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martedì 1 aprile 2008
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quel bravo regista..
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Martin Scorsese ha sempre qualche sorpresa in serbo, fa del cinema come giocherebbe a biliardo: con stile e inventiva, sì, ma senza che mai le figure del gioco consentano riconoscimenti al di là da quel che costituisce il suo personale modo di muoversi. E come ogni campione di qualsiasi gioco d’abilità, mano a mano che prosegue nel tempo egli diventa sempre più ironico, giocoso, sorridente.
Quei bravi ragazzi è probabilmente il suo film più ludico a tutt’oggi, ed è anzi – in questo senso – l’esatto opposto del precedente e sublime Fuori orario: mentre la pellicola del 1985 sembrava uno scherzo ed era invece un incubo, questa sembra un incubo ed è invece uno scherzo. In questa chiave, appunto, Scorsese rivisita un ambiente ed un tema che gli sono particolarmente cari e congeniali, avendo essi in pratica tenuto a battesimo il suo cinema dai tempi di Chi bussa alla mia porta? e Mean Streets: il gangsterismo italo-americano dei quartieri poveri di New York, il culto della “famiglia”, l’omertà e la criminalità mascherate da pratiche d’onore.
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Martin Scorsese ha sempre qualche sorpresa in serbo, fa del cinema come giocherebbe a biliardo: con stile e inventiva, sì, ma senza che mai le figure del gioco consentano riconoscimenti al di là da quel che costituisce il suo personale modo di muoversi. E come ogni campione di qualsiasi gioco d’abilità, mano a mano che prosegue nel tempo egli diventa sempre più ironico, giocoso, sorridente.
Quei bravi ragazzi è probabilmente il suo film più ludico a tutt’oggi, ed è anzi – in questo senso – l’esatto opposto del precedente e sublime Fuori orario: mentre la pellicola del 1985 sembrava uno scherzo ed era invece un incubo, questa sembra un incubo ed è invece uno scherzo. In questa chiave, appunto, Scorsese rivisita un ambiente ed un tema che gli sono particolarmente cari e congeniali, avendo essi in pratica tenuto a battesimo il suo cinema dai tempi di Chi bussa alla mia porta? e Mean Streets: il gangsterismo italo-americano dei quartieri poveri di New York, il culto della “famiglia”, l’omertà e la criminalità mascherate da pratiche d’onore.
Ma il regista parla chiaro immediatamente, sin dai titoli di testa: i nomi si inseguono, si spostano in orizzontale sullo schermo come in certi titolaggi di cartoons (magari qualche commediola di Blake Edwards) seguendo la linea vettoriale suggerita da quel rombare intermittente di automobili che passano e non si vedono e che anticipano nel soundtrack la scenografia della prima sequenza, l’interno di un’auto in cui tre individui chiacchierano interrotti da strani rumori provenienti dal retro. Tutta la concezione della sequenza è – a posteriori – comicamente trascinante: i tre si preoccupano, si interrogano, si fermano chiedendosi che cosa mai può essere quello strano rumore, quei colpi misteriosi che incombono sulla loro corsa. E a quel punto la normalità diventa horror: i tre si scambiano sguardi che passano dall’interrogatività esercitata su un registro quotidiano a una preoccupata domanda formulata con gli occhi, la bocca tesa, lo scatto del capo. La macchina stacca sul bagagliaio, vi carrella in modo allusivo anticipando una orripilante rivelazione. I tre intuiscono, e lo dicono, che si tratta allora di quel che vi è dentro; la calotta viene aperta e nella penombra (oculatissimamente organizzata in modo che lo spettatore non sia in grado di comprendere esattamente di che cosa si tratti, tranne che si tratta senza dubbio di qualcosa che è in vita e non dovrebbe esserlo) si intravede una sorta di corpo, in un quadro reso ancor più grottescamente lancinante da quel coltellaccio che uno dei tre estrae invece della pistola che tutti si aspettavano. E paradossalmente proprio l’acme della scena, quella serie di coltellate inferte rabbiosamente con un cinico contorno di imprecazioni, diventa il momento della catarsi spettatoriale: ah sì, allora è soltanto un assassinio organizzato da una banda di gangster... Ma proprio lì, nel momento in cui la nostra mente formula quei puntini finali che concludono tranquillizzantemente la nostra, precedente tensione; bene, proprio allora la voce fuori campo di quello che verremo subito a conoscere come il protagonista esclama gloriosamente: «Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster».
Ecco, a questo punto il film di Scorsese l’abbiamo già visto, e tutto quel che seguirà confermerà il nostro piacere, aumentandolo solo in relazione alla perfezione della tecnica che ne convoglia idee e principi. È raro che un regista sia così bravo, così acuto, così padrone del proprio materiale e della propria capacità autoriale da fornirci già in prima battuta la sostanza di quel che vedremo. Scorsese è così. Si tratta, un po’ come in Pollack e qualche altro, della «prima figura», dell’immagine che all’inizio lascia intravedere idealmente quel che seguirà. Ma qui c’è davvero già tutto il film, la sua ironia, la sua tecnica, il suo discorso sul tema scelto, la sua componente autobiografica, ecc. Nella mia personale memoria cinematografica riesco a ricordare soltanto un film che può vantare un attacco altrettanto secco, pregnante ed ironico, quello di Il ladro di Parigi di Louis Malle, con quella voce fuori campo che commenta le fasi dell’apertura di una cassaforte alla fine scassata con un colpo violento cui essa fa da perfetto bordone.
