cardclau
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sabato 1 dicembre 2018
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... ero straniero e mi avete accolto ...
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I film iraniani, di primo acchito, mi scombussolano un pochino perché avverto una differenza culturale clamorosa, con quella di noi occidentali. Potrebbero sembrare un po’ primitivi, forse anche un po’ prefreudiani. Poi ripensandoci e riflettendoci appare invece clamoroso l’insegnamento che questa differenza ci può dare: soprattutto nella linea della consapevolezza, del rendersi conto delle differenze “… ero straniero e mi avete accolto …”. Quindi della difesa della libertà nel confronto, col desiderio reale di crescere, tutti, nel rispetto dell’altro.
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I film iraniani, di primo acchito, mi scombussolano un pochino perché avverto una differenza culturale clamorosa, con quella di noi occidentali. Potrebbero sembrare un po’ primitivi, forse anche un po’ prefreudiani. Poi ripensandoci e riflettendoci appare invece clamoroso l’insegnamento che questa differenza ci può dare: soprattutto nella linea della consapevolezza, del rendersi conto delle differenze “… ero straniero e mi avete accolto …”. Quindi della difesa della libertà nel confronto, col desiderio reale di crescere, tutti, nel rispetto dell’altro. Il film Tre Volti di Jafar Panahi è uno di questi, e nel suo genere è splendidamente coraggioso. Non possiamo assolutamente valutarlo mediante i nostri parametri e non basta sapere che Jafar Panahi vive in un ambiente e in una società assai diversa da come lui si sente e si vive. Affronta diversi temi e ci mostra un Iran pastorale e montagnoso e povero, è vero, con i suoi limiti. Mi ha ricordato il libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli. Ma non lo fa col dito puntato, irato, ma con tenerezza, in punta di piedi, dove la speranza non cede mai alla disperazione. Ad un certo momento il racconto ci mostra Panahi (che oltre ad essere regista, è anche attore) che guida col parabrezza scheggiato, non dice nulla, e poco prima avevamo visto un grosso individuo, un po’ ritardato mentale, che oltremodo arrabbiato perché le cose non stavano andando secondo una supposta millenaria consuetudine, aveva preso in mano un asperrimo pietrone. Una metafora. Ma il tema più potente, gridato a squarciagola, è la necessità che ha l’essere umano, di andare al di là della routine quotidiana. Dal dizionario, routine: “abitudine lentamente acquisita per mezzo della pratica e della esperienza; più comunemente, a proposito di una monotona e deprimente consuetudine”. E lo fa in un modo delizioso, di un pensiero e una creatività sorprendenti, attraverso una storia che parte da un video drammaticamente drammatico che una ragazza (Marzyhe Rezaei) invia, da un paesetto sperduto, nel nord montuoso dell’Iran, ma non lontanissimo da Teheran, ad una attrice (Benhaz Jafarì) sulla cresta dell’onda per i serial televisivi, per chiederle aiuto, motivata dal desiderio di fare anche lei l’attrice, perché si sente diversa. Benhaz Jafarì risponde a quella chiamata visceralmente come una madre che potrebbe aver perso la figlia, quindi parte immediatamente con Jafar Panahi, alla sua ricerca. E agisce tutti gli aspetti contraddittori, e comprensibilissimi, di una madre. La ragazza Marzyhe Razaei (bellissima in tutti i sensi) ti fa profondamente capire che la vita viene portata avanti dalla gioventù. Da un frammento di una poesia di Aleksandr Sergeevic Puskin “… Tornate, anni della mia primavera, tornate!”
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vanessa zarastro
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sabato 1 dicembre 2018
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due secoli fa?
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Il film, che ha ottenuto la Palma d'Oro al Festival di Cannes, è girato quasi in tempo reale e sembrerebbe riportarci indietro di due secoli. Ci mostra una parte meno nota dell’Iran, la zona montana rurale e contadina del Nord-Ovest che confina con la Turchia, molto lontana dalla vita caotica della capitale e da cui provengono, peraltro, i genitori del regista.
Jafar Panahi e l’attrice Behnaz Jafari (interpretati da loro stessi) ricevono un video di una ragazza adolescente che vorrebbe recitare e uscir fuori da una situazione claustrofobica, è disperata perché ha bisogno di aiuto e non è mai riuscita a contattare la famosa attrice, pertanto si suicida mediante impiccagione (vera o presunta?) in una grotta sulle montagne.
