camillo triolo
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domenica 5 aprile 2009
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la vita e la morte in una splendida palermo
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Il film è dedicato a due grandi registi Bergman ed Antonioni morti nello stesso giorno, il trenta luglio del 2007, mentre il film era in lavorazione, un fatto del tutto casuale al quale si vuole dare un significato, riportandolo all'inizio dei titoli di coda.
Penso che se Sciascia fosse morto nello stesso giorno e non il 20 novembre del 1989 sarebbe figurato anche lui nella dedica.
Questa premessa per dire che il film di Wim Wenders attinge a piene mani a certe tematiche ed atmosfere che i sopracitati autori, ognuno con la propria peculiarità, hanno saputo, con ben altra qualità, rendere ed approfondire nelle loro opere; ma "a piene mani" non implica, purtroppo, "piena anima", e ne vien fuori una sorta di copia incolla pasticciato e confuso.
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Il film è dedicato a due grandi registi Bergman ed Antonioni morti nello stesso giorno, il trenta luglio del 2007, mentre il film era in lavorazione, un fatto del tutto casuale al quale si vuole dare un significato, riportandolo all'inizio dei titoli di coda.
Penso che se Sciascia fosse morto nello stesso giorno e non il 20 novembre del 1989 sarebbe figurato anche lui nella dedica.
Questa premessa per dire che il film di Wim Wenders attinge a piene mani a certe tematiche ed atmosfere che i sopracitati autori, ognuno con la propria peculiarità, hanno saputo, con ben altra qualità, rendere ed approfondire nelle loro opere; ma "a piene mani" non implica, purtroppo, "piena anima", e ne vien fuori una sorta di copia incolla pasticciato e confuso.
Certamente Palermo con i suoi chiaroscuri ed i suoi contrasti si presta ad evocazioni misteriche e conturbanti, ed in tal senso non può negarsi che l'ottima fotografia riesca a coglierle ed a renderle, ma il film si esaurisce tutto in questo ed in alcuni ottimi brani musicali.
Per il resto la storia ed i personaggi restano lontani e superficiali dalla problematica esistenziale della vita e della morte, tema che a Wim Wenders sfugge dalle mani col risultato che il film si trascina stancamente nella vana ricerca d'un colpo d'ala che non riesce mai a trovare.
Forse era una fatica impari per Wenders che sommerso, frastornato ed incantato dalla magia d’una Palermo misteriosa e splendida non riesce ad andare oltre la fotografia di incantevoli angoli pieni di storia, pretendendo che la quattrocentesca opera di autore ignoto, “IL TRIONFO DELLA MORTE” riesca a riempire di significato la confusa traballante ed incerta storia del film con il solo risultato che lo sfondo prevale su di essa e, possiamo dire, menomale, almeno la visione del film potrà spingere lo spettatore ad una visita più approfondita di questa città od a rivedere qualche film di Bergman come il “settimo sigillo” ed “il posto delle fragole”, e mi auguro anche alla lettura de “il cavaliere e la morte “ di Sciascia.
In sintesi buone intenzioni molte delusioni. Vedetelo solo per la fotografia e per Palermo.
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paolo landi
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domenica 30 novembre 2008
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wenders e la chiacchiera oscena (vers. definitiva)
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Sicuramente vi sono critici e intellettuali, cultori e spettatori di vario genere che hanno compreso il film. Al di là della superficie mondana dell'accoglienza pubblica, il film rivela una profondità, una tensione espressionistica, una sapienza psicanalitica ed un gusto per l'ironia - che si articola con una sofferta poetica dell'angoscia - le cui miscele rinnovano l'immagine di Wenders in una forma che in seguito potrà essere maggiormente riconosciuta. D'altra parte, le idee messe in gioco, e la loro connessione con immagini attraversate da una grande fantasia insieme espressionistica e avveniristica, delineano una composizione provvista di un pathos autentico, e insieme di una forma di disincanto, la quale non è disgiunta da un costante effetto di meraviglia.