In quest’epoca di banalità meschinamente televisive (e chi scrive crede sinceramente e fermamente in un possibile uso intelligente della televisione) il regista capace ha una sola possibilità, quella del film definitivo; del film, cioè, che chiude una volta per tutte le strade che la mediocrità tenderebbe a continuare a percorrere beatamente ad uso e consumo di un pubblico senza domande, senza rischio, senza guizzi e barbagli d’interesse e di curiosità. Scorsese l’ha già fatto, per quel che riguarda il genere fantozziano all’americana (Tutto in una notte di John Landis, Qualcosa di travolgente di Jonathan Demme, ecc.) con uno dei film-vertice del suo decennio, il già citato Fuori orario. E ora lo fa regolando i conti con le pellicole di gangsterismo mafioso che egli stesso, con Coppola (un altro regolatore di conti: vedi lo splendido lavoro da lui fatto nei confronti dei film di nostalgia con Peggy Sue si è sposata), aveva contribuito a fondare nei ’70.
Naturalmente non si tratta di semplice esercizio formale, di metagenere e così via. Alla fine della «premessa» testé citata la colonna sonora attacca un perfetto «Must I forever be a beggar» che rimanda alle inequivocabili intenzioni critiche del film in chiave etica. Il gangsterismo, insomma, è la metafora generale e onnicomprensiva della morale sociale del successo economico; non la scorciatoia per arrivarvi, ma l’essenza stessa dei meccanismi su cui essa si fonda. Scorsese mette subito in evidenza la mondanità, il rispetto che la società tributa al criminale, le collusioni col potere poliziesco, i privilegi della ricchezza (quella sarabanda di tavolini trasportati ogni volta dai camerieri in prima fila!).
Ma questo, in certo senso, è scontato. Quel che si può fare, a questo livello, è soltanto ammirare il modo sornione e disinvolto in cui il regista (e co-sceneggiatore) ha saputo riproporre un tema morale vecchio quasi quanto il cinema americano, ammantandolo di una tensione e arricchendolo di un ritmo che di rado opere contenutisticamente comparabili possono vantare. In realtà il discorso non può non essere fatto nei termini di una compenetrazione di questo aspetto etico, di quello metacinematografico di cui si diceva più sopra e di quello formale che appartiene a questa pellicola e a questa soltanto. A quest’ultimo livello la notazione più immediata, più spontanea non può non riferirsi ad alcuni piani narrativi di formidabile complessità tecnica che sembrano essere una sorta di trade mark nello stile scorsesiano: specificamente, quello – evidentemente pensato e organizzato per presentare il personaggio di Jimmy alla sua prima entrata – fondato su un carrello alquanto elastico che percorre il night club in modo orizzontale lungo l’intero suo spazio per concludersi su Jimmy che entra superbamente in scena. Tutto il movimento di macchina e tutta la scenografia (ma oserei dire addirittura la coreografia) sono organizzati in modo da esaltare l’entrée di Jimmy: l’obiettivo fruga con calma e attenzione fra i tavolini, lungo i muri, nei passaggi di comunicazione, osserva clienti, persone che parlano, fumano, si salutano, ridono, bevono, tutti identici, tutti anonimi nella loro innegabile appartenenza a un preciso, identificabile gruppo sociale (quello, cioè, mafioso, criminoso), ed ecco che proprio a quel punto Jimmy irrompe nella scena accompagnato dal commento ammirato della vfc dei protagonista. Jimmy insomma invade lo spazio come un elemento carismatico e, per così dire, di disturbo. Non certo nel senso di una sua intrusione mal tollerata, ma nel senso di una presenza incomparabile, la cui importanza e gloria è aumentata dalla sua diversa etnìa (Jimmy è irlandese, e in una sequenza di poco seguente il nomignolo «Jimmy the Gent» rimanda evidentemente a un altro illustre connazionale, quello interpretato da James Cagney nell’omonimo film di Michael Curtiz) all’interno di un’organizzazione che ha con lui strettissimi rapporti, ma della quale egli non sarà mai parte concreta ed insieme ideale. Solo Tommy, vicariamente, potrebbe esserlo, ma finirà come la pellicola mostra, naufragando così una volta per sempre il sogno di una fratellanza fondata sull’amicizia e non sul (supposto) sangue.
