"Nomadland" è una proposta che coniuga un approccio sobrio, quasi da documentario, con un afflato poetico che illumina i paesaggi e i gesti quotidiani. Giocato sul contrasto tra radici, identità stanziale e ricerca di nuovi orizzonti, tra meccanismi espulsivi e strategie di sopravvivenza, appare come un'opera bella e coinvolgente, premiata per i suoi meriti intrinseci.
La vicenda narrata è semplice nella sua essenzialità: Fern, donna che si avvicina ai 60 anni, ha perso nel giro di breve tempo, il lavoro a causa della crisi economica del 2008 e il marito, stroncato da una malattia. Trasforma il suo furgone in una casa su ruote e si mette a viaggiare per gli stati del midwest alla ricerca di un suo spazio di libertà fatto di aree di sosta, lavori precari e rapporti umani con un insieme di nomadi che condividono con lei spostamenti e filosofia di vita.
Le tappe del viaggio toccano il black rock desert in Nevada, il Badlands National Park, nel sud Dakota. i campi del Nebraska, le coste del nord della California, l'Arizona, luoghi che ci parlano di un'altra America, percorsa da persone che sono sono collocate ai margini del sistema di produzione e consumo proprio delle società avanzate. Nel suo girovagare, Fern svolge molteplici attività: dagli incarichi a tempo presso Amazon, alla pulizia delle aree di parcheggio per i camper, alla raccolta delle barbabietole. Ritrova spesso nei suoi spostamenti alcune persone con cui si stabiliscono vincoli di solidarietà e di appoggio reciproco. Dave, Linda May, Swankie, Cat, Emily, personaggi spesso interpretati da "veri" nomadi che rappresentano la loro condizione.
Colpisce il senso di comunità e di vicinanza che queste persone, apparentemente marginali, esprimono, come se fossero la riedizione degli antichi pionieri in una terra che ha smarrito il suo desiderio orginale di esplorazione e conoscenza, di rapporto con luoghi incantevoli e maestosi, dagli orizzonti sconfinati.
La regista Cloé Zhao, cinese maturata professionalmente negli Stati Uniti, dimostra un'eccellente maturità artistica, confezionando un'opera che ha il respiro di un'elegia, insieme sobria e intensa. La performance della McDormand è notevole, come pure quella dell'intero cast, composto in buona parte da attori non professionisti. La recitazione è sempre misurata, per nulla enfatica: a volte pare di trovarsi davanti a un documentario sui nuovi nomadi.
Fedele al principio "show, don't tell", il film si dipana tra paesaggi splendidi, incombenze quotidiane, aggregazioni mosse dalla vicinanza e da percorsi comuni, rivolte individuali ai meccanismi di emarginazione e di esclusione, ricerca di senso e di nuovi significati nel terzo tempo della vita.
Un'opera che scorre e fluisce come un veicolo che percorre una strada in mezzo a un territorio senza confini.
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