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Sicuramente vi sono critici e intellettuali, cultori e spettatori di vario genere che hanno compreso il film. Al di là della superficie mondana dell'accoglienza pubblica, il film rivela una profondità, una tensione espressionistica, una sapienza psicanalitica ed un gusto per l'ironia - che si articola con una sofferta poetica dell'angoscia - le cui miscele rinnovano l'immagine di Wenders in una forma che in seguito potrà essere maggiormente riconosciuta. D'altra parte, le idee messe in gioco, e la loro connessione con immagini attraversate da una grande fantasia insieme espressionistica e avveniristica, delineano una composizione provvista di un pathos autentico, e insieme di una forma di disincanto, la quale non è disgiunta da un costante effetto di meraviglia. La complessità letteraria del testo, d'altra parte, avvolge con un gergo disinvolto concetti speculativi che in Wenders hanno delle radici lontane, e culminano in una allusione al nesso tra la morte e l'immagine - e alla cattura della prima da parte di quest'ultima -, che invece di inserire un registro meramente didascalico, stabilisce un formidabile gioco con l'estro del contenuto visivo, imprimendo ad esso un fascino rinnovato. E ancora, si dovrebbe considerare che gli aspetti esplicativi, sia nel cinema che nelle altre arti, fruiscono di esempi sovrani, e si dovrebbe tenere presente che la componente speculativa, di per sé, non è maggiormente didascalica del linguaggio psicologico medio, al quale siamo abituati nelle sceneggiature di un più facile accesso. Se poi le questioni speculative vengono giocate con il registro dell'ironia, è soltanto una mancanza di quest'ultima che può avere indotto a riconoscere nelle battute del dialogo le sembianze di un racconto d'appendice. Inoltre, si dovrebbe tenere conto del fatto che il film, risalendo alla problematica della morte - coniugata con quella di un rinnovamento radicale della propria esistenza, e con quella del nesso tra l'immaginario e la tensione progettuale -, nel generare una transizione graduale ed altamente originale fra la dimensione del sogno, la componente della veglia, l'irruzione del delirio e l'emergere della meditazione esistenziale e del gioco con il proprio immaginario e con la propria forza creativa, oltrepassa largamente ogni dettato banale delle correnti pratiche terapeutiche e variamente psicologiche. Ma su tutto, dovrebbe essere chiaro come il tema fondamentale sia quello del nesso tra la morte e l'immagine; infatti, da un lato la morte si annuncia in un modo frammentato e sempre più consistente, passando dalla fase brivida e aforistica di una prima serie di esplosioni sconvolte, a quella di una storia che si delinea in un modo compiuto, sino all'implacabile dibattito del finale, e dall'altro Wenders salda ancora una volta il difficile conto della sua poetica di fondo, avvolgendo l'immagine entro una storia che cresce, e la cui coerenza finale si impone sull'orrore del fantasmi interiori, imprimendo ad essi il sigillo di un senso conclusivo. Ed un aspetto di questo messaggio è dato dal fatto per il quale le immagini, nella forma del loro delirio pubblico, e nella oscenità della loro deriva mediatica, non possono permettersi di sommergere quel significato della morte, che solo può renderci autentici, alla fine della nostra storia (e al di fuori di ogni chiacchiera oscena, che è essa stessa immagine dissociata, e funge da schermo che chiude una difficile comprensione). ****/*****
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bande à part
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sabato 7 febbraio 2009
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la luce ritrovata nel buio sole di palermo
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Wim Wenders torna sugli schermi con una rinnovata vitalità espressiva che, ancora una volta, si srotola nella forma narrativa del viaggio. È stato un piacere, quindi, ritrovarla in Palermo Shooting sotto le vesti, soprattutto, di solitario viaggio interiore così presente in molti film dell’autore, da Alice nelle città (Alice in den Städten, 1973) fino a Falso movimento (Falsche Bewegung, 1975), Paris Texas (Id., 1984) e al più recente Lisbon Story (Id., 1995). Un viaggio che, insieme, è anche una ricerca ossessiva sull’immagine e sul cinema, sul valore e sulla valenza delle immagini cinematografiche nella società contemporanea. Stavolta sembra che il viaggio, fin dal suo incipit, sia segnato in maniera profonda dalla figura della morte.