L’altra ancor più straordinaria sequenza (anzi, un piano-sequenza) è quella che vede la neo-coppia oltrepassare la fila dei clienti, scendere nel seminterrato ed entrare dal retro nel ristorante, salutare, accomodarsi e godersi lo spettacolo dello stand-up comedian, sul quale il tour de force registico si chiude (ma la voce dell’uomo continua fuori campo sulla sequenza seguente quasi a prolungare l’eccezionale, parossistica – eppure così fluida, naturale – tensione del piano-sequenza). Sì, quasi verrebbe da dire che l’intero Quei bravi ragazzi è fatto d’incastri volutamente mancati, di pezzetti che non combaciano ma si sovrappongono ad altri relativi a diversi livelli di comunicazione e di racconto. Questo naturalmente non suggerisce alcuno stridore, alcuna difficoltà di fruizione. Al contrario, l’operazione ne esce regolarmente trionfale, densa di accezioni e/o di sfumature ironiche. Il meccanismo è forse più evidente che altrove nell’uso delle musiche in rapporto alle immagini. I ragazzi contrabbandano sigarette mentre si sentono le note e le parole di «Parlami d’amore Mariù» (va sottolineato che ad orecchie americane – le prime cui Scorsese si rivolge – la cosa ha un sapore etnico molto più forte che per le nostre, e in ogni caso una connotazione d’ironica dissonanza); Betty Curtis canta «Chariot» – canzone di (supposta) celestiale armonia – mentre la ragazza fa una piazzata a Harry nel bel mezzo del suo quartiere dove lo trova dopo un mancato appuntamento; Tommy spara al barista mentre sullo sfondo si intendono le note argentine di «Firenze sogna»; e Johnny Mathis – uno dei cantanti più romantici a cavallo fra i ’50 e i ’60 – gorgheggia proprio mentre fra la ragazza e Harry non si instaura alcuna simpatia né comunicazione durante il primo, forzato appuntamento accettato per compiacere Tommy. Naturalmente vi sono anche esempi di un diverso uso del rapporto fra musica e immagini, ma, in ultima istanza, sempre congegnato in modo che dalla sovrapposizione esca una connotazione ironica, sorniona, divertita: Mina che canta «Il cielo in una stanza» proprio mentre la mdp, come al solito, si muove in un fumoso, artificiale, tossico night club; oppure le straordinarie, irripetibili prime note della Stardust di Billy Ward (ma dove diavolo l’avrà ritrovato Scorsese quel disco?) commentano il decollo di potenti jet mentre i nostri eroi si accingono al loro primo importante colpo in aeroporto.
Ma, ripeto, quello della musica in rapporto alle immagini è soltanto uno dei possibili esempi in relazione alla costruzione della pellicola in termini di incastro volontariamente mancato e perciò stesso «comico».
La discrepanza, l’inadeguatezza, la contraddittorietà fra contenuti e comportamenti, ad ulteriore esempio, fa della pellicola una gemma d’ironia: la sequenza di Harry e Tommy che discutono in auto di donne come due amici qualsiasi in una oziosa serata, mentre a pochi metri il ristorante cui loro hanno attentato sta prendendo fuoco, è esilarante; mentre la sequenza in cui Tommy chiede alla madre, che cerca di trattenerlo insieme agli amici con dei manicaretti, di dargli un coltellaccio (che gli servirà per il cadavere dell’uomo che è nel bagagliaio) ha toni da commedia nera britannica; e ancora il quadretto di serenità familiare sotto l’albero di Natale (viene in mente il Big Boss di Menahem Golan) la dice lunga sulla concezione stessa della pellicola, sui suoi intenti, sulla sua modulazione di fondo.
Quante cose si vorrebbero dire di questo film ricchissimo, magistralmente sorretto e condotto dalla mano di un cineasta da tempo laureatosi autore personalissimo nel quadro certo professionale ma tanto anonimo del cinema americano di questi ultimi anni. Dai dettagli finissimi (il controllore dei taxi accanto a un bulldog che sembra la sua parodia, la sua caricatura) al leit-motiv della banconota che passa da una mano a un taschino lungo l’intero film, dai particolari iconografici e coloristici di sapore iperrealista (la breve scena presso la piscina del resort quando la ragazza incontra il giovane vicino di casa, i primissimi piani del revolver durante la sequenza della crisi matrimoniale, che ricordano – solo figurativamente, certo – alcune inquadrature di Taxi Driver) alla tenerezza di quegli occhi infantili che osservano ingenui l’orrore inscenato dall’universo degli adulti (il litigio fra i coniugi, la scoperta dei due cadaveri sanguinanti nella automobile rosa), evidente immagine concreta di ciò che li attende non per destino, ma perché quelle esperienze non possono non lasciare un segno determinante nella vita dei piccoli; fino ad arrivare al magistrale momento della deposizione in aula, quando Harry passa da vfc a testimone parlando direttamente in macchina, in uno splendido monologo che rivede, riassume la vita gloriosa del passato con gli occhi di chi quell’esperienza l’ha purtroppo conclusa per sempre, finendo con un lapidario, ritmico, catartico: «...E adesso è tutto finito», che chiude tanto il discorso quanto la sequenza.
