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Paolo D'Agostini
La Repubblica
La storia di Edmond Budina la raccontò Antonella Barina sul Venerdì del 2 novembre 2001. È una storia un po' speciale e vedendo ora il suo film Lettere al vento non puoi non chiederti se essa non induca a una benevolenza superiore ai meriti dell'opera. La risposta è no. Con le sue evidenti debolezze o ingenuità, è un film assolutamente degno.
Nella materia che tratta non sfigura al cospetto di un'opera d'autore alta e importante come Lamerica di Amelio. Budina era un uomo dell'establishment culturale sotto il regime di Enver Hoxha, lo Stalin albanese. Attore e regista stimato. Poi è diventato un oppositore partecipando da protagonista alla preparazione della caduta e del cambiamento. Attraverso il matrimonio Budina era imparentato con una famiglia italiana che alla presa del potere comunista, nel '46, rimase bloccata nel paese dell'est che più a lungo di tutti avrebbe mantenute chiuse le sue frontiere. Nel '91 un'iniziativa che con il senno di poi non si può non giudicare demagogica: il governo italiano favorì il rimpatrio. Budina si servì di quella possibilità ma in Italia vide precipitare il suo status: il solo modo di sopravvivere lo trovò in una fabbrica di Bassano del Grappa dove tutt'oggi fa l'operaio. Ma aveva un sogno, e ora lo ha realizzato: fare questo film, farlo in Albania.
Quella che vi si racconta è un'altra odissea, non di ieri ma di questi anni di caotica e ultra contraddittoria democratizzazione. Quella di un padre (lo stesso Budina) che parte per l'Italia sulle tracce di un figlio che crede caduto nella spirale malavitosa e invece di quella spirale è rimasto vittima: morto tentando di salvare dall'annegamento altri disgraziati che gli scafisti avrebbero voluto abbandonare al loro destino. Quanto di rudimentale c'è nel racconto non diminuisce la sua intensità.
Da La Repubblica, 14 giugno 2003
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