A casa tutti bene

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IL FALLIMENTO DELLA FAMIGLIA BORGHESE Valutazione 3 stelle su cinque

di ValterChiappa


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mercoledì 28 febbraio 2018

“Tutto bene?”. La formula della più convenzionale conversazione diventa un leit motiv nel nuovo film di Gabriele Muccino. Tutti continuamente a chiederlo, tutti prontamente a rispondere “Tutto bene, grazie”.
In “A casa tutti bene” il regista torna, dopo la parentesi americana, alle sue usuali tematiche spingendo alle estreme conseguenze il suo pessimismo sociologico. Non è la Muccino-generation ad essere sbagliata, ma l’albero di cui è frutto: la famiglia borghese.
In un’isola non meglio precisata ne racchiude tutte le possibili declinazioni. Su richiamo del vecchio patriarca (Ivano Marescotti), ristoratore arricchito, che celebra (malvolentieri) le nozze d’oro con la moglie succube (Stefania Sandrelli), accorrono figli, nipoti, ex mogli e parenti vari in una miscela che si preannuncia da subito esplosiva.
Vari spaccati familiari, tutti deprimenti. Carlo (Pierfrancesco Favino) si dibatte tra la nuova moglie (Carolina Crescentini), insicura e isterica, la ex (Valeria Solarino), inopportunamente invitata e le due figlie, una per matrimonio. Sara (Sabrina Impacciatore) cerca illusoriamente di tenere legato a sé il marito (Giampaolo Morelli), simpaticone e impenitentemente fedifrago. Beatrice (Claudia Gerini) combatte con la difficoltà di convivere con un uomo malato di Alzheimer (Massimo Ghini). Paolo (Stefano Accorsi) è l’artistoide giramondo, che fa invaghire la cugina Isabella (Elena Cucci), sognatrice relegata in una grigia vita di provincia con un marito assente. Riccardo (Gianmarco Tognazzi) è il figlio scapestrato, con un figlio in attesa e in cerca disperata di soldi.
Tutto dovrebbe durare il tempo di una cerimonia. Ma il mare grosso ferma i traghetti e costringe questa varia umanità ad una convivenza forzata. Parole di circostanza (“Tutto bene?”), qualche canzone per far finta di essere felici; ma l’ipocrisia ha durata breve. Rancori di ogni sorta si incrociano in tutte le possibili combinazioni, i modi affettati sono sostituiti da pianti, urla, scenate. Dopo il climax insostenibile torneranno così come sono venuti: soli e rassegnati alla loro triste condizione, perché tacere, non vedere, sopportare è sempre la soluzione più semplice.
Si dirà: il solito Muccino. Ma Muccino è questo: prendere o lasciare. I suoi film continuano ad essere come una rivista patinata e di fascia alta, ma comunque destinata a piacere a una fascia di pubblico più estesa possibile; o come un ristorante tradizionale che ambisce a riempire centinaia di coperti: tutto buono, ma nessuna specialità.
Ma non se ne possono discutere intanto i valori tecnici. In “A casa tutti bene” si apprezzano il montaggio serrato, la cura nelle inquadrature, l’orchestrazione dei personaggi. Solo qualche sbavatura di sceneggiatura, in un crescendo drammatico che talora procede a scatti troppo repentini. Funziona poi come un orologio la sua squadra di all stars, che ben asseconda con interpretazioni di mestiere il target del regista. I picchi arrivano comunque, forse inattesi, da un Gianmarco Tognazzi perfettamente nella parte e da Massimo Ghini, insolitamente tenero e toccante.
Si dirà ancora che Muccino non racconta nulla di nuovo. Fissato l’obiettivo sullo spicchio di società che conosce meglio, denuncia ancora una volta i falsi valori del benessere e delle ipocrite buone maniere su cui è stata costruita una generazione fallimentare: tutto noto e stranoto. Vero. Ma lo racconta bene. Spietatamente.
Forse qui si spiega la contraddizione di un regista che puntualmente realizza incassi da record e riceve contemporaneamente critiche spietate. Perché noi siamo come loro, i suoi personaggi. Ci riconosciamo fin troppo facilmente nelle sue storie, ma non sopportiamo che il re venga messo a nudo. Potremmo tollerare la metafora, non la cruda verità. Perché anche noi, come loro, i suoi vogliamo tornare a casa e dire a noi stessi convinti: “Tutto bene”.

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