fabio silvestre
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domenica 12 gennaio 2025
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sceneggiatura simpatica ma non da oscar!
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Si sa i premi Oscar devono accontentare un po' tutti e quindi questo film che presenta una sceneggiatura simpatica con alcune trovate originali - il professore universitario "Monk" che scrive sotto lo pseudomino di un evaso dal carcere un libro dal titolo "Fuck" con tutti i luoghi comuni sui neri e sulle problematiche collegate ai rapporti con i bianchi - risulta alla fine una commedia con diversi temi, quelli familiari e sulla razza, che nulla aggiunge a quanto già visto. il film scorre quindi con qualche azzeccata gag sul politicamente corretto e sul mercato e la distribuzione dei libri ma con un ritmo lento. La durata poteva essere tranquillamente diminuita di una mezzora.
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Si sa i premi Oscar devono accontentare un po' tutti e quindi questo film che presenta una sceneggiatura simpatica con alcune trovate originali - il professore universitario "Monk" che scrive sotto lo pseudomino di un evaso dal carcere un libro dal titolo "Fuck" con tutti i luoghi comuni sui neri e sulle problematiche collegate ai rapporti con i bianchi - risulta alla fine una commedia con diversi temi, quelli familiari e sulla razza, che nulla aggiunge a quanto già visto. il film scorre quindi con qualche azzeccata gag sul politicamente corretto e sul mercato e la distribuzione dei libri ma con un ritmo lento. La durata poteva essere tranquillamente diminuita di una mezzora. Si può vedere ma non aspettatevi una trama da Oscar! Voto: 6/10.
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felicity
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venerdì 15 marzo 2024
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contro il politicamente corretto
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American Fiction prende in giro gli stereotipi di genere su cui molti si soffermano pur dicendosi avanti anni luce rispetto agli altri.
Monk combatte tutta la vita per non essere classificato come nero. Vale per le sue lezioni e, soprattutto, per i suoi libri che, tuttavia, i librai confinano sempre nella sezione afroamericana anche se i suoi personaggi non c'entrano nulla con quel mondo.
American Fiction è un piccolo capolavoro che riesce a rappresentare alla perfezione le ipocrisie di una società in cui tutti sembrano attentissimi a non dire la cosa sbagliata non tanto perché non è giusto dirla, quanto per il rischio di essere cancellati.
E' una denuncia aperta al romanzo americano e, soprattutto, alla difficoltà di sottrarsi alla pratica comune dello stereotipo.
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American Fiction prende in giro gli stereotipi di genere su cui molti si soffermano pur dicendosi avanti anni luce rispetto agli altri.
Monk combatte tutta la vita per non essere classificato come nero. Vale per le sue lezioni e, soprattutto, per i suoi libri che, tuttavia, i librai confinano sempre nella sezione afroamericana anche se i suoi personaggi non c'entrano nulla con quel mondo.
American Fiction è un piccolo capolavoro che riesce a rappresentare alla perfezione le ipocrisie di una società in cui tutti sembrano attentissimi a non dire la cosa sbagliata non tanto perché non è giusto dirla, quanto per il rischio di essere cancellati.
E' una denuncia aperta al romanzo americano e, soprattutto, alla difficoltà di sottrarsi alla pratica comune dello stereotipo. Una relazione fra realtà e finzione, in cui la seconda, attraverso le narrazioni, implementa e definisce la prima. Da questo loop il protagonista tenta di uscire per non alimentare una visione della popolazione afroamericana povera, ignorante, ghettizzata, violenta e triviale. Monk vuole assolvere al ruolo profetico e salvifico dell’intellettuale e costruire contro-narrazioni molto più stratificate che, certo, vendono di meno, ma con uno scopo ben più nobile: alfabetizzare sulla complessità.
Il film si scaglia senza mezzi termini contro le narrazioni semplicistiche, funzionali a confermare i luoghi comuni stabiliti dalla mentalità prevalente, e in tal senso può esser anche letto come un film sul cinema contemporaneo, dominato da un politicamente corretto sempre più inflazionato. Monk lotta contro questo sistema, ma perde necessariamente. Il destino che Jefferson impone al suo protagonista è in ogni caso tragico, ma profondamente reale.
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eugenio
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sabato 9 marzo 2024
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satira metaletteraria americana
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Ciò che neghi ti sottomette, cio che accetti ti trasforma. In questa massima di Jung sta, a mio avviso, il significato di un film metanarrativo su Prime candidato agli Oscar, American fiction.
