felicity
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martedì 21 gennaio 2020
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un film sincero ma scombinato
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Un'opera piena di riflessi, indubbiamente non manca il cuore del regista, che firma un lavoro sentito, nonostante diverse evidenti ingenuità. La regia finisce spesso sopra le righe, così come la recitazione degli attori, mentre il copione sbanda nella seconda parte, dopo una prima parte più elegante e perfino solida dal punto di vista drammaturgico.
Nonostante il film non sia il disastro che si temeva dopo i continui rinvii e la lavorazione travagliata, la sensazione è quella di trovarsi davanti a un’occasione in buona parte sprecata, un’opera sincera e spontanea, ma allo stesso tempo grossolana e un po’ sciocca, in particolare nella gestione di alcuni personaggi.
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Un'opera piena di riflessi, indubbiamente non manca il cuore del regista, che firma un lavoro sentito, nonostante diverse evidenti ingenuità. La regia finisce spesso sopra le righe, così come la recitazione degli attori, mentre il copione sbanda nella seconda parte, dopo una prima parte più elegante e perfino solida dal punto di vista drammaturgico.
Nonostante il film non sia il disastro che si temeva dopo i continui rinvii e la lavorazione travagliata, la sensazione è quella di trovarsi davanti a un’occasione in buona parte sprecata, un’opera sincera e spontanea, ma allo stesso tempo grossolana e un po’ sciocca, in particolare nella gestione di alcuni personaggi.
Tra le pieghe di un lavoro “sbagliato” come questo, si nascondono alcuni spunti non da poco sul mondo dello spettacolo e alcune intuizioni visive che fanno parte del miglior Dolan.
Un film sincero e scombinato che trova una sua chiave e si fa apprezzare: nel fatto che per la prima volta emergono, a monito e commento dei rovelli maschili e più o meno omosessuali, figure femminili forti. Non tanto la mamma del ragazzino che forse è la meno interessante, ma la giornalista Newton, la madre dell'attore, la sua agente. Figure minori ma che, grazie anche alle interpreti, rischiano di impossessarsi del film.
Basta osservare Susan Sarandon per capire che è sufficiente anche solo un suo sguardo per salvare dal naufragio un film che non sta a galla.
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ralphscott
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domenica 21 luglio 2019
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nato per soffrire
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Le buone intenzioni non mancano,l'esito finale è nebuloso. John è una persona tormentata,così tanto che lo spettatore assiste impotente ad una sofferenza universale;al di là dei gusti sessuali,il protagonista si fa portatore di una grande croce che più somiglia al male di vivere. E anche la visione dell'opera diventa una sofferenza in cui ci si perde. Grandi attrici. La Sarandon sembra non invecchiare mai.
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toni mais
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giovedì 4 luglio 2019
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questa sarà sempre casa tua
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Quando un regista vuol passare ai raggi X l'animo dei suoi personaggi si avvale di uno strumento che noi inavvertitamente usiamo nei confronti di un nostro interlocutore tutte le volte che desideriamo sapere se ci ha detto la verità e se c'è qualcosa di più quanto ci ha detto : restringiamo il campo visivo. Il regista si avvale del primo piano (PP) come di una tomografia con la quale scansiona l'animo umano scomponendolo e ricomponendolo per ottenerne un'immagine tridimensionale, un'indagine intima dei sentimenti fino ad arrivare ai meandri più imperscrutabili.
Quando, al contrario, la figura umana non rileva ai fini del racconto il regista si avvale di uno strumento denominato campo lungo, lunghissimo (CLL) : l'immagine di New York vista dall'elicottero fa comprendere allo spettatore che l'uomo visto a pochi centimetri dal volto è un mondo, visto da lontano è una nullità.
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Quando un regista vuol passare ai raggi X l'animo dei suoi personaggi si avvale di uno strumento che noi inavvertitamente usiamo nei confronti di un nostro interlocutore tutte le volte che desideriamo sapere se ci ha detto la verità e se c'è qualcosa di più quanto ci ha detto : restringiamo il campo visivo. Il regista si avvale del primo piano (PP) come di una tomografia con la quale scansiona l'animo umano scomponendolo e ricomponendolo per ottenerne un'immagine tridimensionale, un'indagine intima dei sentimenti fino ad arrivare ai meandri più imperscrutabili.