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Wim Wenders torna sugli schermi con una rinnovata vitalità espressiva che, ancora una volta, si srotola nella forma narrativa del viaggio. È stato un piacere, quindi, ritrovarla in Palermo Shooting sotto le vesti, soprattutto, di solitario viaggio interiore così presente in molti film dell’autore, da Alice nelle città (Alice in den Städten, 1973) fino a Falso movimento (Falsche Bewegung, 1975), Paris Texas (Id., 1984) e al più recente Lisbon Story (Id., 1995). Un viaggio che, insieme, è anche una ricerca ossessiva sull’immagine e sul cinema, sul valore e sulla valenza delle immagini cinematografiche nella società contemporanea. Stavolta sembra che il viaggio, fin dal suo incipit, sia segnato in maniera profonda dalla figura della morte. Già nel ‘paratesto’ del film, prima che cominci la storia vera e propria, incontriamo alcune immagini che hanno la valenza di vere e proprie epigrafi: la carrellata iniziale sulle mummie anticipa il successivo incontro con la Morte e, inoltre, sembra una citazione quasi letterale delle sequenze iniziali di Nosferatu, principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979) di Werner Herzog. Se in questo film le carrellate iniziali instauravano un senso di orrore nello spettatore e, in qualche modo, lo preparavano all’incontro ‘perturbante’ col vampiro, nell’ultima opera di Wenders esse prefigurano l’incontro con un altro essere ‘vampiresco’, una Morte che ha le sembianze di Dennis Hopper truccato in modo tale quasi da assomigliare al tenebroso Klaus Kinski di Nosferatu.
Il protagonista, il famoso fotografo Campino, inizia quasi per caso il suo viaggio da una cupa Germania fino agli abbaglianti (ma anche sinuosamente oscuri) colori siciliani per avviare una ricerca – come di consueto in Wenders – sull’immagine e sul cinema, dove si scontrerà addirittura con la Morte. Uno scontro che sembra una rivisitazione postmoderna della partita a scacchi de Il settimo sigillo (Det Sjunde inseglet, 1956) di Ingmar Bergman. Non si dimentichi, del resto, che anche quest’ultimo aveva fatto agire e parlare la morte entro la ‘danza macabra’ di sapore medievale che è il suo film, e l’aveva rivestita scenicamente di una tuta nera.
Nel buio sole di Palermo, nel peregrinare attraverso i suoi vicoli (cadenzato, fra le altre, anche da una canzone di Fabrizio De André, Quello che non ho, ‘citato’ – con un gusto alla Truffaut – anche nella presenza dei suoi dischi che il protagonista trova a casa della restauratrice), la ricerca sull’immagine e sul cinema può quindi continuare: la Morte lascerà libero il fotografo di proseguire la sua ricerca. Forse, alla fine, la vera immagine che si doveva ritrovare era quella delle proprie origini, la casa del passato, il luogo dell’infanzia: quella della madre della restauratrice le cui stanze, dopo tanto tempo, non possono essere attraversate se non in preda al pianto. E recuperare - quasi immedesimandosi nel passato della ragazza attraverso una “corrispondenza d’amorosi sensi” - quelle immagini, quella perduta capacità di guardare alla bellezza del paesaggio. Ecco che il postmoderno Antonius Blok, scampato alla Morte, ritrova la speranza e la bellezza nella luce magica e indefinita di un paesaggio siciliano; una luce piena di buio in cui un altro sguardo, finalmente, lo sceglie e lo porta in salvo.
Bande à part
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fedeleto
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domenica 22 gennaio 2012
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wenders shooting
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Un fotografo ,alla ricerca di immagini nuove e assillato da incubi alquanto inspiegabili,decide di andare a Palermo per fare un servizio e per prendersi una piccola vacanza.Credera' di essere inseguito da un arciere incappuciato e l'incontro con una donna che dipinge un caso analogo lo portera' su una strada bizarra,e forse capira' che il vero senso della vita e' vivere.Wim Wenders dirige un piccola capolavoro in cui esprime tutt ala sua poetica dove appunto il protagonista e' un fotografo(ladro di immagini?) che documenta e immortala i momenti in cui si vive senza quindi vivere (un chiaro esempio di questa tematica cara al regista e' presente gia in uno dei suoi primi film(Alice nelle citta'),e l'immagine dell'arciere che lo perseguita e' da antologia (la morte) le frecce che schiocca (chiari segni di ferita e dunque di risveglio)sono segnali che feriscono l'uomo e quindi lo portano a soffrire per capire,ma la ragazza che lavora al quadro (una splendida giovanna mezzogiorno) e' un chiaro esempio della possibilita' di vivere ,una donna ferita che ha avuto uno scontro con la morte e che crede piu' a quello che non vede che a quello che vede.
