darkglobe
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lunedì 17 dicembre 2018
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comprendere il passato per riconoscere il presente
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Debbo ammetterlo: sono andato a vedere quest’ultimo lavoro di Moretti decisamente prevenuto, vuoi per aver dato credito ad alcune recensioni non troppo positive lette su quotidiani e testate di settore, vuoi perché temevo che si trattasse di una ricostruzione del golpe cileno più figlia di una sorta di autocompiacimento cinematografico, lontano dunque dalla raccolta delle testimonianze di chi c’era, che un vero documentario.
Ebbene in entrambi i casi mi sbagliavo: Santiago, Italia è un docu-film decisamente interessante, coeso, ben filmato e con un montaggio eccellente che interpone, con intelligenza e stile, interviste frontali a filmati d’epoca e suddivide in maniera strutturalmente lineare i temi trattati.
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Debbo ammetterlo: sono andato a vedere quest’ultimo lavoro di Moretti decisamente prevenuto, vuoi per aver dato credito ad alcune recensioni non troppo positive lette su quotidiani e testate di settore, vuoi perché temevo che si trattasse di una ricostruzione del golpe cileno più figlia di una sorta di autocompiacimento cinematografico, lontano dunque dalla raccolta delle testimonianze di chi c’era, che un vero documentario.
Ebbene in entrambi i casi mi sbagliavo: Santiago, Italia è un docu-film decisamente interessante, coeso, ben filmato e con un montaggio eccellente che interpone, con intelligenza e stile, interviste frontali a filmati d’epoca e suddivide in maniera strutturalmente lineare i temi trattati.
Lo scopo, lo si intuisce da subito, non è quello di una ricostruzione storica degli eventi, aspetto che avrebbe richiesto ben altro tipo di soluzioni cinematografiche, ma vivere quanto accadde attraverso ricordi, parole, umori e sentimenti dei diretti protagonisti, intervistando un ventaglio multiforme di testimoni su quanto accadde a Santiago: tra questi la regista Carmen Castillo, il traduttore Rodrigo Vergara, il regista Patricio Guzman, l’artigiano Arturo Acosta, gli imprenditori Erik Merino, Stefano Rossi e Ivan Collado, l’operaio David Munoz, l’avvocato Carmen Hertz, il professor Leonardo Barcho, i diplomatici italiani Piero De Masi ed Enrico Calamai (il nostro mitico “Schindler di Buenos Aires”), il medico Maria Luz Garcia, il muralista Eduardo Carrasco, il musicista José Seves, finanche Eduardo Iturriaga, ex generale dell'esercito.
Il tema viene affrontato in maniera mai pedante (tipico rischio dei documentari di genere) e dalle testimonianze emergono alcune questioni cruciali relative al golpe cileno e a quanto ne seguì, senza il rischio di ambiguità e con un amore per la verità dei fatti, nonostante la dichiarata partigianeria dello stesso regista, che lascia poco spazio a libere interpretazioni. Moretti sembra quasi scomparire, episodicamente si sente la sua voce quando qualche testimone di commuove, ma è pienamente apprezzabile il suo entrare “in punta di piedi” su questi argomenti per non urtare la sensibilità sia di chi racconta che dello spettatore stesso.
Le ingerenze statunitensi
Il film parte descrivendo la vittoria alle elezioni presidenziali cilene del 1970 di Salvator Allende e del suo partito di Unidad Popular. La preoccupazione di alcuni settori della borghesia ricca, degli industriali e soprattutto degli Stati Uniti è in quel periodo storico elevata, al punto che durante la campagna elettorale gli ultimi hanno copiosamente finanziato una violenta campagna di delegittimazione di Allende con tutti i mezzi praticabili, vedendo di cattivo occhio l’insediamento di un regime di stampo socialista.
Arrivato al potere Allende, come riferisce un testimone, si preoccupa da subito di effettuare alcune riforme a favore dei gruppi sociali più deboli, combattendo analfabetismo e facendo sì che per ogni cittadino sia garantita gratuitamente una razione minima giornaliera di latte.
Il documentario di Moretti mette in evidenza la discussione di allora tra chi intendeva portare avanti le riforme il più rapidamente possibile e chi temeva che una eccessiva accelerazione avrebbe provocato la violenta reazione delle classi più abbienti. La mossa che segna probabilmente la condanna politica di Allende è la nazionalizzazione delle miniere di rame, sottraendole agli USA senza alcuna compensazione finale.
