Paradigmatica l’uscita di questo film prima del lock-down che avrebbe visto l’America come uno degli stati maggiormente colpiti dalla pandemia. E assai ancora più paradigmatico il titolo: Captive state. Appunto prigionieri. Ma di cosa? Degli alieni.
L’immaginario collettivo reputa a queste entità fini benefici, come ci insegna il buon Spielberg ma da Scott in avanti, l’alieno ha assunto inquietudini, incertezze, forme metaforiche figlie del nostro fragile presente assumendo, talune volte, l’immagine spietata del repressore.
E’ quanto accade appunto in Captive state, ultima “fatica” del regista Rupert Wyatt che con la moglie ne firma la sceneggiatura.
Nel 2019 la Terra ha subito un’invasione extraterrestre. La famiglia Drummond cerca di fuggire ma i genitori di Gabriel e di Rafa, suo fratello maggiore, vengono polverizzati da misteriose entità. I due ragazzi si salvano ma il mondo in pochi anni non sarà più come prima: nel 2027 gli alieni sono i “legislatori”, vivono ben sicuri nel mondo di sotto, in particolari “zone chiuse” murati dal resto della città con accessi permessi esclusivamente a alti funzionari. In tali alcove controllano gli esseri umani da loro arruolati con droni e tecnologie (dalle buone vecchie cimici impiantate nel collo che sanno tanto di horror alla Alien) per evitare ogni possibile rivolta e sopprimerla in anticipo.
Eppure in questo mondo, in questa Chicago del 2027 da Grande Fratello, la resistenza esiste e ha l’icona di Rafa, prima reputato morto, infine redivivo componente di una rete capillare, la Fenice, dal misterioso “capo” che resuscita dalle ceneri dell’umanità sottomessa, per cercare appunto di svegliare le coscienze, accendendo un fiammifero per iniziare una guerra e recuperare così la propria unità umana, umiliata e offesa. Ed, in questo contesto, fondamentale sarà il ruolo di Gabe che spera di mettere assieme i soldi utili a fuggire da quella città oppressiva, senza sapere che sarà invischiato nelle sue trame a lungo.
Sì, di film sugli alieni ce ne sono stati a iosa ma Captive state brilla di una luce propria grazie alla vicinanza e alla commistione di più generi: spionaggio, thriller e perché no, anche una venata analisi sociologica di un periodo storico che ricorda in tralice la resistenza. Perché, è vero in Captive state ci sono gli alieni oppressori con intenti ben mirati come lo sfruttamento delle risorse naturali del pianeta, ma c’è dell’altro. Il film è permeato di una sensazione di occupazione opprimente, da un regime totalitario che, appunto, come in questa pellicola, obnubila menti e coscienze, portandole al tradimento. Da questo punto di vista, Captive state mostra la sua crudezza, oltre la semplice fantascienza, grazie a figure “ben reali” e distintive (una su tutte il poliziotto William Mulligan-John Goodman in stato di grazia) sovversive, doppiogiochiste, infedeli, ma anche straordinariamente umane, in continua evoluzione.
Wyatt alterna atmosfere cupe alla Strange Days (gran film di Bigelow del 1995) con musiche furibonde techno fine anni ’80 e un montaggio dinamico tale da rendere incessante e quasi ansiogena, nelle sue circa due ore, una trama ben strutturata, fatta di attentati, sortite, colpi di scena, come stessimo vedendo un film di seconda guerra mondiale; come fossimo noi i partigiani nel 1944.
Il tutto con un sapiente gioco di sguardi, che fa uso di dialoghi serrati, privi della retorica buonista alla Armageddon e di una crasi netta tra bene e male. No, in Captive state, ogni personaggio, volontariamente e non, ha una duplice natura, un’intima libertà, accumunata tuttavia dalla lotta estrema e difficile, talune volte al prezzo della propria vita, per il conseguimento di una libertà assai sofferta. Da vedere.
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