
Titolo originale | Pose |
Anno | 2018 |
Genere | Drammatico |
Produzione | USA |
Regia di | Ryan Murphy, Gwyneth Horder-Payton, Nelson Cragg, Silas Howard, Tina Mabry, Janet Mock |
Attori | Indya Moore, Kate Mara, Jeremy McClain, Angelica Ross, Ryan Jamaal Swain Angel Bismark Curiel, Alexander Martin Jones, Tommy Bayiokos, Assibey Blake, Samantha Grace Blumm, Billy Porter, Mj Rodriguez. |
Rating | Consigli per la visione di bambini e ragazzi: |
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Ultimo aggiornamento venerdì 8 febbraio 2019
La serie ha ottenuto 6 candidature e vinto un premio ai Golden Globes, 3 candidature e vinto un premio ai Emmy Awards, 7 candidature a Critics Choice Award, 1 candidatura a Writers Guild Awards, La serie è stato premiato a AFI Awards,
CONSIGLIATO N.D.
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Ambientata nel 1986, la serie guarda alla contrapposizione di diversi segmenti della vita e della società a New York: da una parte l'ascesa verso il lusso dell'era Trump, dall'altra la scena sociale, culturale e letteraria.
Il gran finale tra veli da sposa, paillettes e un addio da ricordare
Recensione
di Claudia Catalli
Blanca, i suoi figli e figlie, e sua madre Elektra devono gestire più situazioni contemporaneamente, tra cui l'aggravarsi della malattia di Pray Tell, malato di Aids. Affronteranno ogni cosa insieme, come sempre, a riprova che quella nata nelle ballroom è diventata negli anni una comunità molto forte.
Giunti alla stagione finale è possibile affermarlo senza ombra di dubbi: non c'è serie tv più rivoluzionaria di Pose.
Nata come tentativo di raccontare al grande pubblico le lotte dei pionieri della comunità LGBTQ+, è riuscita a far affezionare critica e spettatori di tutto il mondo alle sue protagoniste, ricevendo ovunque negli anni riconoscimenti e premi prestigiosi. Ne è recente esempio il Golden Globe meritatamente conquistato da MJ Rodriguez, memorabile interprete della tenace Blanca, malata di Aids, cacciata di casa e riuscita da zero a costruirsi una famiglia e una carriera (nella terza stagione coronerà addirittura il sogno di diventare infermiera).
Restano gli elementi cardine della serie: il glamour e l'eccesso delle spettacolari ballroom da una parte, le lotte politiche contro l'ignoranza, il razzismo e la discriminazione dall'altra. Tornano gli attivisti del movimento ACT UP, intravisti già nella seconda stagione, qui viene loro dato più spazio, specie verso gli episodi finali, per le proteste contro farmaci inefficienti per la diffusione dell'AIDS e l'indifferenza dei governi al riguardo. La malattia di Pray Tell e di Blanca è un pretesto per parlarne, riflettere e creare episodi con scene drammatiche ora strazianti ora battagliere in quella che è una stagione fin troppo piena di scene madri.
É uno dei limiti di una stagione a cui spetta l'ingrato compito di chiudere una trilogia storica per molti aspetti, che ha però il merito di approfondire il background famigliare delle sue protagoniste e dei protagonisti. Conosciamo l'aggressiva madre di Elektra, nel terzo episodio incentrato sulla sua fuga da casa, come pure la religiosa mamma di Pray Tell e il suo primo amore nel quarto, per non parlare del papà di Angel pronto a ricevere da lei soldi ma mai ad accettarla per com'è (sesto episodio). Una sposa, ad esempio: è il colpo di scena della stagione, che segna una svolta storica nella comunità LGBTQ+ come Elektra e Blanca non mancheranno di sottolineare al dolce Stan (Evan Peters) nel quinto episodio.
Funzionano, come sempre, le scene dei monologhi motivazionali, gli spiegoni su che cosa significhi essere transgender - in quegli anni - e, più in generale, partire da zero credendo solo in se stessi e nella comunità delle ballroom.