Nella storia di uno scrittore afroamericano,Monk (Jeffrey Wright molto capace), evidentemente in crisi- altrimenti non ci sarebbe storia- che si indigna per la caratura del politicamente corretto dei suoi studenti (leggasi “nero” compatito per la sua crociata passata), si legge quel conformismo intellettuale radicato nella cultura borghese che accetta solo per sentito dire.
Gaber ci scrisse una canzone “Il conformista” e chissà se Cord Jefferson alla sua prima, l’ha mai sentita per ispirarsi nella stesura di questo script tratto dal romanzo Cancellazione di Percival Everett.
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Ciò che neghi ti sottomette, cio che accetti ti trasforma. In questa massima di Jung sta, a mio avviso, il significato di un film metanarrativo su Prime candidato agli Oscar, American fiction.
Nella storia di uno scrittore afroamericano,Monk (Jeffrey Wright molto capace), evidentemente in crisi- altrimenti non ci sarebbe storia- che si indigna per la caratura del politicamente corretto dei suoi studenti (leggasi “nero” compatito per la sua crociata passata), si legge quel conformismo intellettuale radicato nella cultura borghese che accetta solo per sentito dire.
Gaber ci scrisse una canzone “Il conformista” e chissà se Cord Jefferson alla sua prima, l’ha mai sentita per ispirarsi nella stesura di questo script tratto dal romanzo Cancellazione di Percival Everett. Non lo sapremo ma ciò che è certo è che questa deliziosa pellicola descrive in fondo, senza prendersi sul serio, le frustrazioni di uno scrittore costretto a combattere con lo stereotipo dei luoghi comuni dettati da ciniche quanto insaziabili politiche commerciali.
A cui Monk, madre malata di Alzheimer al seguito e sorella morta d’infarto improvvisamente, si ribella come un Don Chisciotte contro i mulini a vento. Impotente e inadeguato nei confronti di un editore che rifiuta le sue elucubrazioni mentali si mette a scrivere un romanzo, provocatoriamente intitolato “Fuck” che infarcito di luoghi comuni, vorrebbe prendere in giro “quei bianchi” così innatamente sensibili.
Ma, contro ogni sua previsione, il romanzo ha successo e Monk si troverà presto a inventarsi un’identità fittizia (il carcerato “nero” condannato ingiustamente) per giustificare una sua boutade da cui verrà persino tratto un film diretto da un regista internazionale. Il tutto solo per scrivere ciò che il popolo ama ovvero quello che si adegua al loro pensiero.
Non incoraggiante American fiction ma sincero, volutamente provocatorio ma con una verità di fondo puramente pirandelliana, una maschera che indossiamo tutti i giorni per fuggire da noi stessi omologandoci alla demagogia popolare..
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montefalcone antonio
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martedì 5 marzo 2024
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una satira contro il sistema culturale americano
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Pluripremiata opera prima – liberamente tratta dal romanzo di Percival Everett “Erasure”, in Italia “Cancellazione”, – è una pungente satira sull’industria culturale e sulla sua ipocrisia nei riguardi della comunità nera americana; un’industria infarcita di perbenismo di facciata, di stereotipi, di indignazione costantemente ricercata, di pornografia del dolore black e di tante altre cose al limite dell’esasperato e dell’eccessivo che titillano il senso di colpa dei bianchi e che sono sfruttati soprattutto per mero opportunismo da editori e protagonisti del mondo dello spettacolo.
Tante cose, che comunque in sé e per sé e in parte sono anche giuste ed assodate in diversi ambienti, ambiti e contesti socio-culturali attuali, ma che però sono anche tanto lontane dai veri problemi affrontati dagli afroamericani di oggi; una comunità nera che dietro tutto ciò che “va di moda” e che soddisfa quel razzismo camuffato da approvazione che amano tanto i bianchi, continua ancora a restare invisibile e a non avere voce in capitolo.
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Pluripremiata opera prima – liberamente tratta dal romanzo di Percival Everett “Erasure”, in Italia “Cancellazione”, – è una pungente satira sull’industria culturale e sulla sua ipocrisia nei riguardi della comunità nera americana; un’industria infarcita di perbenismo di facciata, di stereotipi, di indignazione costantemente ricercata, di pornografia del dolore black e di tante altre cose al limite dell’esasperato e dell’eccessivo che titillano il senso di colpa dei bianchi e che sono sfruttati soprattutto per mero opportunismo da editori e protagonisti del mondo dello spettacolo.