La fiducia incrollabile di Allende e la sua ingenuità
Questo è quanto emerge sia dal documentario di Moretti che, per chi ha avuto modo di vederlo, dall’Intervista a Salvador Allende: La forza e la ragione di Roberto Rossellini. Il presidente cileno e i suoi fedeli trascurano le voci che parlano di un imminente golpe, errore legato probabilmente ad una fiducia incrollabile nella fedeltà dell’apparato militare e soprattutto nel meccanismo democratico.
Un suo discorso di sfida a coloro che ne chiedono le dimissioni di fronte alle progressive difficoltà dell’economia nazionale ne è testimonianza, quando lo stesso presidente afferma pubblicamente che porterà avanti il suo mandato democratico fino alla naturale conclusione e che nessuno potrà contrastare la volontà popolare.
I boicottaggi, il mercato nero
Un testimone parla dei prezzi dei beni alimentari primari che via via lievitano, finendo sul mercato nero, nonostante ne sia stato imposto per ordinanza un calmiere: appare chiaro che il metodo di pressione più convincente contro il governo di Unidad sia giocare a strozzare economicamente il paese, poortando in sofferenza le masse, sia internamente che dal punto di vista dell'oscillazione sui prezzi di mercato imposte al bene minerario nazionalizzato.
I bombardamenti, La guerra civile evitata
Impressionante è la ricostruzione della giornata del colpo di stato dell'11 settembre 1973, di cui la gente inizia ad aver sentore ascoltando fin dalla mattina strani annunci radiofonici, con la minaccia finale dell’esercito, poi messa in atto, del bombardamento de La Moneda, il palazzo presidenziale. Così come desta stupore e rabbia riascoltare l’ultimo annuncio radiofonico di Allende che dichiara di farsi da parte per il bene del paese.
Ancora oggi, riferisce un testimone, c’è il dubbio tra l’ipotesi del suicidio e quella dell’omicidio finale, ma è chiaro che l’intento presidenziale sia quello di evitare una guerra civile, sacrificando il popolo cileno a cui preconizza per radio un futuro con naturale ritorno alla normalità. Purtroppo, contrariamente alle speranze, la dittatura durerà diciassette anni e annovererà migliaia di giustiziati, torturati, imprigionati, esiliati, desaparecidi.
Bruciano i libri, Il carcere, le torture, l’oscurantismo
Il documentario riporta immagini dello Stadio Nazionale, trasformato in un enorme carcere nel quale vengono condotti migliaia di civili. Riferisce uno dei diplomatici italiani di aver personalmente visto giovani militari affermare di sentirsi potenti con una pistola in mano ed altri ringraziare chi si stava suicidando evitandogli la seccatura dell’esecuzione.
I primi tre giorni molti degli arrestati vengono lasciati senza cibo, altri vedono plotoni di esecuzione con alcune vittime schierate di spalle lungo le pareti dello stadio.
Altre immagini di repertorio mostrano l’incendio di libri, ennesimo segno dell’oscurantismo più feroce, sia fisico che culturale, portato avanti dalla dittatura militare.
Infine vi è la questione delle torture e dei desaparecidos. Su questo tema emblematica la testimonianza di chi ha perdonato, con la lecita comprensione della debolezza di coloro che erano finiti sotto tortura, le delazioni sul proprio conto e di una donna che ha resistito alle peggiori umiliazioni fisiche e morali: racconta di essere stata denudata da una carceriera e poi portata nella stanza delle torture alla presenza di 4 uomini ma di essersi probabilmente salvata per aver insegnato - lo si intuisce - ad una delle peggiori carceriere in stato di gravidanza, a ricamare a maglia.
L’approfondimento si ferma qui, forse la parte meno eplicita dell’intero documentario, che dà per scontato l’orrore e il processo di sterminazione collettiva operato da queste unità semi illegali. A chi voglia approfondire il tema valle la pena consigliare la lettura di “Desaparecido. Memorie da una prigionia” di Mario Villani e Fernando Reati.