Presi da un evidente determinazione a chiudere la serie raccontando i temi drammatici di cui sopra con il sorriso, cercando una sorta di lieto fine speranzoso, gli autori finiscono tuttavia per concedersi troppe leggerezze. Su tutte, trasformano il personaggio forse più iconico della serie, l'elegantissima Elektra, in una formidabile pedina della mafia, con tanto di sgradevole ironia sugli italiani («Se fossi italiana saresti un boss perfetto», le viene detto). Viene addirittura esaltato l'arricchimento illecito, giustificati i soldi sporchi della malavita in nome del riscatto sociale di una donna che è stata vittima di discriminazione sin da giovane. Una vera caduta di stile, specie perché finora la serie non mirava a comunicare che il fine giustifica i mezzi, ma a raccontare la faticosa ma onesta ascesa (sociale, personale, culturale) di una comunità ignorata e calpestata negli anni, forte del suo senso di giustizia.
Ogni protagonista trova realizzazione ai suoi sogni e alle sue ambizioni, persino chi non credeva di volere una famiglia riesce ad essere chiamata "mamma" e a goderne. L'unico che non conosce happy end è il personaggio di Pray Tell, interpretato come sempre magistralmente da Bill Porter, che tuttavia fa impennare i livelli di commozione. Per il resto l'intento evidente degli sceneggiatori era garantire almeno ai personaggi quello di cui le controparti nella vita reale non hanno potuto godere: prestigio, appartamenti sontuosi, carriere mozzafiato, ricchezza, fama. Una rivincita fiabesca sulla carta, che ha poco senso nel contesto di una serie la cui forza è sempre stata raccontare, anche nei suoi risvolti più brutali, la realtà dei fatti.
La sfida del sequel e la sterzata politica: oltre alle ballroom, la lotta a ogni discriminazione
Recensione
di Claudia Catalli
Blanca e i suoi figli acquisiti continuano a destreggiarsi tra sfilate di emozioni e talento nelle ballroom e costruzioni di destini personali. C'è chi compete per diventare il ballerino di Madonna, chi si scontra contro le discriminazioni nel mondo della moda, chi fa delle scelte sbagliate a cui toccherà porre rimedio. Fin quando la combattiva Blanca non dà segni di cedimento: sarà allora che la grande famiglia delle ballroom dovrà dimostrare chi è veramente.
Quando una serie sbalordisce e conquista firmare la seconda stagione è un atto insieme folle e complicatissimo.
Ci riescono gli sceneggiatori di Pose 2, rivelandosi capaci di raccontare, attraverso glitter e costumi sfavillanti, le battaglie che hanno reso grande una generazione di pionieri gay, trans, di colore e sieropositivi, costrett* a destreggiarsi tra l'odio della discriminazione e il dolore per la miseria e i soprusi subiti. Per fortuna esistono le ballroom, spazi di condivisione ed esaltazione della persona al di là di genere e colore della pelle, luoghi di accettazione e confronto, consigli e sberleffi benevoli. Ma anche di battaglie da portare avanti tutt* insieme: la seconda stagione si stacca dalla prima proprio pigiando forte sul pedale delle lotte per i diritti e fa quello che ogni buona seconda stagione dovrebbe fare, arricchire la psicologia e la storia dei personaggi offrendo a chi guarda una nuova prospettiva.
Prospettiva profondamente politica, sin dal primo episodio. Siamo ormai nel pieno degli anni '90, Vogue di Madonna scala le classifiche e tra i figli di Blanca c'è grande fervore e competizione per diventare i ballerini del suo nuovo tour. La trasgressione della popstar e la liberazione progressiva dei costumi non va però di pari passo con l'apertura mentale della gente, lo dimostrano quanti arrivano a mettere in discussione i contratti della modella Angel - che in questa stagione avrà non pochi problemi, anche di tossicodipendenza - non appena sapranno la sua identità. «Il mondo non è ancora pronto», le verrà detto a consolazione, ma è impossibile consolarsi sapendo di non essere accettati per chi si è veramente. Una realtà per cui Blanca, insieme a suo fratello Pray Tell, combatte da sempre, mentre intorno a loro infuria l'epidemia di AIDS, sempre più protagonista della serie.