Tante cose, che comunque in sé e per sé e in parte sono anche giuste ed assodate in diversi ambienti, ambiti e contesti socio-culturali attuali, ma che però sono anche tanto lontane dai veri problemi affrontati dagli afroamericani di oggi; una comunità nera che dietro tutto ciò che “va di moda” e che soddisfa quel razzismo camuffato da approvazione che amano tanto i bianchi, continua ancora a restare invisibile e a non avere voce in capitolo.
“American Fiction”, in bilico fra satira e dramma familiare (efficaci ma non sempre ben equilibrati tra loro), ha i suoi punti di forza nell’acuta e brillante sceneggiatura dello stesso regista (Cord Jefferson, al suo ottimo esordio dietro la macchina da presa) e nell’interpretazione dell’attore protagonista, un convincente e credibile Jeffrey Wright. Ma anche il resto del cast è ottimo, nonché la colonna sonora, incisiva.
Wright, meritatamente candidato all’Oscar, riporta in modo eccellente le tante amare sfumature del suo personaggio, ironico, colto, insofferente e frustrato, che in tutti i modi lotta sia per recuperare il rapporto con la famiglia, sia per riaffermare la propria dignità di scrittore.
La pellicola, grazie anche alla qualità della sua scrittura, è molto godibile, interessante e coinvolgente, soprattutto per gli spunti riflessivi che offre allo spettatore nell’indagine delle dinamiche dello spettacolo; nella descrizione dell’attuale società americana; e nella presa di coscienza di una sua fetta rilevante e significativa, quella culturale ed artistica, falsamente buonista e bacchettona, ma incapace di pensare in maniera critica e di tenersi lontana dal proprio tornaconto (anche venale).
L’altro focus del film è sull’indagine di un’altra crisi, quella della famiglia in sé già disfunzionale del protagonista, e per riflesso di alcune tipologie di famiglie americane.
La regia intreccia in maniera emozionante e a tratti commovente le delicate dinamiche familiari di fratelli e sorelle molto diversi tra loro, i temi della perdita e dell’accettazione di se stessi, e soprattutto i tentativi di rimediare a colpe ed errori del passato. E in questo modo il regista infonde all’intero film anche un aspetto emotivamente profondo che non guasta (anche malgrado una limitante insistenza poco equilibrata su questo versante narrativo-familiare che lascia a tratti in disparte il focus satirico).
In ogni caso e valutata nel suo complesso, “American Fiction” è un’opera di grande qualità. Una pellicola che non solo rende giustizia al romanzo di partenza, ma che si può apprezzare anche per come cerca di andare ben oltre il semplice adattamento, e infine per come riesce ad attestarsi come una commedia fresca e divertente, empatica e corrosiva, riflessiva ed emozionante; indubbiamente tra le migliori dell’anno.
In Italia il film è uscito direttamente su Prime Video il 27 Febbraio 2024, ma stranamente non ancora nelle sale cinematografiche. Ha trionfato al Toronto International Film Festival, ha vinto il Bafta come miglior sceneggiatura non originale ed è candidato a 5 premi Oscar: miglior film, attore Jeffrey Wright, attore non protagonista Sterling K. Brown, sceneggiatura non originale, musica.
Imperdibile. Voto (in decimi): 7.50 / 8
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luciano sibio
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giovedì 29 febbraio 2024
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dualismo mal risolto
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Film che ha alla base una critica sui luoghi comuni di certi messaggi che i mass media americani passano in letteratura e cinematografia e che spesso tendono a penalizzare sotto forma di convenzioni narrative certe minoranze discriminate fortemente in passato e che nello specifico del film è rappresentato dalla popolazione di colore statunitense. Devo rimarcare che quanto scritto sopra è la parte forse più chiara di questo film che invece per tutte le due ore mal combina tale messaggio con il resto della storia e con la definizione dei personaggi che invece sembrerebbero offrire un quadro altamente positivo di integrazione sociale da parte della popolazione di colore statunitense.