Quando, al contrario, la figura umana non rileva ai fini del racconto il regista si avvale di uno strumento denominato campo lungo, lunghissimo (CLL) : l'immagine di New York vista dall'elicottero fa comprendere allo spettatore che l'uomo visto a pochi centimetri dal volto è un mondo, visto da lontano è una nullità.
Ma quando il primo piano ed il campo lungo producono lo stesso risultato, allora ci troviamo davanti ad una storia tutta da raccontare ed in questo Dolan è un genio.
Maestro dell'arte cinematografica espressionista dove il disagio psicologico nasce da uno sdoppiamento della personalità di cui solo una faccia è presentabile, Dolan ci racconta l'enorme fatica compiuta dal suo personaggio nel far comprendere il lato oscuro del suo ego, il malessere che lo porterà fino alla morte, l'insegnamento al suo giovane amico che gli salverà la vita. Donovan è omosessuale ma non lo può confessare : non alla madre che preferisce pensarlo come ad un alieno piuttosto che accettare la verità ( lancinante la scena della sua regressione fino all'età infantile quando giocava con sua madre nella vasca da bagno metafora di una recuperata verginità) , non a sua moglie alla quale preferiva una camera d'albergo, non alla sua manager che dichiara apertamente di preferire il suo quieto vivere piuttosto che una scomoda verità.
Dolan avvicina la sua macchina da ripresa fino a pochi centimetri dal volto ( ne taglia la fronte ed il mento ) per penetrare questa verità ma si scontra con una superficie iperiflettente che fa rimbalzare l'immagine senza nessuna capacità di penetrazione. La morte darà l'immagine della vita ( il titolo originale è Death and Life of... )
Accompagnamento musicale dolcissimo, location indovinatissima ( Praga locale art decò ) Interpretazione superba.
Un consiglio : non andate a vederlo da soli. Il tema del film è la solitudine ma la solitudine non ne è precetto
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fabiofeli
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mercoledì 3 luglio 2019
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" vi ho annoiato?"
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In un bar di Praga, Audrey (Thandye Newton), una giornalista che scrive su una rivista, deve intervistare un giovane di nome Rupert Turner (Ben Schnetzer), che ha scritto un libro autobiografico di successo, “Lettere ad un giovane attore”. Audrey non comprende perché il direttore della rivista vuole da lei quella intervista; la giornalista parla perfettamente in ceco ma proviene dall’Africa e si interessa di argomenti completamente diversi. Si mescolano i tempi e i luoghi dell’azione (Londra?): Rupert undicenne (Jacob Tremblay) parla con la madre, Sam Turner (Nathalie Portman); le chiede se è arrivata una lettera a lui indirizzata scritta con un inchiostro verde.