E che dire di quell’intensissimo momento, la sequenza della moglie che comprende di essere in grave pericolo di vita dalle parti di Smith e la 9a strada (un quoziente paranoico che si taglia col coltello), e di quell’impagabile scena al diner fra Jimmy e Harry, nella quale il primo si finge ancora amico e l’altro finge a sua volta di acconsentire ad assumersi l’incarico di un assassinio che è invece una vera e propria lettre de cachet? In quest’ultima assistiamo a un momento visivo stupendo: i due sono ripresi lateralmente, seduti al tavolo, mentre oltre il vetro si intravede l’esterno. L’occhio percepisce un movimento di quest’ultimo che sembra dovuto a una sorta di lento zoom, mentre il piano verticale dei due che parlano non subisce alcun mutamento spaziale. La scena convoglia un incredibile potenziale di paranoico terrore, come una minaccia delle cose stesse, la sensazione che può dare la quotidianità sfuggita al controllo (la percezione di un terremoto, ad esempio) poi, quando Harry ha capito con certezza la minaccia e i piani che Jimmy ha divisato per attuarla, ecco che l’obiettivo si muove con naturalezza verso di loro, testimoniando l’avvenuta comprensione, valutazione e accettazione del pericolo da parte del protagonista, che domina la sequenza attraverso la consueta vfc. Si ritrovano in questa pellicola – come del resto si è visto anche attraverso quanto detto più sopra – stilemi tipicamente scorsesiani, momenti, scelte, particolari di ripresa che portano la sua inconfondibile firma e che naturalmente non possono esser criticamente intesi come puri dati esteriori. Il top shot di Tommy che giace sul pavimento della nuda camera dopo essere stato abbattuto dalla mafia, riporta ovviamente al finale di Taxi Driver, ma, a parte la differenza di luministica e di fotografia, è del tutto assente dall’inquadratura la qualità di immobilità della scena del vecchio film. Qui, al contrario l’apparente immobilità è negata, rotta da quella formidabile idea della macchia di sangue che si allarga come olio sul pavimento inzuppando la sottile moquette. Una scena del genere non solo rende la sensazione della fisicità di quella morte (esattamente quel che non avveniva, e volutamente, in Taxi Driver, dove la morte emanava proprio dall’immobilità, dall’imbalsamazione ideale dei cadaveri nella stanza), ma anche quella della sua immediatezza nel tempo (Tommy è stato appena ucciso) e quella dell’anima colta mentre se ne sta fuggendo dal corpo, come se questi personaggi dopotutto un’anima l’avessero davvero, anche se naturalmente identificabile soltanto nel loro dinamismo, nella loro intraprendenza senza requie che trova esito solo e soltanto nello sparare, nell’uccidere, nel delinquere.
La violenza del film, anzi, la sua condizione di categoria determinante, fa della pellicola una specie di western. Il modo in cui ogni violenza avviene, la naturalezza dell’omicidio e del sangue, della reazione immediata e illegale, del ricorso all’arma da fuoco, proietta l’opera nell’universo convenzionale del western. Mentre nel gangster film classico l’arma da fuoco era l’indispensabile attrezzo dell’azione, qui essa eccede la qualità dell’indispensabilità, si fa strumento di gioco, o per meglio dire, ludicizza il crimine e, più largamente, la concezione e la struttura dei singoli eventi. Tommy continua a minimizzare gli omicidi – a volte del tutto occasionali – che compie, e a suo modo ha ragione: non perché egli sia in qualche misura sollevato dalla responsabilità morale e giuridica dei suoi atti, ma perché nell’universo che il film mostra quegli atti hanno una naturalità (nel senso di coerenza con le premesse sia psicologiche che comportamentali di quel personaggio e di quel mondo) del tutto impensabile nella società retta dai principi che Harry e gli altri tanto disprezzano («ora devo fare la fila come tutti gli altri»).
Ma attenzione a non fare errori, attenzione a non prendere per verità l’affermazione iniziale del film, il suo riferimento a fatti della vita reale: il crimine è reale, la mafia è reale, i privilegi e le prepotenze sono reali, il carcere è reale, ma la naturalità dell’omicidio esiste solo nelle immagini, referente traslato di un sistema sociale e morale (o immorale) che nella realtà la malavita conosce bene. Scorsese, voglio dire, ha messo in scena non uno spaccato del gangsterismo italiano nell’arco di un ventennio, ma i fantasmi rappresentativi della sua violenza, il sistema simbolico dei suoi impulsi criminali. Come al solito, è la differenza che corre fra arte e vita; e sarà bene non dimenticarlo. Diversamente si corre il pericolo di reagire come un giovane spettatore che nella sala davanti ai vari efferati assassinii si domandava attonito ad alta voce: «Be’, ma che tipi sono?!», instillando nel critico l’impulso e la curiosità di rilanciargli la stessa domanda.
