Super Size Me

Paola Zanuttini

America è proprio il Paese del do it yourself, si fabbrica tutto da sola: dai malanni agli anticorpi. E poi li esporta. Per George W. Bush spunta fuori Michael Moore, per il fast food ecco Morgan Spurlock. Che in Italia è uno sconosciuto, ma ancora per poco, perché l’8 aprile esce Super Size Me, il suo primo film, già premiato al Sundance e nominato all’Oscar. Lo si potrebbe definire un polpettone, non perché sia noioso, tutt’altro, ma perché è un viaggio al termine dell’hamburger: il Big Mac, per la precisione.
Come Moore, Spuriock ha realizzato un documentario, ma si è spinto oltre, perché ha fatto anche da cavia: mangiando solo pasti McDonald’s per un mese di fila, tre volte al giorno. L’idea gli era venuta leggendo la notizia di due adolescenti che avevano citato in giudizio la multinazionale con l’accusa di averle fatte diventare obese. Voleva vedere che effetto gli avrebbe fatto un regime integrale di hamburger e patatine, muffin e frullati, crocchette di pollo e Coca Cola a litri. E voleva anche indagare sul rapporto fra responsabilità individuale del consumatore che si abbuffa e responsabilità sociale dell’impresa che lo convince in tutti i modi ad abbuffarsi.
Ne è uscito malissimo, con dieci chili in più, il fegato a rischio di cirrosi, pressione, colesterolo e trigliceridi oltre i limiti di guardia e tutta una serie di disturbi e sommovimenti gastrici spiacevoli anche da raccontare. D’altra parte, ha ingoiato 15 chili di zucchero e cinque di grassi in un mese.
Per documentare questo esperimento di autodistruzione in diretta, ha fatto le cose con metodo: si è rivolto a un cardiologo, un gastroenterologo, un internista, un fisiatra, una dietologa, che hanno svolto i controlli preliminari e l’hanno seguito durante le riprese del film. Si è sottoposto anche a un’ispezione rettale e, in nome del diritto di cronaca, non l’ha censurata. All’inizio erano tutti divertiti, curiosi, tranquilli, alla fine lo imploravano di smettere, perché non avrebbero mai immaginato che la Mac dieta fosse tanto devastante per un uomo di 35 anni in eccellenti condizioni fisiche.
Per testimoniare, invece, l’affiato autodistruttivo che contagia il Paese più grasso del mondo, con cento milioni di persone sovrappeso (il 60 per cento degli adulti) e con 400 mila decessi l’anno legati all’obesità, seconda causa di morte dopo il fumo, Spurlock ha viaggiato in venti città degli States intervistando responsabili della Sanità, avvocati dei consumatori, lobbisti delle corporation alimentari, nutrizionisiti apocalittici, liberal integrali, divoratori di polpette tragicamente ignoranti e altri più consapevoli. Ma non è riuscito a parlare con nessuno della McDonald’s.
Ha comunque visitato una scuola con una palestra da beauty farm e una mensa velenosa, dove smerciano snack peggio che in un distributore.
E ha incontrato un primati-sta del fast food, che dichiara orgoglioso: «Il novanta per cento del cibo solido che mangio è McDonald’s. Ho chiesto a mia moglie di sposarmi in un Mac, perché è un posto speciale». Anche lui è un tipo speciale:
nonostante la dieta allucinante, è magro. Per via delle patatine, non le mangia.
Una follia americana denunciata da un film altrettanto folle. Perché, anche se il regista ammette l’intento provocatorio, il suo esperimento ha ben poco di scientifico: quanti altri americani mangiano esattamente come ha mangiato lui in questo mese di passione? E sarà vero che già al tredicesimo giorno di fast food integrale i grassi saturi cominciavano a impedirgli l’afflusso del sangue al pene, compromettendone l’erezione, come lamentava la sua fidanzata? Che, va detto, è una cuoca vegetariana, molto raffinata e un po’ diafana.
Michael Moore sostiene che sugli Usa soffi il vento della paranoia. Inevitabile, quindi, che alla paranoia del cibo si risponda con un film un po’ paranoico. È a tesi.
Però si prova un leggero disagio vedendo Spurlock che placa tutti i suoi malesseri da intossicazione buttandosi sul cibo. O ascoltando un nutrizionista parlare dell’endorfina del cheeseburger e della dipendenza creata dallo zucchero, assente solo in sette dei prodotti McDonald’s. E si passa all’inquietudine quando i bambini di una scuola elementare non riconoscono la fotografia di Bush o l’immagine di Gesù, ma non hanno indugi di fronte a Ronald McDonald, il clown mascotte della casa.
Per arrivare alla teoria del complotto basta l’evoluzione dei bicchieri: da 35 a 180 centilitri. L’escalation dei sacchetti delle chips si misura in calorie: da 200 a 600. «Super?». Questa è la domanda che i camerieri sarebbero addestrati a porre ai clienti per convincerli, in termini subliminali, a scegliere la porzione più grande.
McDonald’s smentisce: non dipende dal film, la saggia decisione di ritirare le super size dai suoi ristoranti. E nemmeno la nuova campagna salutista che riempie di insalate i menù e regala contapassi ai clienti adulti per invitarli allo jogging, altra fissa americana. Non dipende, però è già qualcosa.
Da Il Venerdì di Repubblica, 1 aprile 2005


di Paola Zanuttini, 1 aprile 2005