Taxi Teheran |
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Un film di Jafar Panahi.
Con Jafar Panahi
Titolo originale Taksojuht.
Drammatico,
Ratings: Kids+13,
durata 82 min.
- Iran 2015.
- Cinema
uscita giovedì 27 agosto 2015.
MYMONETRO
Taxi Teheran
valutazione media:
3,61
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Taxi Teherandi catcarloFeedback: 13499 | altri commenti e recensioni di catcarlo |
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mercoledì 9 settembre 2015 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Continuando la battaglia per dimostrare che non basta una sentenza per fermare la sua voglia e il suo bisogno di creare con la macchina da presa – attività che gli è stata vietata per vent’anni – Panahi va oltre il cinema da camera dei suoi ultimi lavori e alza la sfida scendendo in strada nei panni di un tassista che affronta il convulso traffico di Teheran (di preferenza su arterie di grande scorrimento o in quartieri residenziali) intrecciando storie di varia umanità: ne esce un ritratto della società iraniana che va oltre le difficoltà realizzative consentendo allo spettatore di entrare in contatto con un mondo conosciuto poco e per sentito dire. Scartata l’idea originale di una sorta di ‘specchio segreto’ per non mettere a repentaglio la sicurezza dei clienti, il regista ha scelto di farli reinterpretare da attori non professionisti e rigorosamente anonimi – il film non ha titoli né in testa né in coda se si eccettua l’elenco delle voci italiane – alternando abilmente i registri di dramma e commedia così da far scorrere senza momenti di stanchezza una storia ambientata tutta all’interno di un’automobile e ripresa con una piccola telecamera piazzata sul cruscotto in modo da non essere visibile da fuori. E’ inevitabile che si parli di cinema, della censura e delle storture della giustizia iraniana, come accade negli episodi dell’avvocatessa e del vicino di casa che è stato – come Panahi – in prigione, ma il regista riesce ad alleggerire l’atmosfera attorno all’argomento utilizzando la figura del venditore di film proibiti in Iran (‘sono tutti belli’ dice l’autore a un giovane fan) e, soprattutto, la lingua tagliente della simpaticissima nipotina alla quale è affidato l’elenco delle regole della censura insegnatele a scuola. La ragazzina, difatti, segue un corso di cinematografia e realizza con la macchina fotografica una sorta di film nel film tempestando di domande lo zio sulla settima arte tra un cliente e l’altro: Panahi, con la sua faccia tonda che ricorda un po’ Joe Pesci, riserva a lei risposte misurate che si riflettono nello sguardo bonario per i ‘clienti’ senza scomporsi mai troppo anche negli episodi più tragicomici, come quello del ferito che, pensando di morire, si mette a dettare il proprio testamento ad alta voce oppure quuando due sorelle e il loro preziosissimo pesce rosso divengono vittime dell’inesperienza dell’improvvisato tassista. Il brusco finale riporta lo spettatore alla realtà e al dubbio – comuni ladri o poliziotti alle calcagna? – ma non può far dimenticare che, tra gli altri suoi pregi, questo è in gran parte un film di donne tanto che ai personaggi femminili, a partire dall’insegnante nella prima scena che discute di pena di morte, sono riservate le battute più impegnative e ricche di saggezza nei confronti della vita in un Paese che le discrimina pesantemente. Così, se l’idea e il soggetto non possono certo dirsi nuovi, la difficoltà di realizzazione a cui si combina comunque un tono lieve che evita con cura di piangersi addosso fanno di questo film un’opera non solo significativa, ma anche assai godibile, dotata com’è di una scansione interiore alla quale è piacevole lasciarsi andare: forse il risultato complessivo non è tale da giustificare appieno l’Orso d’oro di Berlino anche al dilà della scelta ‘politica’, però è anche vero che questo è un lavoro politico sebbene realizzato in modo che non se ne senta il peso.
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