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groucho900
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mercoledì 11 novembre 2009
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30 anni di vita nella mafia
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Hanry Hill (Ray Liotta) è un ragazzo italo-irlandese nato e cresciuto a brooklin dove sin da piccolo inizia a frequentare i " bravi ragazzi " della zona : entra nel giro cominciando a lavorare presso la stazione dei taxi gestita dal Tudi Cicero , fratello di Polie (Paul Sorvino) che è il boss di tutto il quartiere .
Dopo la gavetta e i primi arresti Hanry inizia a lavorare direttamente per Polie, spallegiato dai suoi migliori amici Tommy De Vito (Joe Pesci) e Jimmy Conway (Robert De Niro) insieme ai quali svaligia carichi di ogni tipo e non solo.
Intorno agli anni '60 Hanry conosce Karen (Lorainne Bracco) che sposerà e dalla quale avrà due figlie.
Le cose iniziano a complicarsi quando Hanry comincia a smerciare cocaina contro il chiaro parere del boss .
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Hanry Hill (Ray Liotta) è un ragazzo italo-irlandese nato e cresciuto a brooklin dove sin da piccolo inizia a frequentare i " bravi ragazzi " della zona : entra nel giro cominciando a lavorare presso la stazione dei taxi gestita dal Tudi Cicero , fratello di Polie (Paul Sorvino) che è il boss di tutto il quartiere .
Dopo la gavetta e i primi arresti Hanry inizia a lavorare direttamente per Polie, spallegiato dai suoi migliori amici Tommy De Vito (Joe Pesci) e Jimmy Conway (Robert De Niro) insieme ai quali svaligia carichi di ogni tipo e non solo.
Intorno agli anni '60 Hanry conosce Karen (Lorainne Bracco) che sposerà e dalla quale avrà due figlie.
Le cose iniziano a complicarsi quando Hanry comincia a smerciare cocaina contro il chiaro parere del boss .
Così ,quando viene arrestato per spaccio ,Polie gli volta le spalle e per evitare di essere arrestato a sua volta , persino il suo grande amico e mentore jimmy conway decide di farlo fuori.
Hanry farà l' unica cosa che potrà salvargli la vita cioè collaborare con l'FBI per fare condannare Polie ,Jimmy e altri membri della cosca rassegnandosi a trascorrere il resto della vita "come uno stronzo qualsiasi" .
Uno spaccato estremamente coinvolgente della vita di un gruppo di criminali di basso rango che evidenzia sia i lati affascinanti della vita dei gangsters vecchio stile fatta di lusso, divertimento e donne sia i lati altrettanto reali fatti di menzogne, ferocia e tradimenti in un film eccezionale in cui si distuongono le spetatcolari interpretazioni dei di Ray Liotta che ottenne la candidatura all oscar e di joe pesci che vinse l' oscar come miglior attore non protagonista che insieme alla straordinaria impresa registica di Martin Scosrse e alla scelta della colonna sonora e della fotografia a dir poco fenomenali fanno di goodfellas uno dei piu grandi gangster movie della storia del cinema .
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tony montana
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martedì 19 ottobre 2010
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capolavoro sulla mafia
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«Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster. Per me, fare il gangster è sempre stato meglio che fare il Presidente degli Stati Uniti». Questo è ciò che dice il vero Henry Hill al giornalista Nicholas Pileggi, che l’ha riportato nel libro da cui Scorsese ha tratto questa pellicola. E questo è ciò che la voce fuori campo di Ray Liotta dice in apertura di film, stabilendo da subito l’ottica nella quale i protagonisti vengono inquadrati e lo stile di vita che per buona parte della proiezione gli vediamo tenere. Ma anche se, come dice il sottotitolo originale, racconta “tre decadi di storia della Mafia”, Goodfellas non è un film che fa dei mafiosi degli eroi, come invece succedeva nel Padrino: i protagonisti sono dei pesci piccoli, che difficilmente possono davvero arricchirsi con la criminalità e che rischiano di pagare a caro prezzo ogni loro più piccolo errore.