La malattia miete vittime non meno della furia discriminatrice di chi non riesce a vedere una persona oltre la superficie, i facili giudizi e gli orpelli luccicanti. E' il grande messaggio di Pose, il cui merito è saper raccontare in maniera efficace, insieme intima e spettacolare, storie romanzescamente vere di una comunità che ha saputo stringersi in se stessa e farsi famiglia senza mai dimenticare "gli altri". Lo comunica bene il finale di stagione, una decima puntata commovente che parte con una Blanca stremata su un letto di ospedale, stanca di combattere, e termina con il suo stesso trionfo, come donna, ma soprattutto come madre. Sarà proprio lei, dopo l'ennesima ball vittoriosa, a dare il benvenuto a due quattordicenni cacciati dalle rispettive case che vivono di stenti per strada. Una metafora potente, a significare che la porta dell'accoglienza dell'altr*, chiunque sia, è sempre aperta, anche a distanza di anni e di generazioni. «Le ballroom servono a ricordarti che non sei mai solo», recita in una delle battute più significative della stagione Billy Porter, che è un piacere ritrovare nuovamente negli sfarzosi, e al contempo sofferenti, panni del multisfaccettato personaggio Pray Tell.
La compagine attoriale fa ancora una volta il suo, se possibile persino meglio della prima stagione. Rispondendo con misura agli eccessi di enfasi di scrittura, i protagonisti sembrano cimentarsi in una gara performativa in cui, a differenza delle ball, è difficile stabilire il vincitore. MJ Rodriguez nei panni di Blanca e Dominique Jackson in quelli di Elektra sono ormai personaggi iconici, capaci di convincere anche nell'episodio meno riuscito, il nono, evidentemente posto ad alleggerire e smorzare i toni drammatici delle puntate precedenti, eppure forzato nell'intento di raccontare una spensierata gita a Long Island delle protagoniste. Del resto, a voler proprio trovare un difetto, si tratta di una stagione alquanto lunga: diluire il racconto in dieci episodi a differenza degli otto della prima stagione è una scelta che rischia a più riprese debordamenti sul retorico e dilungamenti poco funzionali, finendo per appesantire il ritmo e la forza della narrazione.
L'arrivo di un nuovo decennio
Recensione di a cura della redazione
Nel 1990, l’uscita di Vogue di Madonna porta improvvisamente visibilità alla scena della ball culture. Il successo mainstream porta alcuni effimeri vantaggi, ma anche la consapevolezza che sia un’attenzione passeggera che non ha nulla a che vedere con le lotte quotidiane dei membri delle House. Oltre che da drammi tragicamente all’ordine del giorno, la comunità è colpita duramente dall’epidemia di HIV, e Blanca, Angel e persino una riluttante Elektra cominciano a fare attivismo per contrastare la politica invisibilizzante del governo ed esporre il proprio dramma alla società civile.
Una serie tv sulla fierezza di scegliere chi essere ogni giorno
Recensione
di Claudia Catalli
Nella New York della seconda metà degli anni Ottanta la Ball è il luogo dove tutto è possibile. Dove poter diventare qualcuno e farsi strada nel mondo della credibilità. Dove per essere proclamata regina devi saper sfoggiare, prima che abiti scintillanti e make up mozzafiato, tutta la sicurezza nella persona che hai scelto di essere. Lo sanno bene Blanca Evangelista e Elektra Abundance, "madri" nere di piccole comunità di outsiders che hanno scontato sulla loro pelle il peso della discriminazione: omosessuali, transessuali, spacciatori, prostitute, adolescenti cacciati di casa, emarginati di ogni età, pelle e provenienza.
