranza di un destino nefasto; il secondo, malgrado l’esiguità dei minuti sullo schermo, è un impressionante, sogghignante e perverso demonio dai capelli rossi che, armato di spada, non appena s’accorge che le sue leggi da Ade sono state violate, mutila la ragazza che gli aveva giurato fedeltà e poi, in un viaggio a mezz’aria dal folle trasporto ventoso, abbandona il ragazzo nel deserto dopo aver effettuato la metamorfosi di cui sopra. La dimensione erotica del contesto potrebbe sembrare languida e scurrile se non le venisse in soccorso la robustezza della sceneggiatura che lima la giocosità delle parole, attenua ogni accenno alla sfrenata libertà dei sensi e attribuisce un ben preciso significato alle azioni, sia benigne che disdicevoli, che i caratteri compiono, in ogni caso manovrati da passioni che scaturiscono direttamente dalla loro materia cerebrale infuocata dalla contrapposizione ineliminabile éros-thànatos. Il perno principale delle avventure di Zumurrud e Nur-er-Din è la gioventù, qui vista come uno spirito che nasce per scoprire il mondo (e tutte le sue nefandezze o sorprese accattivanti) e mettersi in gioco anche e specie se non si hanno nozioni per affrontare ostacoli, vigliaccherie altrui e trappole tese in agguato; il loro amore risulta comunque, rispetto ai canoni consueti di Pasolini (regista che in quest’opera, come non accade spesso, ha un occhio più contemplativo che giudice), tenero e comprensibile per la sua naturalezza. Incassò la metà de I racconti di Canterbury (1972) e meno di un quarto de Il Decameron (1971), eppure, o proprio per tale motivo, presentato a Cannes 1974 in una versione di centocinquantacinque minuti – poi ridotta di venticinque da Pasolini stesso e messa in commercio così –, fu premiato. Venne archiviata una denuncia di oscenità dalla Procura di Milano.

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