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«Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster. Per me, fare il gangster è sempre stato meglio che fare il Presidente degli Stati Uniti». Questo è ciò che dice il vero Henry Hill al giornalista Nicholas Pileggi, che l’ha riportato nel libro da cui Scorsese ha tratto questa pellicola. E questo è ciò che la voce fuori campo di Ray Liotta dice in apertura di film, stabilendo da subito l’ottica nella quale i protagonisti vengono inquadrati e lo stile di vita che per buona parte della proiezione gli vediamo tenere. Ma anche se, come dice il sottotitolo originale, racconta “tre decadi di storia della Mafia”, Goodfellas non è un film che fa dei mafiosi degli eroi, come invece succedeva nel Padrino: i protagonisti sono dei pesci piccoli, che difficilmente possono davvero arricchirsi con la criminalità e che rischiano di pagare a caro prezzo ogni loro più piccolo errore. Sorretto da un cast già di per se ottimo qui in serata di grazia (De Niro, Liotta, Paul Sorvino, Joe Pesci…), il film è una dimostrazione di maestria da parte di Martin Scorsese, che sa dosare gli elementi della sceneggiatura in modo da raccontare la storia con stile epico ma senza mai stancare, nonostante le quasi due ore e mezza di proiezione. Il regista si prendeinfatti il tempo che ritiene necessario per sottolineare i diversi passaggi drammatici, per tratteggiare nel giusto modo i diversi personaggi, per inserire con la giusta attenzione i diversi elementi che contribuiscono allo sviluppo della storia. Essendo un film di mafia, peraltro uno dei migliori (e il miglior Scorsese in assoluto assieme a Mean Streets, Toro Scatenato e a The Departed), non è scevro da scene di violenza, fin dall’inizio. Violenza molto secca, dura, che arriva improvvisa come gli scatti d’ira del personaggio di Joe Pesci e riporta la nostra attenzione sullo scorrere degli eventi, in caso ci fossimo distratti ad osservare la perfezione stilistica del film. In questo caso è la tecnica cinematografica che la pellicola mette in mostra, sia da parte della troupe che da parte del cast, che regala agli spettatori le emozioni che questo tipo di film sa trasmettere. E se il modo in cui Scorsese narra il finale può far storcere qualche naso, è indubbio che le parole di Ray Liotta con cui il film si chiude rappresentino tutto fuorché un happy ending.
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alex41
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martedì 7 dicembre 2010
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uno dei primi migliori gangster movie mai fatti
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"Quei Bravi Ragazzi" è un autentico capolavoro, uno dei migliori gangster movie mai fatto, anzi forse il miglior gangster movie degli anni novanta. Diretto con maestria da Martin Scorsese, e il montaggio veloce e curato della geniale Thelma Shoonmaker non permette allo spettatore un attimo di tregua (e sarà così anche in Casinò e The Departed). Le interpretazioni sono tutte fantastiche: Ray Liotta è una grande rivelazione, Robert De Niro superlativo e Joe Pesci all'Oscar in una delle sue interpretazioni più sadiche, più straordinarie e storiche della sua carriera. Buona anche la sceneggiatura e la storia, il quale narra le vicende di un gangster, la sua salita al successo fino alla caduta. A mio parere, è uno dei più grandi capolavori del regista, qui Martin Scorsese si meritava davvero l'Oscar, come The Departed.
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"Quei Bravi Ragazzi" è un autentico capolavoro, uno dei migliori gangster movie mai fatto, anzi forse il miglior gangster movie degli anni novanta. Diretto con maestria da Martin Scorsese, e il montaggio veloce e curato della geniale Thelma Shoonmaker non permette allo spettatore un attimo di tregua (e sarà così anche in Casinò e The Departed). Le interpretazioni sono tutte fantastiche: Ray Liotta è una grande rivelazione, Robert De Niro superlativo e Joe Pesci all'Oscar in una delle sue interpretazioni più sadiche, più straordinarie e storiche della sua carriera. Buona anche la sceneggiatura e la storia, il quale narra le vicende di un gangster, la sua salita al successo fino alla caduta. A mio parere, è uno dei più grandi capolavori del regista, qui Martin Scorsese si meritava davvero l'Oscar, come The Departed. Il film è raccontato in modo geniale, ricco di intrecci interessanti e un montaggio da Oscar. Nella seconda parte rischia di cadere un po' nel pesante, ma a parte questo è realistico e mai monotono. Sfido chiunque a dire che Scorsese non sia un genio del genere. Pellicola storica, consigliata a tutti, speriamo che Scorsese continui a fare film così. Vai Martin, sei grande!
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ibracadabra 8
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venerdì 21 gennaio 2011
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quei "bravi" attori
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FILM ANNI 90 E TRA I PIU' BELLI MAI REALIZZATI SIA PER IL GENERE ,CHE IN ASSOLUTO ,GRANDE , M.SCORSESE,..............BRAVISSIMO LIOTTA , OTTIMO DE NIRO . MAGISTRALE PESCI..............OTTIMISSIMO SORVINO NELLA PARTE DEL BOSS A CAPO DELLA FAMIGLIA.....OTTIMI ANCHE I COMPRIMARI, L' OSCAR A J.PESCI E' POCO NE MERITAVA ALMENO ALTRI E 2 SIA PER LA REGIA CHE PER IL FILM.
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shiningeyes
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martedì 16 aprile 2013
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uno dei migliori film del genere.
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Una delle migliori opere di Martin Scorsese, “Quei bravi ragazzi” è promotore di un nuovo tipo di raccontare la mafia italoamericana, senza la solennità del Padrino e senza l'ascesa al potere di “Scarface” e il combattimento tra legalità e malavita degli “Intoccabili”.
E' raccontata in un modo abbastanza semplice e documentaristico, dove le malefatte ed i vari traffici e omicidi sembrano una cosa normale, come se fossero delle pratiche d'ufficio e come se tutto fosse rose e fiori.
