lucio di loreto
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domenica 17 febbraio 2019
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la peggior tragedia per ogni genitore
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La California nell’esplosione del Grunge con Nirvana, Melvins e compagnia bella ma anche l’epoca della metanfetamina, la droga perfetta, evoluzione della coca alla millesima potenza contro la quale niente e nessuno può far nulla per limitarla: è questo lo scenario nel quale Felix Van Groeningen si cimenta alla regia per rappresentare una bellissima storia di amore/rimpianto/impotenza tra genitore e figlio. Nicolas Sheff, dato in custodia a David, è un bravo studente ricco di passioni e profondità d’animo, amante della scrittura e dell’arte, del teatro e della pallanuoto. La separazione dalla madre, distante un ora di aereo San Francisco-Los Angeles, ha fatto si che il ragazzo e suo padre sviluppassero un rapporto intimo, profondo e confidenziale, fatto di amicizia e affiatamento che va da rivelazioni personali, stessi hobby e interessi multipli a un confronto schietto e continuo: i due si rilassano cavalcando le onde e “brindano” ai successi scolastici e al futuro college con una canna comune.
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La California nell’esplosione del Grunge con Nirvana, Melvins e compagnia bella ma anche l’epoca della metanfetamina, la droga perfetta, evoluzione della coca alla millesima potenza contro la quale niente e nessuno può far nulla per limitarla: è questo lo scenario nel quale Felix Van Groeningen si cimenta alla regia per rappresentare una bellissima storia di amore/rimpianto/impotenza tra genitore e figlio. Nicolas Sheff, dato in custodia a David, è un bravo studente ricco di passioni e profondità d’animo, amante della scrittura e dell’arte, del teatro e della pallanuoto. La separazione dalla madre, distante un ora di aereo San Francisco-Los Angeles, ha fatto si che il ragazzo e suo padre sviluppassero un rapporto intimo, profondo e confidenziale, fatto di amicizia e affiatamento che va da rivelazioni personali, stessi hobby e interessi multipli a un confronto schietto e continuo: i due si rilassano cavalcando le onde e “brindano” ai successi scolastici e al futuro college con una canna comune. Quel che il padre non sa è che l'erede da quando ha 12 anni ha iniziato a sperimentare ogni tipo di droga arrivando in età maggiorenne a passare dall’essere un adolescente che ne fa uso sporadico a un tossicodipendente assoluto, a causa anche della crystal meth. Steve Carrell, dimostrando ormai di essere un attore camaleontico e polivalente, interpreta magnificamente David Sheff, noto giornalista distrutto dai problemi di suo figlio Nic (Timotheè Chalamet) e dalla tragedia a cui va incontro tutta la sua famiglia allargata (nuova moglie e due bimbi piccoli). La regia, ispirata dai libri di memorie dei due protagonisti, è semplice e a parte i continui flash back e viaggi temporali, lascia a due assi del cinema il compito di farci vivere il dramma: missione riuscita!! L’enfant prodige franco americano si ripete dopo “chiamami col tuo nome” in un altro ruolo “diverso” e tormentato. E’ soprattutto l’impossibilità di aiutare il giovane nonostante un amore estremo, la tematica principale e lo scopo della pellicola!! Significativi tre step che ci fanno riflettere: David stremato che si confessa in principio a un giornalista adoperandosi per salvare il suo “beautiful boy”, il saluto all’aeroporto anni prima durante un week end lontani con la frase “non ho parole per rappresentare il mio amore per te” e il crudo, drammatico e violento rifiuto ad aiutarlo in uno dei tanti frame che il film ci propone, quando in macchina c’è una ragazza in overdose per l’ennesima notte brava. E’ angosciante e struggente vedere Sheff senior, una volta attaccato il telefono, piangere la sua impotenza, sofferenza e frustrazione per la cosa più bella e importante della sua vita ormai perduta!! D'altronde il terrore più grande di ognuno è vedere il proprio figlio soffrire senza poter fare nulla per aiutarlo. La pellicola oltre a ribadire questo ci fa capire che nessun genitore può conoscere fino in fondo i propri ragazzi; alcun tipo di educazione, di comportamenti e di regole possono certificare il successo di una vita regolare e serena fino alla fine. Gli enormi step che il film propone, tra miglioramenti, ricadute, ricoveri e ogni tipo di assistenza (soldi spesi, ricerche personali, passeggiate in metropoli a conoscere altri tossici) servono per farci entrare in simbiosi con le paure e le angosce di David, trasportandoci in modo trascendentale e senza via di uscita nella sua mente ormai smarrita. Il finale didascalico serve a comprendere il perché di una regia così sobria, delle enormi tappe del dramma e di una sceneggiatura affidata completamente all’estro degli interpreti, lasciandoci però a riflettere sui drammatici numeri mortali che le droghe ancora oggi provocano in tutti gli Stati Uniti.