Il parere dei "cattivi"
Qui Moretti fa qualcosa che è tipicamente alieno dai documentari di genere, ovvero intervistare un paio di esponenti delle gerarchie militari, uno oggi libero e l’altro in carcere a scontare una condanna. Il primo, Iturriaga, afferma che rifarebbe "esattamente le stesse cose", in quanto il golpe servì a bloccare quella che a suo dire era la violazione della carta costituzionale da parte di Allende ed affermando che il 36% di maggioranza non era sufficiente a giustificare la guida del paese. All’obiezione di Moretti che “questa è la democrazia” l'intervistato continua a dichiarare il comportamento di Allende non conforme alla costituzione cilena esplicitando che le gerarchie militari non si occupavano di politica.
Il secondo, in carcere, si considera una “vittima”, minimizza sulle torture, definite come episodi marginali e ad un certo punto si stufa delle pur blande domande del regista interrompendo l’intervista
L’ambasciata italiana ed il ruolo della Chiesa
Questo è l’elemento del film che inorgoglisce maggiormente noi italiani, grazie al racconto del ruolo svolto dall’ambasciata italiana nel salvare migliaia di perseguitati politici che riescono a scavalcavare con azioni di fortuna il muro dell’ambasciata per scaraventarsi nel giardino antistante, con la speranza che dall’altro lato vi sia qualcuno pronto a recuperarli e che in quel momento non passino militari cileni.
I racconti sono un misto di ricordi divertiti e allo stesso tempo drammatici, quando ad esempio si narra di una bambina lanciata come un sacco dall’altra parte del muro o quando, a chi chiede alle persone che si intravvedono dal cancello se quella sia l’ambasciata italiana, segue come risposta il suggerimento a far presto e a scavalcare subito il muro. Emblematica la scelta autonoma e coraggiosa dell’ambasciata di accogliere il più possibile rifugiati a fronte della mancanza di risposte da parte del corrispondente ministero italiano a cui i diplomatici si rivolgono per aver lumi sul da farsi.
Encomiabile in questa storia anche il ruolo della Chiesa, con il racconto ad esempio di due suore che salvano, camuffandosi da normali cittadine, uno dei registi in procinto di essere catturato.
I diritti e l’accoglienza nell’Italia dell’epoca
Siamo alla parte conclusiva del film di Moretti. Sembra si parli di un’Italia altra tale è la lontananza dall’attuale. Emerge dai racconti dei cileni l’immagine di un’Italia solidale, con una sorprendente capacità di accoglimento, di smistamento ed impiego rapidi dei rifugiati, inquadrati “regolarmente” e valorizzati sulla base delle esperienze professionali pregresse, senza contestazioni sul fatto che tali immigrati potessero “togliere lavoro agli italiani”. Qualche testimone arriva a parlare del Cile come matrigna e dell’Italia come patria adottiva ed accogliente. Ne scaturisce l’immagine di un paese di cui quello attuale è un'ombra sbiadita nel quale diritti del lavoro e solidarietà appaiono sostituiti da precarietà ed individualismo.
C’è poco da aggiungere se non consigliare la visione di questo film a chi voglia riprendere in mano il filo della storia cilena attraverso le testimonianze di chi quella storia l’ha vissuta e senza le quali è difficile se non impossibile interpretare sia i fatti del passato che riuscire a comprendere il presente, anche quello più propriamente italiano.
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francesca meneghetti
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venerdì 7 dicembre 2018
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c'eravamo tanto amati: santiago, italia.
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C’è una figura retorica che ha prodotto risultati grandiosi nella letteratura, quella della reticenza. Ne parlò più volte Umberto Eco, ricordando il dantesco “e da quel giorno più non vi leggemmo avante” (si riferisce a Paolo e Francesca, dopo la rivelazione dell’amore reciproco nel corso della lettura delle avventure di Lancillotto) e anche il manzoniano “La sventurata rispose” (riferito alla monaca di Monza, che abbocca all’esca dello scellerato Egidio). Tacere a volte è più efficace del dire. Se la lettura assomiglia alla scultura, nel senso che è l’arte dell’aggiungere e del togliere, lo stesso si può dire del cinema. In questo documentario, Moretti lavora per sottrazione, più che per addizione (di tempi, di storie, di sovrastrutture, di sovraesposizione personale).