Il narratore è Henry Hill (Ray Liotta), che prende tutti gli agi della vita da gangster, senza tener conto dei rischi e dei problemi che comporteranno: tra tradimenti e liti con sua moglie, vita in costante pericolo e dipendenza della cocaina, fino ad arrivare ad essere l'infame di turno pur di salvarsi.
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Una delle migliori opere di Martin Scorsese, “Quei bravi ragazzi” è promotore di un nuovo tipo di raccontare la mafia italoamericana, senza la solennità del Padrino e senza l'ascesa al potere di “Scarface” e il combattimento tra legalità e malavita degli “Intoccabili”.
E' raccontata in un modo abbastanza semplice e documentaristico, dove le malefatte ed i vari traffici e omicidi sembrano una cosa normale, come se fossero delle pratiche d'ufficio e come se tutto fosse rose e fiori.
Il narratore è Henry Hill (Ray Liotta), che prende tutti gli agi della vita da gangster, senza tener conto dei rischi e dei problemi che comporteranno: tra tradimenti e liti con sua moglie, vita in costante pericolo e dipendenza della cocaina, fino ad arrivare ad essere l'infame di turno pur di salvarsi.
Sembra quasi che Scorsese ci metta all'avviso di tale scelta di vita, che i soldi, il potere e il rispetto hanno vita breve per coloro che si avventurano su questa strada.
Tecnicamente il film è ineccepibile, la regia di cura maniacale di Scorsese è evidente, come il suo studio accurato sui personaggi, che va dal violento Tommy (straordinario Joe Pesci),dal crudele Jimmy Conway (un De Niro sempre maiuscolo) e dalla sempre frustrata moglie di Henry, Karin, fino ad un bonaccione capo come Paulie (ottimo Paul Sorvino); anche i personaggi secondari poi, fanno la loro ottima figura, dandoci un bel divertssement sul mondo mafioso.
Da citare poi, la magnifica scena del pestaggio di Billy Buzz, con fermata a casa della mamma di Tommy, con conseguente uccisione e seppellimento di cadavere (che sono l'incipit del film).
“Quei bravi ragazzi” è senz'altro un bellissimo film gangster atipico, ma pieno di perle e genialità e con una sceneggiatura senza sbavature; uno dei migliori del genere. D'altronde, non ci si poteva aspettare di meno da un grande regista come Scorsese e dall'ottimo cast che c'è nel film; un unico appunto lo muovo su Ray Liotta, che pur lodando il suo impegno, non mi è sembrato convincente nella parte di protagonista. Ma comunque non basta ad intaccare un ottimo film come “Quei bravi ragazzi”.
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vinnie
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domenica 28 settembre 2008
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recensione
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Giovane italo-irlandese realizza il suo sogno entrando a far parte di una famiglia mafiosa iniziando con piccoli lavoretti per poi diventare a tutti gli effetti un vero gangster.Spaccato di vita mafiosa di Henry Hill e compari fra efferrati omicidi e normale routine del crimine organizzato e non, con un eccezionale duo di attori De Niro - Pesci tutto da godere sotto l' inconfondibile marchio di garanzia del grande regista Martin Scorsese.Il film ricevette sei nimination all'Oscar fra le quali miglior regia e miglior fim, Joe Pesci ne vinse uno come attore non protagonista il tutto condito da un ricco cast di attori fra i quali anche Paul Sorvino e Samuel L. Jackson facendone di questa pellicola un elemento imperdibile per tutti gli appassionati del genere e non.
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everbigod
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sabato 31 gennaio 2009
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un gangster movie familiare
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Goodfellas, titolo originale del film “Quei bravi ragazzi” tratto dal romanzo “Wise guys” dello sceneggiatore Nicolas Pileggi narra la storia di Henry Hill, un ragazzo italo-irlandese che già adolescente decide di diventare un gangster. Il film segue il percoro di vita di Henry dal 1955, quando a tredici anni comincia a fare dei lavoretti per la famiglia dei Cicero, al 1985 e ci mostra dei giovani che vivono solo per arricchirsi, tradiscono le loro mogli come fosse una cosa normale e stanno sempre insieme, divertendosi, ridendo e uccidendosi col sorriso in faccia. Ma le loro carriere non decollano mai, rimangono sempre dei gangster uguali a tutti gli altri, fanno sempre errori e rischiano di essere uccisi per nulla.
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Goodfellas, titolo originale del film “Quei bravi ragazzi” tratto dal romanzo “Wise guys” dello sceneggiatore Nicolas Pileggi narra la storia di Henry Hill, un ragazzo italo-irlandese che già adolescente decide di diventare un gangster. Il film segue il percoro di vita di Henry dal 1955, quando a tredici anni comincia a fare dei lavoretti per la famiglia dei Cicero, al 1985 e ci mostra dei giovani che vivono solo per arricchirsi, tradiscono le loro mogli come fosse una cosa normale e stanno sempre insieme, divertendosi, ridendo e uccidendosi col sorriso in faccia. Ma le loro carriere non decollano mai, rimangono sempre dei gangster uguali a tutti gli altri, fanno sempre errori e rischiano di essere uccisi per nulla. Diventa amico di James Conway (Robert De Niro), molto ammirato dal giovane, e Tommy De Vito (Joe Pesci) che non ci pensa due volte a fare fuori qualcuno.