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dorian
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domenica 30 giugno 2019
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beautiful boy: lasciare il segno attraverso una storia universale. recensione di daria d. sul corriere dello spettacolo
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Una storia vera di grande impatto emotivo e di bravura cinematografica, raccontata in un film che lascia il segno, che coinvolge totalmente lo spettatore nel dramma universale della dipendenza dalla droga, così da farlo penetrare, come un ago profondo, nel cuore e nella mente di un genitore disperato, di un figlio in cerca di aiuto. Il film, diretto dal belga Felix Van Groeningen il cui Alabama Monroe - Una storia d'amore (The Broken Circle Breakdown) (2012) è stato candidato nel 2014 come miglior film straniero, è basato sui libri Beautiful Boy: A Father's Journey Through His Son's Addiction di David Sheff e Tweak: Growing Up on Methamphetamine di suo figlio Nic Sheff, e racconta di un padre, Steve Carell, che cerca di aiutare il figlio, Timothée Chalamet ad uscire dal tunnel della tossicodipendenza e lo fa senza cadere in cliché o inutili piagnistei, dove le persone sono vere e i loro dilemmi, tormenti, sofferenze, tentativi di essere migliori, di ritornare a vivere una vita normale, sono pelle, carne, sangue, lacrime.
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Una storia vera di grande impatto emotivo e di bravura cinematografica, raccontata in un film che lascia il segno, che coinvolge totalmente lo spettatore nel dramma universale della dipendenza dalla droga, così da farlo penetrare, come un ago profondo, nel cuore e nella mente di un genitore disperato, di un figlio in cerca di aiuto. Il film, diretto dal belga Felix Van Groeningen il cui Alabama Monroe - Una storia d'amore (The Broken Circle Breakdown) (2012) è stato candidato nel 2014 come miglior film straniero, è basato sui libri Beautiful Boy: A Father's Journey Through His Son's Addiction di David Sheff e Tweak: Growing Up on Methamphetamine di suo figlio Nic Sheff, e racconta di un padre, Steve Carell, che cerca di aiutare il figlio, Timothée Chalamet ad uscire dal tunnel della tossicodipendenza e lo fa senza cadere in cliché o inutili piagnistei, dove le persone sono vere e i loro dilemmi, tormenti, sofferenze, tentativi di essere migliori, di ritornare a vivere una vita normale, sono pelle, carne, sangue, lacrime. Il sorriso intriso di melanconia del ragazzo ci entra dentro come se Nic fosse figlio di ognuno di noi e ci chiedesse “aiutami” e noi ci proviamo ma poi lui ci ricasca nella dipendenza da meth, come se questo beautiful (and damned) boy convivesse con un mostro che ogni tanto esce fuori per storpiargli il sorriso, per farlo piangere, delirare, sentire solo e abbandonato. Eppure, il sorriso e le lacrime di Timothée Chalamet sono quanto di più bello e autentico abbiamo visto sullo schermo da un po' di tempo a questa parte. Nonostante il tema trattato, l’assonanza con cui vibrano tutte le voci del film, l’interpretazione che lascia senza fiato del giovane Chalamet, la splendida colonna sonora, sembra un film quasi snobbato dalla critica, dal pubblico e dall’Academy of Motion Pictures, (Chalamet non è stato nemmeno nominato come migliore attore preferendone un altro di cui evito di parlare, e allora mi domando se dobbiamo continuare a credere nella validità e veridicità dell’Oscar...) forse pensando che sia “l’ennesimo film sulla droga” o “chissenfrega di un bel ragazzo di buona famiglia che si fa” oppure “Steve Carell in un ruolo drammatico? Ma chi ci crede!”. Posso rispondere alla prima assurdità dicendo che le nuove droghe in commercio stanno falciando vite umane come mosche perché nemmeno la droga è più quella di un tempo, e i ragazzi muoiono e noi non ce ne accorgiamo neppure così concentrati sul nostro egoselfie, su quanto sia figa la tecnologia che tutto risolve e niente risolve. Quindi dobbiamo, oggi più che mai, raccontare storie come questa. La seconda assurdità è che Nic è un ragazzo fragile e sensibile, che vive come tanti altri ragazzi a San Francisco, figlio di un giornalista, genitori separati, scrive, disegna, va al college, cerca di vivere una vita normale ma non ce la fa, per via di quel mostro infido