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C’è una figura retorica che ha prodotto risultati grandiosi nella letteratura, quella della reticenza. Ne parlò più volte Umberto Eco, ricordando il dantesco “e da quel giorno più non vi leggemmo avante” (si riferisce a Paolo e Francesca, dopo la rivelazione dell’amore reciproco nel corso della lettura delle avventure di Lancillotto) e anche il manzoniano “La sventurata rispose” (riferito alla monaca di Monza, che abbocca all’esca dello scellerato Egidio). Tacere a volte è più efficace del dire. Se la lettura assomiglia alla scultura, nel senso che è l’arte dell’aggiungere e del togliere, lo stesso si può dire del cinema. In questo documentario, Moretti lavora per sottrazione, più che per addizione (di tempi, di storie, di sovrastrutture, di sovraesposizione personale). Si distacca, dunque, dallo stile di Michael Moore, ma anche del Moretti d’antan, sempre molto presente e protagonista nei suoi film. C’è solo una scena in cui compare, di fronte a un “grande” militare cileno ora in carcere, che si professa innocente, per dire, con decisa sottolineatura del pronome personale di prima persona, “Io non sono imparziale”. Nel corso delle altre interviste, nelle quali funziona comunque, come nelle pratiche della Oral History, la doppia soggettività (dell’intervistatore e dell’intervistato), Moretti interviene solo quando la persona che ha davanti incontra un blocco emotivo, ha difficoltà a raccontare. Preferisce lasciare spazio ai protagonisti del documentario (cileni politicamente sospetti, rifugiatisi presso l’ambasciata italiana di Santiago, per poi essere accolti, e con calore umano, nel nostro Paese). Preferisce parlare di una stagione in cui ”globalizzazione “ (posto che la parola allora esistesse) significava condividere valori e passioni, significava solidarietà e non esclusione. Spirava, allora, un vento contagioso che sembra essere l’opposto di quello contemporaneo. Meglio allora tacere sul presente e parlare del passato. Reticenza. Il film-documentario è articolato in quattro atti: la conquista del potere, per via democratica, di Unidad Popular; il golpe dell’11 settembre 1973, fomentato dalla Cia, essendo stati lesi gli interessi americani dalla nazionalizzazione delle miniere di rame; la repressione feroce di Pinochet; la protezione assicurata dall’ambasciata italiana a chi ebbe la fortuna o la fortuna di scavalcare il muro. La narrazione alterna interviste e materiali d’archivio. Nelle interviste non si indugia in particolari trucidi, anche se una donna parla delle torture inflitte alle donne, ma si lascia spazio ai silenzi, che sono sempre eloquenti, e che a volte arrivano all’improvviso, spiazzando la razionalità dell’intervistato e dello spettatore, oltre che del regista. Spesso i momenti più intensi dal punto di vista emotivo, quelli che commuovono di più, sono quelli che fissano atti o atteggiamenti improntati a solidarietà, come quelli di un anonimo vescovo di Santiago ricordati tra le lacrime inaspettate di un ateo inveterato. E’ lo stile della reticenza-eloquente. Chi ha vissuto quegli anni, ne esce con lo struggimento infinito di chi vive un lutto: com’è possibile che quella civiltà ricca di speranze e di ideali, anche quella dell’accoglienza, ben descritta da quell’insegnante che definisce il Cile Patrigno e l’Italia Materna, sia scomparsa? Chi è troppo giovane per avere ricordi, ritroverà un’altra faccia degli anni’70, che non furono solo minigonne, pantaloni a zampe di elefante, Woodstock, Beatles e Rolling Stones (con tutto il rispetto per tutto ciò), ma anche pulsione verso un mondo migliore, più umano.
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vanessa zarastro
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venerdì 21 dicembre 2018
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11 settembre 1973
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Una delle primissime inquadrature del film è una fantastica panoramica sulla città di Santiago vista da un terrazzo con Nanni Moretti di spalle. La quantità di grattacieli ricorda le altre città sudamericane – come ad esempio San Paolo o Buenos Aires -, dove i grattacieli non coincidono con il Central Business District, come nel modello statunitense.
Nanni Moretti attraverso questo documentario ricostruisce gli eventi precedenti e successivi al Colpo di Stato in Cile dell’11 settembre del 1973 e la dittatura di Pinochet. La prima parte riguarda il prima del golpe che, attraverso testimonianze e materiali di repertorio ricostruisce l’energia di un popolo che pensa di trasformare il mondo.
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Una delle primissime inquadrature del film è una fantastica panoramica sulla città di Santiago vista da un terrazzo con Nanni Moretti di spalle. La quantità di grattacieli ricorda le altre città sudamericane – come ad esempio San Paolo o Buenos Aires -, dove i grattacieli non coincidono con il Central Business District, come nel modello statunitense.