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In un bar di Praga, Audrey (Thandye Newton), una giornalista che scrive su una rivista, deve intervistare un giovane di nome Rupert Turner (Ben Schnetzer), che ha scritto un libro autobiografico di successo, “Lettere ad un giovane attore”. Audrey non comprende perché il direttore della rivista vuole da lei quella intervista; la giornalista parla perfettamente in ceco ma proviene dall’Africa e si interessa di argomenti completamente diversi. Si mescolano i tempi e i luoghi dell’azione (Londra?): Rupert undicenne (Jacob Tremblay) parla con la madre, Sam Turner (Nathalie Portman); le chiede se è arrivata una lettera a lui indirizzata scritta con un inchiostro verde. E’ l’ultima lettera di una fitta corrispondenza iniziata cinque anni prima tra Rupert e John Donovan (Kit Harington, se non andiamo errati già attore nella fortunata serie Il trono di spade). Qui Donovan è il protagonista di una serie televisiva che lo dipinge come un Supereroe, dotato, ovviamente, di sempre nuovi superpoteri e Rupert è estasiato dalle immagini trasmesse in tv. Il suo sogno è quello di recitare da grande assieme al suo idolo, ma ha sempre nascosto alla madre il legame epistolare. Donovan probabilmente pensa che Rupert è un “amico di penna” (penpal) adulto con il quale confidarsi liberamente. E arriva subito il colpo di scena: Rupert bambino vede alla tv un telegiornale che annuncia che John F. Donovan è morto …
Xavier Dolan costruisce una storia complicata con molti personaggi: oltre quelli già citati appare anche la madre di John impersonata dalla brava attrice Susan Sarandon in efficaci scene di scontro-incontro con il figlio; e poi i bambini della scuola di Rupert, uno dei quali è un bullo che perseguita Rupert, e la insegnante di letteratura che valuta in ragazzo in possesso di una grande capacità di scrivere. E sono almeno quattro le città citate: Praga con telefoni a gettone, Montreal (o/e New York?) ripresa in carrellata dall’alto, Londra nelle immagini dentro e fuori dalla scuola di Rupert bambino. Emerge ancora una storia di (omo)sessualità mal vissuta (John Donovan si è suicidato? o è stato un incidente). Un tema dello stesso genere era stato già trattato magistralmente nei precedenti successi del regista Mommy e in Tom à la ferme. Anche qui molti brani della trama si mescolano come in un gioco di specchi con la vita già percorsa dallo stesso regista e dagli attori impiegati: già da bambino Dolan girava spot pubblicitari e partecipava a film e serie televisive, ed è approdato prestissimo alla regia e a prestigiosi premi cinematografici. Il peccato non veniale del film (un incidente di percorso) è aver tolto spazio nella storia ad attrici di grande qualità come la Sarandon e la Portman per confezionare un film percepito come troppo lungo – sintomo di una crescente noia - con un “lieto fine” rappresentato dall’abbraccio tra Rupert adulto e una scettica e piuttosto meravigliata Audrey, che sembra chiedersi “Ma io che ci faccio qui? …”. E’ la coscienza (auto)critica di Dolan ad aver ispirato la scena finale? Forse Dolan si rivolge al pubblico chiedendo: “Vi ho annoiato?” Forse no, ma non importa. Se pure ha annoiato parte del pubblico, è capitato a tanti grandi registi di aver fatto almeno un passo falso. Auguriamo al poliedrico Xavier Dolan di fare tanti altri buoni film (magari cercando anche temi diversi).
Valutazione **
FabioFeli
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inesperto
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martedì 2 luglio 2019
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la commistione tra showbiz e quotidianità
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Un dramma di livello, con musiche eccezionalmente intense che vanno da Adele ai Verve. La storia viene molto ben esposta: il principio è di grande impatto, il termine della prima parte sembra impantanarsi un po' ma durante la seconda il pathos rientra in scena. Le parti riguardanti il divo sono improntate in modo particolare ad un'accentuata interiorità che Kit Harington trasmette piuttosto bene; quelle narranti le vicende del ragazzino tendono più verso la realtà quotidiana di chi viene emarginato o deriso. Ciò che emerge sensibilmente è la forza di questo piccolo fan che, crescendo e divenendo anch'egli attore famoso, riesce a superare tutti gli ostacoli di varia natura e perfino il soggetto della sua venerazione, la star.
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Un dramma di livello, con musiche eccezionalmente intense che vanno da Adele ai Verve. La storia viene molto ben esposta: il principio è di grande impatto, il termine della prima parte sembra impantanarsi un po' ma durante la seconda il pathos rientra in scena. Le parti riguardanti il divo sono improntate in modo particolare ad un'accentuata interiorità che Kit Harington trasmette piuttosto bene; quelle narranti le vicende del ragazzino tendono più verso la realtà quotidiana di chi viene emarginato o deriso. Ciò che emerge sensibilmente è la forza di questo piccolo fan che, crescendo e divenendo anch'egli attore famoso, riesce a superare tutti gli ostacoli di varia natura e perfino il soggetto della sua venerazione, la star. La vicenda è da egli stesso raccontata in un'intervista ad una prevenuta giornalista che, pian piano, perderà i preconcetti di partenza.
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