che gli rode ogni volontà. Perché sono soprattutto i ragazzi come lui che diventano preda dei mostri. La terza è che Steve Carell è un attore che, come Robin Williams, è capace di passare dalla commedia al dramma rendendo credibile tutto quello che interpreta e qui è superbo nella parte di un padre che ama suo figlio “more than anything else”, e dei suoi disperati tentativi di aiutarlo. Nonostante i soliti snob, Beautiful Boy è un film di cui ricorderemo scene come quella in cui Nic guida con il vento tra i capelli per le strade della California, o quando si ferma a piangere e a parlare con chi non può ascoltarlo, aiutarlo, quando si accascia sul pavimento di un gabinetto di un bar dopo un overdose, quando corre come un ragazzo normale sullo skate board o quando gioca con il fratellino sulla sabbia e in quell’ultimo abbraccio con il padre. Un film che merita di essere visto non una ma più volte, una lezione di cinema, per attori, registi e sceneggiatori e che, anche se non ha vinto l’Oscar, è di sicuro qualcosa che ci ha toccato nel profondo e questo è quello che più conta. Daria D. Corriere dello Spettacolo
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felicity
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giovedì 23 gennaio 2020
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eccessivamente pulito e compiaciuto
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Nel suo giocare a carte scoperte con il dolore lancinante di un padre alle prese con il figlio tossicodipendente e, viceversa, con il dolore di un figlio che sembra incapace di uscire dalla violenta spirale in cui è sprofondato, Beautiful Boy è tutto qui.
Il regista ha la mano troppo pesante per maneggiare un materiale delicato come questo e finisce inevitabilmente per mettere in scena la sofferenza nel modo più banale, superficiale e impertinente possibile. Il dolore qui è sempre al centro, mai trattenuto e controllato con rispetto e invece costantemente urlato, esibito, sbandierato come fosse il più banale dei sentimenti, gettato in pasto ad uno spettatore che si presume passivo e pronto a commuoversi in sicurezza, senza mai farsi davvero male.
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Nel suo giocare a carte scoperte con il dolore lancinante di un padre alle prese con il figlio tossicodipendente e, viceversa, con il dolore di un figlio che sembra incapace di uscire dalla violenta spirale in cui è sprofondato, Beautiful Boy è tutto qui.
Il regista ha la mano troppo pesante per maneggiare un materiale delicato come questo e finisce inevitabilmente per mettere in scena la sofferenza nel modo più banale, superficiale e impertinente possibile. Il dolore qui è sempre al centro, mai trattenuto e controllato con rispetto e invece costantemente urlato, esibito, sbandierato come fosse il più banale dei sentimenti, gettato in pasto ad uno spettatore che si presume passivo e pronto a commuoversi in sicurezza, senza mai farsi davvero male.
E ancora, la superficie in cui resta incastrato il regista è una superficie fatta di immagini pulitissime e formalmente curate, che nulla hanno a che vedere con il dramma oggetto del racconto. Insomma, una sorta di filtro bellezza applicato arbitrariamente per alleggerire ed edulcorare il dolore, quasi a volerlo sminuire per renderlo quantomeno accettabile.
C’è una mancanza di risolutezza ed empatia, al netto di abbracci stucchevoli, nell’analizzare, anche solo nel passare in rassegna i trascorsi familiari: non si pretende l’individuazione di un nesso causa-effetto, ma qui è tutto talmente erratico, suggerito, solo sfiorato.
La carica drammatica viene spesso concentrata attraverso l’uso della colonna sonora: nei momenti più intensi ed emotivamente significativi, la musica investe con prepotenza la scena fino a saturare l’immagine e sostituire le parole. Sono proprio le canzoni che, in alcuni casi, completano i dialoghi e dicono ciò che ancora non è stato detto o che non si ha il coraggio di dire.
Incapace di valorizzare i silenzi, per nulla abile nel dare il giusto peso alle parole ed eccessivamente pulito e compiaciuto nella costruzione delle sue immagini, al regista non resta altro che sovraccaricare i volti tormentati dei suoi attori, facendo emergere lo strazio che divora i personaggi.
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