Nanni Moretti attraverso questo documentario ricostruisce gli eventi precedenti e successivi al Colpo di Stato in Cile dell’11 settembre del 1973 e la dittatura di Pinochet. La prima parte riguarda il prima del golpe che, attraverso testimonianze e materiali di repertorio ricostruisce l’energia di un popolo che pensa di trasformare il mondo. C’è anche la descrizione di come sia stato preparato il golpe con il boicottaggio progressivo dei prodotti alimentari.
Su “Il Venerdì” di Repubblica Mario Calabresi, a sua volta, ha intervistato il regista e così ha raccontato «In Cile l'11 settembre del 1973 un golpe rovescia il governo di Salvador Allende. Il presidente socialista per non cadere nelle mani dei militari, che bombardano il palazzo presidenziale della Moneda, si suicida. Il potere passa nelle mani del generale Augusto Pinochet, iniziano le retate di dissidenti politici le torture, le sparizioni. A Roma il presidente del Consiglio si chiama Mariano Rumor, nel suo governo ci sono figure come Antonio Giolitti e Ugo La Malfa, agli Esteri c'è Aldo Moro. A Santiago quel giorno non c'è l'ambasciatore, nella rappresentanza italiana ci sono solo due giovani diplomatici, Piero De Masi e Roberto Toscano. Quando alla porta bussano i primi ragazzi che fuggono dai militari decidono di aprire e accogliere. L'ambasciata italiana diventerà in poche settimane l'unico rifugio, un'isola di salvezza. Chi fugge, per entrare, deve saltare il muro di cinta, ma se ci riesce trova scampo. La grande villa e il parco si trasformano per un anno in una comune dove si mangia e si dorme ovunque, dove si preparano lasciapassare per i richiedenti asilo, dove si organizzano i trasferimenti per l'aeroporto. In seicento riusciranno a salire su un volo per l'Italia con la complicità mai dichiarata di quel ministro degli Esteri che, in una sorta di democristiano silenzio-assenso, non risponderà mai alle richieste di autorizzazione all'accoglienza che arrivano da Santiago». Un altro dato importante messo in evidenza da Moretti è, l’organizzazione dell’accoglienza una volta arrivati i rifugiati in Italia. Nel film ci sono le commosse testimonianze di come i cileni siano stati accolti con generosità nei campi in Emilia o nelle fabbriche milanesi, assieme ai ricordi dei corsi di Italiano e delle serate di musica andina per contenere la nostalgia. «Il Cile è stato un Padre cattivo, l’Italia una Madre generosa» racconta una donna cilena.
Tutto il film è costituito da interviste dei testimoni, donne e uomini di diversi tipi ed estrazione sociale, inframezzate da film di repertorio. In fase di montaggio da quaranta ore di interviste si è arrivati a due. Molte delle storie narrate sono bellissime, spesso incredibili, cariche di dignità, ci sono Salvator Allende con Pablo Neruda. Con i loro racconti Moretti ricostruisce i fatti storici, il clima politico, le varie responsabilità civili, i mass media in mano alle destre, il ruolo degli Stati Uniti. Uno dei militari intervistato a Punta Pueco, carcere per “privilegiati” dove si trovano una sessantina di militari condannati per violazione dei diritti umani, così afferma: «Abbiamo solo eseguito gli ordini» ricordandoci ciò che la filosofa Hanna Arendt scrisse a suo tempo sulla banalità del male, a partire dal processo di Otto Adolf Eichman.
Molte differenti persone che hanno visto “Santiago, Italia”mi hanno confessato: “mi sono commosso”…In effetti, la commozione viene, non solo dal racconto della crudeltà delle torture patite, raccontate con pacato distacco da chi le ha subite, ma dalla nostalgia di un’epoca in cui sembrava fosse semplice scegliere da che parte stare. Da una parte c’erano i cattivi, dall’altra la speranza. C’era la lotta per la libertà, c’era il desiderio del cambiamento e l’illusione di poter ottenere un mondo migliore.
L’ambasciata italiana ha avuto un ruolo importante ospitando gli oppositori al regime lì e aiutandoli poi a partire. Eravamo un popolo ospitale e accogliente cinquant’anni fa.
