È stato coraggioso Daniele Vicari a scegliere come protagonista del suo film, Orlando, un personaggio di certo poco alla moda. Un contadino "solitario", un "ultimo dei Mohicani" di un'Italia dove nei campi "dei padroni" oggi lavorano quasi soltanto immigrati al limite della schiavitù, qualche romantico giovane tenta la strada del biologico, e qualche condominio borghese si diverte con gli orti urbani.
Un uomo che ha scelto di affidare alle parole solo l'indispensabile in un mondo sopraffatto dai rumori e dal chiacchiericcio inarrestabile dei social.
Poco incline al contatto fisico con l'altro (scosta istintivamente il viso dalla "cinese" che gli porge una carezza), non disposto a lasciarsi andare alla leggerezza come faceva la moglie insieme al figlio bambino: risate che non ha mai compreso.
Un uomo che conosce, e riconosce, come regole, soltanto quelle che hanno normato e chiuso il suo mondo. Un figlio deve seguire il solco tracciato dal padre, scelta imperdonabile quella di Valerio che ha lasciato il paese ed è emigrato.
Quando all'improvviso si ritrova catapultato dentro una realtà diversa, dove le regole sono altre, il silenzio di Orlando cambia registro.
Grazie all'ottima interpretazione di Placido e alla mano sicura della regia, dentro quel silenzio lo spettatore trova pensieri che lo accompagnano nella visione, intreccia un dialogo interiore con il protagonista e diventa parte attiva nella costruzione del personaggio. Ognuno con la propria sensibilità, ma tutti tacciono di fronte al silenzio e ne ascoltano le parole.
Ciò che Orlando trova "oltre il giardino" gli appare disordinato, confuso, grigio e fuori misura. Ostile. Abituato alle basse case del suo paese, gli audaci edifici della Bruxelles moderna, i ponti sospesi, sembrano una sfida alle leggi della gravità. Inaccettabile che il padrone di casa sia un "negro" e "che femmina è" una madre che ha rifiutato la figlia?
Orlando cerca di riportare in quel disordine il "suo ordine" e comincia da ciò che conosce e sa fare: la pulizia e la zappettatura dello spazio esterno alla casa, lasciato in abbandono.
Intanto al silenzio del vecchio si è contrapposta la loquacità di Elisa, nipote dodicenne. Racconta, spiega, chiede, informa, pretende dal nonno, che le ignora, risposte alle sue domande. Elisa tiene testa a Orlando e l'esordiente Angelica Kazankova non sfigura davvero nel confronto con Placido.
Due caratteri, due generazioni, due modi di stare al mondo si contrappongono inconciliabili. Orlando comunica con il silenzio, Elisa grida i suoi sentimenti, gioia, sofferenza, rabbia. Ha imparato dal padre a sognare, vede nell'edificio cadente un ristorante che verrà, forse mai, ma che già ha un nome. Le cose cominciano ad esistere se le evochiamo.
Orlando al contrario vive di concretezza. Viene da una dimensione arcaica. I soldi, forse i risparmi di una vita che ha portato con sé cuciti dentro la fodera della giacca, finiscono presto. La soluzione è la ricerca di un lavoro, immediato e qualunque, per pagare almeno l'affitto.
La vita è dura e Orlando la fronteggia con la resistenza di una roccia. Elisa con la spavalderia dell'adolescente.
Sono due combattenti. Ciascuno ha trovato la propria strategia per stare al mondo, ognuno nel proprio. Quando le circostanze li obbligano a metterli insieme lo scontro è inevitabile.
Per accompagnarci verso il finale, la sceneggiatura ci indica con sapiente misura alcuni segnali di avvicinamento, di cedimento alla tenerezza. La coperta che Orlando stende sulla nipote addormentata. Quelle poche parole, quel sorriso appena accennato, ma compiaciuto, quando scopre che Valerio ha insegnato ad Elisa un piatto che preparava la moglie. Quella mano alzata in segno di saluto alla nipote che pattina sul ghiaccio. La telefonata in Italia alla proprietaria del bar, in cui attraverso il silenzio, la lingua che meglio conosce, Orlando grida il suo strazio per la morte del figlio. Una scena di fortissimo impatto in cui la donna piange le lacrime che l'uomo non è riuscito a versare.
Anche da parte di Elisa arrivano piccoli gesti di avvicinamento come il caffè già preparato, "basta metterlo sul fuoco" scrive sul post it, il cappello che passa dalla testa del nonno addormentato alla sua in un gioco divertito.
Nonostante questo Orlando e la nipote continuano a tirare in direzioni opposte e la rottura appare inevitabile.
È un peccato che la conclusione tardi ad arrivare, che una sceneggiatura quasi perfetta si indebolisca per voler raccontare qualcosa di più senza aggiungere nulla. Dare meno spazio alle scene degli incontri con gli assistenti sociali ad esempio, eliminare la crisi di Elisa con relativo ricovero in ospedale... Una narrazione inutilmente protratta per 120 minuti quando ne sarebbero bastati 90 per portare la storia all'abbraccio tra Orlando e la nipote che per la prima volta lo chiama "nonno", lei che ha sempre chiamato il padre Valerio. Una sorta di reciproco riconoscimento dei ruoli, l'agnizione finale di un dramma contemporaneo.
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