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Un fotografo ,alla ricerca di immagini nuove e assillato da incubi alquanto inspiegabili,decide di andare a Palermo per fare un servizio e per prendersi una piccola vacanza.Credera' di essere inseguito da un arciere incappuciato e l'incontro con una donna che dipinge un caso analogo lo portera' su una strada bizarra,e forse capira' che il vero senso della vita e' vivere.Wim Wenders dirige un piccola capolavoro in cui esprime tutt ala sua poetica dove appunto il protagonista e' un fotografo(ladro di immagini?) che documenta e immortala i momenti in cui si vive senza quindi vivere (un chiaro esempio di questa tematica cara al regista e' presente gia in uno dei suoi primi film(Alice nelle citta'),e l'immagine dell'arciere che lo perseguita e' da antologia (la morte) le frecce che schiocca (chiari segni di ferita e dunque di risveglio)sono segnali che feriscono l'uomo e quindi lo portano a soffrire per capire,ma la ragazza che lavora al quadro (una splendida giovanna mezzogiorno) e' un chiaro esempio della possibilita' di vivere ,una donna ferita che ha avuto uno scontro con la morte e che crede piu' a quello che non vede che a quello che vede.Wenders ancora una volta stupisce e affascina ,ma continua con l'indagine dell'immagine per definire il punto l'immagine pure e l'immagine digitale sono nettamente diverse poiche' quest'ultima si puo' cambiare e modificare.Un film dove non solo si capisce il senso della vita ma anche quello della morte e della rinascita ,Dennis Hopper nella parte della morte e' magistrale ma la migliore sembra la Mezzogiorno ,poco convincente Campino.Da antologia la scena onirica della discesa-superficie che trova salvezza in un palo della luce.Affascinante e surreale,peccato che come sempre i capolavori non vengano mai capiti al momento giusto e come sempre bisognera' aspettare parecchio prima che la critica si accorga dell'errore imperdonabile di liquidare una pellicola di questo tipo che merita un oscar.Presentato a Cannes ,fino ad oggi rimane forse uno dei piu' bei film di Wenders che immortala Palermo e le sue atmosfere.
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paolo landi
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domenica 30 novembre 2008
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wim, l'idea della morte e la chiacchiera oscena
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Sicuramente vi saranno critici e intellettuali che hanno compreso il film. Al di là della superficie mondana dell'accoglienza pubblica, il film rivela una profondità, una tensione espressionistica, una sapienza psicanalitica ed un gusto per l'ironia - che si articola con una sofferta poetica dell'angoscia - le cui miscele rinnovano l'immagine di Wenders in una forma che in seguito potrà essere maggiormente riconosciuta. D'altra parte, le idee messe in gioco, e la loro connessione con immagini attraversate da una grande fantasia insieme espressionistica e avveniristica,delineano una composizione provvista di un pathos autentico,e insieme di una forma di disincanto la quale non è disgiunta da un costante effetto di meraviglia.
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Sicuramente vi saranno critici e intellettuali che hanno compreso il film. Al di là della superficie mondana dell'accoglienza pubblica, il film rivela una profondità, una tensione espressionistica, una sapienza psicanalitica ed un gusto per l'ironia - che si articola con una sofferta poetica dell'angoscia - le cui miscele rinnovano l'immagine di Wenders in una forma che in seguito potrà essere maggiormente riconosciuta. D'altra parte, le idee messe in gioco, e la loro connessione con immagini attraversate da una grande fantasia insieme espressionistica e avveniristica,delineano una composizione provvista di un pathos autentico,e insieme di una forma di disincanto la quale non è disgiunta da un costante effetto di meraviglia. La complessità letteraria del testo, d'altra parte, avvolge con un gergo disinvolto concetti speculativi che in Wenders hanno delle radici lontane, e culminano in una allusione al nesso tra la morte e l'immagine, e la cattura della prima da parte di quest'ultima,che invece di inserire un registro meramente didascalico,stabilisce un formidabile gioco con l'estro del contenuto visivo, imprimendo ad esso un fascino rinnovato.E ancora, si dovrebbe considerare che gli aspetti esplicativi, sia nel cinema che nelle altre arti, fruiscono di esempi sovrani - si ricordi a tale proposito soltanto I. Bergman -, e si dovrebbe tenere presente che la componente speculativa, di per sé, non è maggiormente didascalica del linguaggio