«Scappavano come oggi scappano dall’Africa» afferma uno dell’ambasciata intervistato da Moretti, che ci fa riflettere sul senso politico del cinema in un momento come questo dove l’Italia, isolata nel problema dei rifugiati, diventa inospitale e l’Europa sta via via sparendo, passando dal 50% del PIL mondiale al 11% - come spiegava Massimo Cacciari in una recente lectio magistralis - e invece di investire, si chiude su se stessa pensando di difendersi.
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zarar
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giovedì 31 gennaio 2019
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l'età dell'accoglienza
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L’understatement è la cifra di questo che non chiamerei documentario sul colpo di Stato in Cile e sui profughi politici cileni, quanto piuttosto rievocazione tramite testimonianze, nello stile di un servizio televisivo, che Moretti sviluppa con quel tratto stilistico che gli è consueto, un po’ trasandato, un pizzico artigianale, un filo improvvisato, quasi a sottolineare che il regista è presente là non come un demiurgo, ma come un uomo profondamente coinvolto con tutte le sue domande aperte e i suoi dubbi. La forza che hanno sempre le testimonianze dirette di eventi eccezionali e la capacità di Moretti di renderle con grande efficacia grazie ad una gestione sapiente dei tagli, dei piani, in particolare dei tempi, cattura lo spettatore e di per sé sola rende questo film qualcosa da vedere e su cui riflettere.
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L’understatement è la cifra di questo che non chiamerei documentario sul colpo di Stato in Cile e sui profughi politici cileni, quanto piuttosto rievocazione tramite testimonianze, nello stile di un servizio televisivo, che Moretti sviluppa con quel tratto stilistico che gli è consueto, un po’ trasandato, un pizzico artigianale, un filo improvvisato, quasi a sottolineare che il regista è presente là non come un demiurgo, ma come un uomo profondamente coinvolto con tutte le sue domande aperte e i suoi dubbi. La forza che hanno sempre le testimonianze dirette di eventi eccezionali e la capacità di Moretti di renderle con grande efficacia grazie ad una gestione sapiente dei tagli, dei piani, in particolare dei tempi, cattura lo spettatore e di per sé sola rende questo film qualcosa da vedere e su cui riflettere. E proprio riflettendoci su, alla fine abbiamo la sensazione di avere avuto qualcosa in più e qualcosa in meno rispetto alle aspettative. Il qualcosa in più è il punto di vista dei protagonisti in una deimensione di storia orale, un tipo di memoria – si sa – che va soprattutto letta tra le righe. Per quanto il regista possa aver condizionato le interviste e selezionato i materiali, le testimonianze suonano autentiche e hanno qualcosa di inedito, che ci sorprende e incuriosisce: non tanto la mitizzazione di un’epoca di speranze, quando il grande cambiamento sembrava possibile, non la riconoscenza per chi ha aiutato, sempre commossa e commovente, ma piuttosto – per esempio - la memoria della sorpresa prima ancora della disperazione rispetto al colpo di stato, la rimozione o quasi delle cause e responsabilità interne oltre che esterne che hanno portato alla dittatura, la lievità con cui si toccano argomenti terribili (la tortura) accanto ad argomenti leggeri, persino comici; la sensazione di una totale anormalità che può diventare normalità; la semplicità ‘eroica’ con cui si dichiara che si può capire una confessione sotto tortura, anche se ti riguarda; ancora una certa sorpresa, prima ancora che gratitudine, che la vicenda cilena avesse suscitato tanta solidarietà in Italia. A questo proposito, il focus del film, non perfettamente dimensionato nell’insieme, vorrebbe essere la sottolineatura amara della differenza tra un’Italia che negli anni ’70 accoglieva i profughi cileni con partecipazione umana e disponibilità e quella che oggi respinge nuovi profughi con la cattiveria di chi guarda torvo ogni nuovo commensale a una mensa troppo povera. Il confronto ha una presa immediata, che dovrebbe fare i conti (ma non li fa abbastanza) con la storia. E qui vengo al qualcosa di meno: possiamo condividere emotivamente, e lo facciamo con tutto il cuore, l’approccio di Moretti che è dichiaratamente di parte, ma non è di altre emozioni applicate alla politica che sentiamo il bisogno oggi. In un docufilm vorremmo approfondimenti, distinguo, scavo nelle fables convenues, giudizi fortemente motivati, documenti, documenti, documenti. Su uno sfondo più solido, anche le belle ed emozionanti interviste avrebbero avuto un peso diverso. Tre stelle e mezzo.