Ryan Murphy, Brad Falchuk e Steven Canals hanno avuto la brillante idea di raccontare tutto questo: il senso di ricostruire sulle macerie personali ("Sto cercando di costruire qualcosa che possa sopravvivermi", recita Blanca/MJ Rodriguez), di fare famiglia sulla base di persone venute dal nulla che hanno la voglia di credere in se stesse e in chi hanno accanto, di sostenersi e di lottare con orgoglio per ribadire alla società che li disprezza il valore delle loro scelte.
Otto episodi disponibili su Netflix contro il razzismo, l'omofobia, il maschilismo, la xenofobia e in generale l'ottusità, in cui la caratterizzazione dei personaggi si rivela ineccepibile.
La prima puntata si apre con una notizia ferale: la protagonista Blanca, ex adolescente cacciato di casa perché gay, scopre di essere sieropositiva. Subito l'intuizione positiva degli sceneggiatori: trasformare la malattia più temibile in una chance. Così Blanca si affranca dall'egemonia della tirannica madre Elektra per fondare una "casa" tutta sua. Giorno per giorno, puntata dopo puntata, sceglie come figli ragazzi speciali. C'è Damon che è un ottimo ballerino - scatta l'omaggio chiaro a Flashdance - ma non ha modo e mezzi per diventarlo. C'è Angel che vende il suo corpo ma sogna il grande amore (lo troverà, forse, nello sposato Stan, ovvero Evan Peters nell'ennesima performance convincente). Ci sono altri ragazzi pieni di sogni, talento e speranza a cui le "case" fondate da "madri" in cerca di riscatto danno vitto, alloggio e calore umano. Le Ballroom sono il colorato contesto in cui tutto viene a galla, in cui esprimersi liberamente, in cui sfidare chi ti ha ferito, battere chi si crede più forte di tutti.
Il discorso di genere è ovviamente molto presente, in ogni singola scena di ogni puntata, ma l'intelligenza della scrittura fa sì che le tematiche squisitamente LGBT diventino assolutamente universali: Pose, in altri termini, è una serie sulla fierezza di scegliere ogni giorno chi essere, una serie assolutamente per tutti, anche per chi non ha mai visto una drag queen, anche per chi si crede mille miglia lontano da "quel mondo lì". Perché è il nostro mondo, quello in cui è difficile essere donna (come Elektra, nella puntata 7 sull'intervento di riassegnazione sessuale), è difficile bere una cosa in un pub che se sei "diverso" ti caccia (non per colpa di etero omofobi, ma di gay ottusi), è difficile capire chi sei anche se hai il lavoro dei sogni e una famiglia che ti aspetta a casa (lo sa bene Stan / Peters).
Appassionante, variegata, credibile anche nelle sue iperboli, portatrice sana di quel senso dell'american dream che significa trovare dentro di sé ogni giorno la forza di rialzarsi e puntare in alto, la serie Pose punta anche sull'effetto nostalgia - a cui strizzano l'occhio altre serie targate Netflix, da Stranger Things a G.L.O.W., qui siamo nella seconda metà degli anni 80 - e vanta, soprattutto, l'abile regia di Janet Mock. Nera e trans come il suo un cast, di assoluto livello: spiccano non solo le grintose e carismatiche MJ Rodriguez, Dominique Jackson e Indya Moore, non solo Billy Porter e il già citato Evan Peters, ma anche l'ex Dawson dell'omonima Creek, quel James Van Der Beek dal volto rassicurante finalmente utilizzato per un ruolo detestabile. È il collega odioso e scorretto, il rampollo cocainomane, il manager arrogante al servizio di Trump. Un applauso fragoroso va, infine e innanzi tutto, ai costumi: regali, scintillanti, colorati, svolazzanti, assolutamente imperdibili di Lou Eyrich, vere bandiere portavoci di personalità, celebrazioni di corpi e menti che tutto vogliono tranne che sentirsi minoranze, capaci di conquistare al punto da far venir voglia di indossarli.