psicologico medio, al quale siamo abituati nelle sceneggiature di un più facile accesso. Se poi le questioni speculative vengono giocate con il registro dell'ironia, è soltanto una mancanza di quest'ultima che può avere indotto a riconoscere nelle battute del dialogo le sembianze di un racconto d'appendice. Inoltre, si dovrebbe tenere conto del fatto che il film, risalendo alla problematica della morte - coniugata con quella di un rinnovamento radicale della propria esistenza, e con quella del nesso tra l'immaginario e la tensione progettuale -, nel generare una transizione graduale ed altamente originale fra la dimensione del sogno, la componente della veglia, l'irruzione del delirio e l'emergere della meditazione esistenziale e del gioco con il proprio immaginario e con la propria forza crativa, oltrepassa largamente ogni dettato banale delle correnti pratiche terapeutiche e variamente psicologiche. Ma su tutto, dovrebbe essere chiaro come il tema fondamentale sia quello del rapporto tra la morte e l'immagine; infatti, da un lato la morte si annuncia in un modo frammentato e sempre più consistente, passando dalla fase di brivida e aforistica di una prima serie di esplosioni sconvolte, a quella di una storia che si delinea in un modo compiuto, sino all'implacabile dibattito del finale, e dall'altro Wenders salda ancora una volta il difficile conto della sua poetica di fondo, avvolgendo l'immagine entro una storia che cresce, e la cui coerenza finale si impone sull'orrore del fantasmi interiori, imprimendo ad essi il sigillo di un senso conclusivo. Ed un aspetto di questo messaggio è dato dal fatto per il quale le immagini, nella forma del loro delirio pubblico, e nella oscenità della loro deriva mediatica,non possono permettersi di sommergere quel significato della morte, che solo può renderci autentici, alla fine della nostra storia (e al di fuori di ogni chiacchiera oscena, che è essa stessa immagine dissociata e schermo che chiude una difficile comprensione). Precisazione: ****/*****
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gianni sarro
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venerdì 28 novembre 2008
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wenders ha smarrito il tocco magico
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Eros e thanatos, morte e vita, immagine e fantasia, tutto ruota intorno alla duplicità nell’ultimo film di Wim Wenders. A partire dal titolo, il termine shooting indica sia sparare che scattare (una fotografia). La duplicità prosegue con le città dove la pellicola è ambientata (Dusseldorf e Palermo, scelta che produce subito un altro dualismo: quello architettonico tra la post moderna città tedesca e il barocco carico di storia di Palermo). Si giunge quindi alla duplicità centrale che caratterizza l’opera, quella tra la morte (apparente, percepita, incontrata) e l’amore (perso e ritrovato). Wenders non tradisce la sua visione della vita caratterizzata da un pessimismo di fondo, e nella quale giocano un ruolo principe l’apparenza e una distorta percezione del reale.
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Eros e thanatos, morte e vita, immagine e fantasia, tutto ruota intorno alla duplicità nell’ultimo film di Wim Wenders. A partire dal titolo, il termine shooting indica sia sparare che scattare (una fotografia). La duplicità prosegue con le città dove la pellicola è ambientata (Dusseldorf e Palermo, scelta che produce subito un altro dualismo: quello architettonico tra la post moderna città tedesca e il barocco carico di storia di Palermo). Si giunge quindi alla duplicità centrale che caratterizza l’opera, quella tra la morte (apparente, percepita, incontrata) e l’amore (perso e ritrovato). Wenders non tradisce la sua visione della vita caratterizzata da un pessimismo di fondo, e nella quale giocano un ruolo principe l’apparenza e una distorta percezione del reale. L’influenza di Bergman e Antonioni (che si trasforma in omaggio sui titoli di coda, dove viene ricordata la morte di entrambi i registi avvenuta nello stesso giorno dell’estate del 2007) è palese e raggiunge l’apice quando il protagonista ha una lunga conversazione con la Morte, come già il Cavaliere bergmaniano de Il settimo sigillo. Una sequenza che lascia perplessi, per la sua durata e per il suo scarso appeal. È il passaggo fondamentale del film, dove Wenders spiega il senso del film, ma risulta disordinato; certo si evince che l’uomo ha sempre una seconda ( il “2” ritorna inesorabile) possibilità nella sua vita, però manca quella magia a cui il cineasta tedesco ci ha abituato nei suoi capolavori (da Alice nella città, a Nick’s Movie, a Il cielo sopra