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Film che ha alla base una critica sui luoghi comuni di certi messaggi che i mass media americani passano in letteratura e cinematografia e che spesso tendono a penalizzare sotto forma di convenzioni narrative certe minoranze discriminate fortemente in passato e che nello specifico del film è rappresentato dalla popolazione di colore statunitense. Devo rimarcare che quanto scritto sopra è la parte forse più chiara di questo film che invece per tutte le due ore mal combina tale messaggio con il resto della storia e con la definizione dei personaggi che invece sembrerebbero offrire un quadro altamente positivo di integrazione sociale da parte della popolazione di colore statunitense. Film che per questo dualismo mal risolto finisce con il perdere molto della sua attrattività sul pubblico per non parlare del finale doppio che ne alimenta la indeterminazione. VOTO 6 -
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jonnylogan
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giovedì 22 febbraio 2024
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quando la denuncia finisce in farsa
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Il giornalista, regista e sceneggiatore Cord Jefferson esordisce dietro la macchina da presa portando in scena il romanzo Erasure (Cancellazione; 2007) dello scrittore e poeta Percival Everett. Esattamente come nel romanzo il protagonista, il 58enne Jeffrey Wright, desidera combattere gli stereotipi con i quali da sempre 'l'uomo bianco' e non solo, vede e percepisce gli uomini di colore e di come questo gli permetta di trarre profitto dallo sfruttamento della cultura afroamericana. Wright e Jefferson ci introducono nella vita di un uomo borghese e scontroso, perché sconcertato da come la sua carriera di docente sia in balia di studenti incapaci di mostrare la benché minima intelligenza e flessibilità mentale.
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Il giornalista, regista e sceneggiatore Cord Jefferson esordisce dietro la macchina da presa portando in scena il romanzo Erasure (Cancellazione; 2007) dello scrittore e poeta Percival Everett. Esattamente come nel romanzo il protagonista, il 58enne Jeffrey Wright, desidera combattere gli stereotipi con i quali da sempre 'l'uomo bianco' e non solo, vede e percepisce gli uomini di colore e di come questo gli permetta di trarre profitto dallo sfruttamento della cultura afroamericana. Wright e Jefferson ci introducono nella vita di un uomo borghese e scontroso, perché sconcertato da come la sua carriera di docente sia in balia di studenti incapaci di mostrare la benché minima intelligenza e flessibilità mentale. E di come quella di scrittore, forse troppo minimalista sia ormai sprofondata nel nulla. Monk, soprannome che onora il jazzista omonimo, non ha però solo problemi di lavoro ma anche famigliari. Con una madre vittima dell'Alzheimer e le conseguenti difficoltà nel reperire fondi per poterla curare adeguatamente, in tal senso il sistema sanitario a stelle e strisce non fa di certo eccezioni di sorta.
Jefferson ci fa perdere nei meandri mentali di un protagonista che sa essere tutto fuorché pragmatico. In tal senso Wright, già vincitore di un Emmy per la miniserie TV Angels in America (id.; 2003) riesce a tratteggiarlo alla perfezione, al punto di garantirsi la sua prima candidatura Oscar come miglior attore protagonista. Portando alle estreme conseguenze le sue idiosincrasie nei confronti del mondo letterario inclusi gli stereotipi con i quali deve inevitabilmente scontrarsi al punto di creare un alter-ego che incarni il criminale che tutti si attendono possa aver dato vita al romanzo: Fuck. Riguardante una storia di violenza e rabbia in un ghetto della metropoli.
Nonostante tutti questi se e ma, e nonostante i numerosi riconoscimenti e premiazioni (ben 5 le candidature Oscar) la pellicola diretta con estrema cura e conoscenza della materia da Jefferson, non riesce a convincere del tutto. Forse per l'inflessibilità di un protagonista che a fronte di numerosi problemi personali continua imperterrito a non darsi pace per un problema secondario dato da un successo letterario per lui inspiegabile e quasi offensivo. Fino a trasformare il film in un tentativo di denuncia sociale che però sfiora la farsa.
Successo di botteghino e critica con possibilità concrete di aggiudicarsi ulteriori incassi e premi, incluso il bersaglio grosso del prossimo 11 marzo. Da vedere se desiderate capire come uno scrittore bravo a fingere possa tentare di far pace con le proprie idee.
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(di fabrizio)
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pedro
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lunedì 19 febbraio 2024
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l’unica cosa nera di questo libro è l’inchiostro
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“...l’unica cosa nera di questo libro è l’inchiostro...”
American fiction è un bel film. Una commedia nera, anzi black, è il caso di dire, che va vista senza dubbio.
Una famiglia borghese/benestante, di professionisti affermati con gli abituali o frequenti problemi personali e di gruppo.
In defintiva una normale famiglia borghese.
Solo che è una famiglia di afroamericani, e sembra quindi non possa essere una “normale” famiglia borghese. Devono per forza esserci le dinamiche “nere”. Non può essere altrimenti. E’ richiesto a gran voce, dal mercato, dagli eventi storici, dalla società.
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“...l’unica cosa nera di questo libro è l’inchiostro...”
American fiction è un bel film. Una commedia nera, anzi black, è il caso di dire, che va vista senza dubbio.