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xmassss62
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mercoledì 2 gennaio 2019
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emozionante e ricco di contenuti
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Autentica passerella di protagonisti che con la loro toccante testimonianza e la sapiente regia di moretti, rendono il film interessante e fruibile senza lasiare nemmeno 1 minuto alla noia. Un capolavoro e una ricostruzione storica memorabile.
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aldot
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giovedì 3 gennaio 2019
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da vedere assolutamente
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Un racconto documentato in modo onesto e partecipato. Una riflessione profonda sul presente del nostro paese attraverso i fatti accaduti negli anni 70 in Cile.
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cardclau
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domenica 9 dicembre 2018
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gli investitori, no! per dio, non toccateli!
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Vediamo il film documento storico, immensamente doloroso perché potentemente liberticida, e forse anche per quello sepolto in un luogo remoto della mente, di Nanni Moretti, sugli antecedenti e conseguenti del golpe in Chile (Régimen Militar), avvenuto l’11 settembre 1973. Asciuttissimo e bravissimo, Nanni Moretti, utilizza il film come deve essere, legato alla storia. Racconta gli eventi soprattutto tramite testimonianze di chi ha vissuto di persona quella tragedia, e ci riporta febbrilmente a quella memoria. Ma non impressioniamoci. Si tratta dell’ennesima sconfitta della democrazia, intesa nel vero senso della parola (dal greco antico: δῆμος, démos, “popolo” e κράτος, krátos, “potere”, etimologicamente governo del popolo, in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dall’insieme di cittadini).
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Vediamo il film documento storico, immensamente doloroso perché potentemente liberticida, e forse anche per quello sepolto in un luogo remoto della mente, di Nanni Moretti, sugli antecedenti e conseguenti del golpe in Chile (Régimen Militar), avvenuto l’11 settembre 1973. Asciuttissimo e bravissimo, Nanni Moretti, utilizza il film come deve essere, legato alla storia. Racconta gli eventi soprattutto tramite testimonianze di chi ha vissuto di persona quella tragedia, e ci riporta febbrilmente a quella memoria. Ma non impressioniamoci. Si tratta dell’ennesima sconfitta della democrazia, intesa nel vero senso della parola (dal greco antico: δῆμος, démos, “popolo” e κράτος, krátos, “potere”, etimologicamente governo del popolo, in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dall’insieme di cittadini). Ennesima, perché la storia del genere umano è continuamente costellata da continui, e riusciti attentati alla democrazia, e vittorie della oligarchia del momento. Il problema è che è la vita è intrinsecabilmente legata alla lotta per libertà, per cui sono comunque vittorie di Pirro, dopo poco o tanto si riprende. Rimane comunque impressionante come il potere sia fondamentalmente astorico, approfitta profondamente dell’incapacità di registrare nella memoria gli eventi, se non gli ultimi, per cercare di sopravvivere in un clima di falsità. Ma vediamo cosa è rimasto del ripasso. Nel 1973 il Chile era pericolosamente governato dal più democratico dei governi dell’America Latina, di Salvador Allende, dove la coalizione di più forze della sinistra aveva sbalzato in modo non violento l’immota destra. Ma quel bacillo di destabilizzazione politica (che si era permessa perfino delle nazionalizzazioni delle risorse pubbliche) non era solo indigesto, si era permesso di toccare privilegi intoccabili, ma avrebbe potuto infettare altre realtà, ad esempio, dell’Europa occidentale. Per cui si erano attivati i settori reazionari e conservatori, appoggiati dagli USA e dalla CIA, che avevano causato il terribile colpo di Stato dei militari di Augusto Pinochet Ugarte. Allora comandante in capo dell’esercito cileno, nomina che aveva avuto dallo stesso Salvador Allende tre settimane prima. In realtà già nel 1970, ancor prima di Salvador Allende, la Casa Bianca di Richard Nixon aveva orchestrato in Chile una campagna di destabilizzazione segreta della CIA (secondo documenti governativi declassificati), con invio di armi e denaro, ai gruppi paramilitari di destra, a certi settori delle forze armate cilene, la disinformazione della stampa. L’obiettivo? Rendere ingovernabile il Chile provocando il caos sociale, evocando le simpatie di ampi settori della borghesia, e favorire un giusto colpo di stato. Ciò che ne è seguito in parte viene evidenziato dal film, a perenne testimonianza, con la grande figura del cardinale Raúl Silva Henríquez, definito il «più fermo, coerente ed evangelico oppositore» del regime.
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