Berlino). Palermo Shooting è anche un film sulla fotografia, arte che appassiona da sempre Wenders e nella quale eccelle. Il protagonista, Finn, è appunto un fotografo (il sorprendente Campino, musicista tedesco con l’hobby della recitazione) sensuale e anfetaminico, attento a cogliere e a seguire i segni che il destino gli mette lungo la strada. Delude invece Giovanna Mezzogiorno, costretta ad una recitazione monocorde, senza sfumature, ingessata com’è da un personaggio che si limita a fare da sparring partner al protagonista. Nell’insieme il film di Wenders non convince del tutto. Tanti e buoni gli ingredienti usati, ma non la mescola. Un’opera di Wenders fornisce sempre materia di riflessione, ma questa volta la bacchetta magica capace di far scoccare la scintilla è rimasta nel cassetto. Né serve a risollevare le sorti del film l’eccellente scelta di fotografare Palermo rinunciando all’effetto cartolina, per proporla, viceversa, in chiaroscuro; mai con luce piena, con il cielo spesso venato di nubi bianche, che nascondono parzialmente il sole, con le strade umide. Una scelta indovinata perché il celare sotto un sottile velo la bellezza della città, ne accresce il fascino e la seduttività restituendone alla fine, amplificata, la sensualità, gli umori e i suoni, emergenti dalle sequenze girate nei mercati popolari o nella centrale piazza dei Quattro Canti (epigona della romana piazza delle Quattro Fontane), con le sue statue somiglianti ad angeli custodi.
Gianni Sarro
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carloalberto
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domenica 24 gennaio 2021
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questa volta il dialogo con la morte è proficuo
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Palermo shooting forse pecca di cerebralismo, riscattandosi, tuttavia, grazie ad un finale suggestivamente poetico. Nasce da una profonda e complessa riflessione sul rapporto tra arti figurative e fotografia e su quello tra realtà, sensibile ed invisibile, nella sua riproducibilità artistica o filmica, quest’ultima complicata dalla tecnologia del digitale che offre la possibilità di modificare la copia facendone un originale, sebbene comunque derivato dal reale. Idealmente si richiama a Blow-Up e a Professione:reporter di Antonioni, intrecciandosi con i temi più cari a Bergman. Evidenti sono le citazioni filmiche che rinviano al dialogo-sfida con la Morte del Il settimo sigillo e all’orologio del Il posto delle fragole, in cui, tuttavia, l’assenza di lancette dal quadrante significava la fine del tempo.
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Palermo shooting forse pecca di cerebralismo, riscattandosi, tuttavia, grazie ad un finale suggestivamente poetico. Nasce da una profonda e complessa riflessione sul rapporto tra arti figurative e fotografia e su quello tra realtà, sensibile ed invisibile, nella sua riproducibilità artistica o filmica, quest’ultima complicata dalla tecnologia del digitale che offre la possibilità di modificare la copia facendone un originale, sebbene comunque derivato dal reale. Idealmente si richiama a Blow-Up e a Professione:reporter di Antonioni, intrecciandosi con i temi più cari a Bergman. Evidenti sono le citazioni filmiche che rinviano al dialogo-sfida con la Morte del Il settimo sigillo e all’orologio del Il posto delle fragole, in cui, tuttavia, l’assenza di lancette dal quadrante significava la fine del tempo. A differenza del vecchio professore di Bergman, per il quale il tempo è oramai tutto alle sue spalle, il fotografo di Wenders è colto, nel mezzo del cammin, in una crisi esistenziale, dalla quale ne esce grazie ad una rielaborazione del concetto di tempo, per giungere ad una visione pacificata dell’esistenza proprio grazie al confronto dialettico con la Morte. Non a caso Wenders dedica l’opera ai due maestri scomparsi lo stesso giorno, il 30 luglio del 2007, durante le lavorazioni del suo film.
La sintesi della duplice riflessione, alla luce dei pregressi lavori autoriali, rischia più volte di ridursi ad una sterile rievocazione di tematiche già affrontate ad un livello più alto, poeticamente nelle opere di Bergman, filosoficamente dagli addetti ai lavori, si pensi al saggio di Walter Benjamin “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Wenders, nonostante la dinamica del viaggio da Düsseldorf a Palermo e del vagabondare del protagonista per le strade della città siciliana, si sofferma spesso in una rappresentazione statica del pensato, quasi il film consistesse di una serie di lezioni, didatticamente esposte dalla voce fuori campo, nella prospettiva di un esistenzialismo alla Camus.