Una famiglia borghese/benestante, di professionisti affermati con gli abituali o frequenti problemi personali e di gruppo.
In defintiva una normale famiglia borghese.
Solo che è una famiglia di afroamericani, e sembra quindi non possa essere una “normale” famiglia borghese. Devono per forza esserci le dinamiche “nere”. Non può essere altrimenti. E’ richiesto a gran voce, dal mercato, dagli eventi storici, dalla società. Il black, sia per il suo principale sostenitore bianco e per i neri delle elite intelletuali, ma anche popolari, deve rimanere nero...sempre.
Invece Monk è, vorrebbe essere, semplicemente uno scrittore. Ma non può.
I suoi libri finiscono nello scaffale della letteratura afroamericana...anche se scrive di Eschilo...
Offende i suoi alunni, bianchi, se parla nella sue lezioni del racconto “the artificial nigger”...perchè “nigger” non si può usare...indispone i..bianchi. E' bandito dalla letteratura americana, anche se il racconto è del 1955.
La sua collega, nel senso di scrittrice, nera ma di moda, acclamata da pubblico e critica, legge “the white negroes” e somiglia straordinarimaente all’autrice reale.
Insomma: alcuni decenni fa sarebbero state le discriminazioni, l’apartheid letterario a relegarlo alla marginalità. Ora è la cultura, con la C maiuscula, bianco/nera che, per espiazione, nei bianchi, o rivendicazione, nei neri, impedisce che lui o altri possano essere semplicemente “persone”.
Monk vuole far letteratura, scrivere cose non per i neri, o di cultura nera. Semplicemente scrivere. Si scontra con il vigente “revisionismo” (pseudo) woke che, con l’assenso e/o promozione degli stessi autori blacki, vuole riportare, o far rimanare, i nordamericani di antica origine africana, ancora nel ghetto. Bianchi e neri, alleati in quest’opera, fanno il possibile affinchè le colpe degli avi degli uni, e il riscatto degli altri, restino ben salde in un contenitore separato.
Nessun “un’unica razza...quella umana”.
No. Razze, o se preferite, etnie, cromatismi, culture ben separate...anzi, segregate. La scrittrice nera, proveniente da università esclusive e boheme, case editrici monumentali e chic, grande fama e successo perchè i nordamericani, o una parte di essi, ritengono che sostenendo la letteratura dal ghetto (che lei non conosce, ma ha investigato, come un antropologo farebbe con l’ultimo indios dell’amazzonia) espiano il loro passato, anche se magari sono di origine italiana (negli USA i white nigger del passato) o tedesca, o sono latinoamericani, e non hanno complicità parentale con la storia passata, ammesso che di complicità si possa parlare.
Thelonious 'Monk’ finalmente scrive, con pseudonimo, quasi per scherzo, ma certo per confermare ciò che pensa, un racconto come lo vogliono i bianchi e i neri...le case editrici, gli intellettuali, i suoi alunni e colleghi dell’università...forse anche la fidanzata
Il libro “fuck” (non c’è bisogno di tradurlo...vedremo come lo sarà in italiano) ha enorme successo. Prima il titolo era Pafology ma, per portare la cosa all’eccesso, chiede di cambiarlo, prendere o lasciare, in fuck, mettendo a rischio il generosissimo anticipo dela casa editrice.
Niente, caro Monk.
Non è possibile uscire dal ghetto. Prima era obbligato. Ora pure.
Film molto simpatico e sicuramente da vedere.
Dialoghi spesso molto interessanti, buoni attori e si, ottima regia.
Da rivedere due personaggi: Coraline, la fidanzata. Personalmente la cosa che meno mi ha convinto, sia nel contesto dell’azione che nell’attuazione. Ma capisco che fosse difficile rinunciarvi. L’altra è Lorraine, molto convincente come attrice e si capisce immancabile nel contesto (poteva mancare Mammy?)
Critica ironica contro tutte quelle esose, grottesche regolamentazioni (“avete l’autorizzazione per buttare -pochi grammi di- cenere -della sorella- in mare?”...si preoccupa inferocito l’uomo di passaggio) e culture senza o lobotomizzato passato... solo buone, candide e nuove maniere per cui UNX dovrebbe scrivere così...con la x alla fine...e non è quella di twitter/X.
Ps: fate una prova. Mettete al posto di Monk e compagnia, dei personaggi bianchi, e al posto del tema “negroes”, che dico...quello LGBT. Che effetto farebbe?? Sarebbe candidato all’Oscar o sarebbe semplicemente una seria TV? O nulla?
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