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Il film, che ha ottenuto la Palma d'Oro al Festival di Cannes, è girato quasi in tempo reale e sembrerebbe riportarci indietro di due secoli. Ci mostra una parte meno nota dell’Iran, la zona montana rurale e contadina del Nord-Ovest che confina con la Turchia, molto lontana dalla vita caotica della capitale e da cui provengono, peraltro, i genitori del regista.
Jafar Panahi e l’attrice Behnaz Jafari (interpretati da loro stessi) ricevono un video di una ragazza adolescente che vorrebbe recitare e uscir fuori da una situazione claustrofobica, è disperata perché ha bisogno di aiuto e non è mai riuscita a contattare la famosa attrice, pertanto si suicida mediante impiccagione (vera o presunta?) in una grotta sulle montagne.
Il regista spaventato e l’attrice in preda a sensi di colpa partono immediatamente a bordo di un fuoristrada per questa piccola località montana per capire cosa sia realmente successo. Il viaggio e la ricerca della ragazza sembrano diventare pretesti per incontrare una realtà agricola apparentemente ospitale e formalmente gentile, ma terribilmente chiusa e attaccata alle vecchie tradizioni. Una sola strada a un’unica corsia unisce i villaggi a monte e a valle. Essendo piena di tornanti le auto o gli autobus devono suonare per avvertire che stanno passando e, a seconda dei suoni di clackson, si comunicano se c’è una particolare urgenza o addirittura emergenza.
E così dopo una notte di viaggio i due raggiungono il paesino dove vive la ragazza fanno la conoscenza di persone, e riscoprono usanze dimenticate. Particolare risalto è dato alla cerimonia del taglio del prepuzio ai maschi, la cui pelle è fonte di antiche credenze: a seconda di dove verrà sepolto deciderà i destini dei giovani. Se nel cortile di una prigione il giovane diventerà un criminale, se nel giardino di un’Università il giovane diventerà o dottore o ingegnere. Nulla per le ragazze. Anzi per la mamma di Marzieyh, il fatto che la figlia sia brava a scuola e voglia studiare è vissuto come una disgrazia.
Così il regista e l’attrice scoprono che il suicidio era solo simulato, che la ragazza è entrata all’Accademia di Teheran e che, oltre a essere mal vista da tutta la comunità, è minacciata fisicamente dal fratello conservatore e un po’ fuori di testa. Possiamo immaginare come possa essere vista nel paese una ragazzina che vuole fare l’attrice. Uno scandalo, una “intrattenitrice”! La ragazza viene allontanata dalle altre ragazze, ha solo una cugina con cui stare e una vecchia danzatrice che passa le sue giornate dipingendo nei campi considerata matta, che vive isolata, ed è stata messa al bando dai paesani.
Non ci sono medici nel villaggio né veterinari. Non c’è campo per i cellulari, l’unico elemento di “progresso” è la TV. “Ci sono più antenne che persone” dice uno degli abitanti al regista.
Tre sono i volti delle donne: l’anziana madre conservatrice, l’attrice adulta e affermata, la giovane ribelle ma determinata. Lo stile di Panahi è asciutto e rigoroso – in linea con un certo cinema iraniano il cui capostipite è Abbas Kiarostami (“Il sapore delle ciliegie” del 1997) - dall'andamento simile a quello di una dolente ballata, una processione che si svolge in una terra priva di libertà. È noto, infatti, che a Jafar Panahi è stato impedito sia di lasciare il paese sia di girare film, quindi con tenacia e caparbietà Panahi riesce, come per “Taxi Theran” del 2015, a riprendere scene di vita iraniana quasi interamente a bordo di un’auto con la telecamera nascosta, e con la presenza di attori che recitano se stessi, a metà tra finzione e realtà.
Così scrive Erfan Rashid in “Focus”: «Che cosa rimane a un regista quando un decreto governativo lo priva del suo diritto di fare film per vent'anni e lo costringe a rimanere a casa confiscandogli il passaporto? La prima risposta che viene in mente: "Niente! non gli rimane niente! E ciò potrebbe essere l'inizio della fine per quel regista!". Tuttavia, qualcosa gli rimane: la determinazione e la testardaggine di trasformare quella restrizione di libertà e l'emarginazione, in una resistenza per la libertà continuando a realizzare film. E non importa se quel film verrà visto da altri o no, rimane comunque un film».
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(di mana1971)
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michelino
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giovedì 29 novembre 2018
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michelino va al cinema
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BEDDU ASSAI...TRE VOLTI LO VIDI!!!
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