Il puro descrittivismo iperrealista, che nell’antefatto si alterna alle incursioni visionarie degli incubi notturni, cede il passo nella seconda parte ad una visione surreale in cui i sogni stessi si materializzano nell’apparizione dell’arciere incappucciato, Dennis Hopper, che impersona la Morte. La vita trascorsa nell’errore, sui set dell’alta moda in cui l’arte mercificata è icasticamente rappresentata dall’intima naturale bellezza, deturpata dal contesto, dell’attrice incinta, nella parte di sé stessa, Milla Jovovich, è il prima della rivelazione, la vita prosaica che precede la catarsi e la rinascita a vita nuova.
Il viaggio nella modernità antica di Palermo, ossimoro emblematicamente inquadrato dall’obiettivo di Wenders nel traffico caotico che invade le strade intrise di storia, il luogo ideale perché vi si incontrino, incrociandosi metaforicamente nella piazza dei Quattro canti, modi differenti di rappresentazione artistica, rivela al protagonista, attraverso due incontri, il proprio male di vivere mostrandogli allo stesso tempo la cura.
Giovanna Mezzogiorno, la restauratrice di un antico affresco murale del ‘500, con al centro la Morte a cavallo, simbolo della riproduzione fantastica del mondo invisibile ed immaginifico di cui è intessuta la trama nascosta del vivere, rappresenta l’Arte che vuole attingere all’eterno. Letizia Battaglia, fotografia impegnata nel sociale, che riproduce la realtà sensibile in vista di un rinnovamento delle coscienze, rappresenta l’Arte come missione che si nutre del contingente ideologicamente ispirata dallo spirito di servizio verso la collettività.
Nell’implicito paragone tra le due artiste ed il proprio lavoro di fotografo di successo, che per denaro e sete di fama ha venduto la propria anima al mondo della moda, il protagonista, un attore non professionista,Andreas Frege, folgorato sulla via di Damasco, decide di abbandonare lo stile di vita che lo ha condotto sul baratro del nulla.
Nonostante la rigidità dell’opera e la sua suddivisione formale in una esposizione schematica che ne indebolisce la forza poetica, il film prende il volo nelle ultime sequenze. In quel raggio di sole, che circonfonde Hopper, trasfigurando la Morte nella figura angelica della madre, e che poi penetra nella stanza a riscaldare la tenerezza dello sguardo amorevole della Mezzogiorno, nome omen, c’è un omaggio incondizionato alla luce calda della vita. La notte incombe, come le tenebre della Morte, ma oramai è pensata, in una coscienza finalmente pacificata, come complementare e necessaria alla risurrezione quotidiana in un futuro mattino.
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howlingfantod
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mercoledì 15 ottobre 2014
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settimo sigillo all'epoca del digitale
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Ci sono tutti gli stilemi del suo cinema in questo tardo Wenders, quasi come condensati e ripresi in dialoghi e forme diverse si respirano le arie del primo Wenders di “Falso movimento” o “Nel corso del tempo” . Si ha l’impressione come in molte sue opere che ogni dialogo sia una domanda esistenziale, ogni immagine una filosofia e che ogni passaggio ci voglia dire il tutto, questo è il limite del film. Ci sono le domande assolute, il senso del religioso, l’amore, l’arte, la colpa, l’attenzione rigorosa alla fotografia e al suo lirismo in questo film come in molto altro Wenders che segue qui come altrove le costanti on tour dei suoi film, un all’round the world perenne nel mondo globalizzato: Da una metropoli occidentale sclerotizzata alla vecchia esotica e barocca Palermo il film narra dell’incontro di due solitudini, il fotografo in crisi e la restauratrice che deve restaurare niente po’ di meno che il volto della morte, fuor di metafora come fa il fotografo che pretende addirittura fotografarla.
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Ci sono tutti gli stilemi del suo cinema in questo tardo Wenders, quasi come condensati e ripresi in dialoghi e forme diverse si respirano le arie del primo Wenders di “Falso movimento” o “Nel corso del tempo” . Si ha l’impressione come in molte sue opere che ogni dialogo sia una domanda esistenziale, ogni immagine una filosofia e che ogni passaggio ci voglia dire il tutto, questo è il limite del film. Ci sono le domande assolute, il senso del religioso, l’amore, l’arte, la colpa, l’attenzione rigorosa alla fotografia e al suo lirismo in questo film come in molto altro Wenders che segue qui come altrove le costanti on tour dei suoi film, un all’round the world perenne nel mondo globalizzato: Da una metropoli occidentale sclerotizzata alla vecchia esotica e barocca Palermo il film narra dell’incontro di due solitudini, il fotografo in crisi e la restauratrice che deve restaurare niente po’ di meno che il volto della morte, fuor di metafora come fa il fotografo che pretende addirittura fotografarla. Il dialogo finale fra la vita e la morte impersonata da uno splendido Dennis Hopper assume la Coleridgeana memoria, della vita in morte come nella “ballata del vecchio marinaio” alla ricerca di un più vivo senso di noi e di te (dialogo finale) e al di là delle forme virtuali e panteiste significate dal regno del digitale che con il suo avvento ha trasformato ed eliminato il senso vero dell’uomo e la percezione della vita e della morte stessa ( che non è più un negativo della pellicola come nello splendido dialogo). Profondo e arduo saggio sul senso dell’arte e la sua funzione oltreché un settimo sigillo nell’era del digitale questo film lascia senz’altro degli ampi spazi di riflessione, sulla vita, sull’arte e sull’amore quello anche e soprattutto per il cinema.
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mercoledì 22 aprile 2009
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in una parola: pretenzioso
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Che Wim Wenders fosse in empasse creativa si era capito. Che lo fosse fino al punto da presentare un film di fattura così mediocre, ancora no.
Palermo Shooting racconta la crisi esistenziale di un fotografo a seguito di uno sventato incidente stradale che gli sarebbe potuto costare la vita. Da qui inizia il viaggio, fisico (a Palermo appunto) e mentale, alla ricerca del vero significato della vita e della morte. Peccato che tutto si riduca a un’accozzaglia di luoghi comuni e frasi fatte veramente sconcertanti: “l’importante è fare tutto come fosse per l’ultima volta” e banalità del genere. Più che un trattato filosofico, un romanzo Harmony. Non va meglio con l’interpretazione (escluso Hopper che tiene testa): il protagonista, più che un raffinato e riflessivo fotografo, sembra un "tamarro" di prima categoria (con tanto di tatuaggi in bella vista e sopracciglia rifatte), a metà tra rocker e rapper, un nuovo Justin Timberlake che sfoggia pose plastiche a più non posso (la scena del servizio fotografico fa venir voglia di cambiare canale dall’imbarazzo; “purtroppo” siamo al cinema!).
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Che Wim Wenders fosse in empasse creativa si era capito. Che lo fosse fino al punto da presentare un film di fattura così mediocre, ancora no.
Palermo Shooting racconta la crisi esistenziale di un fotografo a seguito di uno sventato incidente stradale che gli sarebbe potuto costare la vita. Da qui inizia il viaggio, fisico (a Palermo appunto) e mentale, alla ricerca del vero significato della vita e della morte. Peccato che tutto si riduca a un’accozzaglia di luoghi comuni e frasi fatte veramente sconcertanti: “l’importante è fare tutto come fosse per l’ultima volta” e banalità del genere. Più che un trattato filosofico, un romanzo Harmony. Non va meglio con l’interpretazione (escluso Hopper che tiene testa): il protagonista, più che un raffinato e riflessivo fotografo, sembra un "tamarro" di prima categoria (con tanto di tatuaggi in bella vista e sopracciglia rifatte), a metà tra rocker e rapper, un nuovo Justin Timberlake che sfoggia pose plastiche a più non posso (la scena del servizio fotografico fa venir voglia di cambiare canale dall’imbarazzo; “purtroppo” siamo al cinema!). Wenders non perde occasione per rendere ogni sua opera una riflessione sul cinema e sull’immagine (vedi Lisbon Story): avrebbe voluto girare 8½ ma non ne ha la stoffa (niente di strano quando il paragone è con Fellini) e non va meglio quando prova a tuffarsi nelle atmosfere da incubo alla Lynch. Un film pretenzioso, che vorrebbe parlare dell’invisibile, ma non avendo fiducia nello spettatore preferisce spiegare tutto, finendo col relegare le immagini a semplici cartoline prive di una qualsiasi forza suggestiva.
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