A questi bravi ragazzi non manca proprio nulla. Hanno sempre le tasche piene di soldi. Egli si sente superiore a tutta la gente comune che ogni giorno va a lavorare e fatica ad arrivare a fine mese, ma
si rende conto comunque che questa sarà la sua fine.E dovrà rivolgersi all'FBI per tirarsene fuori.
Il film non ci narra le vicende di un boss intoccabile ma semplicemente la crescita di un giovane ladruncolo che diventa assassino e infine spacciatore.
Della mafia in passato si è molto parlato e se ne continua a parlare, sono stati girati tanti film memorabili quali “Il padrino” di Francis Ford Coppola, “Scarfare”, “Gli intoccabili” e tanti altri ma mai ci era stata raccontata la vita di un gruppo di mafiosi così dall'interno. Martin Scorsese con questo suo meraviglioso gangster movie ci introduce in un mondo familiare facendoci apparire tutte le attività losche dei Cicero quasi come delle attività accettabili.
Ma il film non è meraviglioso solo per la regia di Scorsere. Il cast di attori che va da De Niro a Joe Pesci, da Ray Liotta a Samuel L. Jackson da tutto se stesso nell'interpretare questi bravi ragazzi.
Il tutto è accompagnato da un'incalzante colonna sonora che a volte contrasta con le immagini che ci vengono presentate ma che rimane comunque sempre bella. Forse la pecca più grande del film rimane la sua lunga durata (139 min) che in alcuni momenti può veramente dare fastidio, ma ciò non toglie che rimane un capolavoro.
Martin Scorsese con questo film vinse il Leone d'argento a Venezia e si candidò a sei nomination per gli Oscar. Joe Pesci vinse l'Oscar come miglior attore non protagonista per la sua eccezionale interpretazione di un gangster furioso e nevrotico.
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poliziano
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sabato 4 febbraio 2012
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fenomenologia del bravo ragazzo
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Certamente il maggior film di sempre sulla mafia al fianco del Padrino, in fondo ne è la faccia complementare: entrambi hanno il merito di indagare il fenomeno dall'interno, ma dove nel film di Coppola si ha la grande saga drammatica, qui ritroviamo uno sguardo analitico e quasi 'scientifico', una indagine fenomenologica. Il racconto del film è svolto da un pentito suo malgrado, ed è il filtro giusto onde guidare lo spettatore poiché Harry Hill è l'unico personaggio che mostri di riflettere sulla propria condizione, anche se è soprattutto per motivi giuridici, perché la sua carriera di gangster si è ormai chiusa: finiamo col simpatizzare per lui, ma senza vera identificazione.
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Certamente il maggior film di sempre sulla mafia al fianco del Padrino, in fondo ne è la faccia complementare: entrambi hanno il merito di indagare il fenomeno dall'interno, ma dove nel film di Coppola si ha la grande saga drammatica, qui ritroviamo uno sguardo analitico e quasi 'scientifico', una indagine fenomenologica. Il racconto del film è svolto da un pentito suo malgrado, ed è il filtro giusto onde guidare lo spettatore poiché Harry Hill è l'unico personaggio che mostri di riflettere sulla propria condizione, anche se è soprattutto per motivi giuridici, perché la sua carriera di gangster si è ormai chiusa: finiamo col simpatizzare per lui, ma senza vera identificazione. Alle passioni drammatiche della saga di Puzo si sostituisce un distacco impersonale e oggettivante; il ritmo del film talvolta è addirittura frenetico, conferisce ai personaggi uno spessore indimenticabile ma senza soffermarsi sulle singole vicende e senza fare della psicologia. Ray Liotta, nel miglior ruolo della carriera, è più che convincente quale nocchiero scrupoloso di quello che è un lungo racconto di vita quotidiana del gangster medio; se De Niro è addirittura monumentale, Joe Pesci porta al cinema il ritratto nuovissimo di un criminale pericolosamente (e comicamente) al limite della follia e della nevrosi, con un oscar più che meritato. Sin dalla prima scena, col cadavere nel cofano, la violenza è lo sfondo normalissimo e ordinario di una vicenda che non ha eroi né vittime, buoni o cattivi, ma solo tanti comprimari, e che viene conclusa nell'unico modo possibile. Insuperabile, nel suo genere.
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tomdoniphon
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giovedì 29 maggio 2014
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il ritratto dell'universo mafioso
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Trent'anni di vita nella mafia del "pentito" Henry Hill (Liotta, straordinario). Radiografia dell'universo mafioso italo-americano, visto dal basso, da chi non sarà mai "Padrino". A differenza dei classici film gangster, non vengono soltanto raccontate le "imprese" criminali dei mafiosi, ma soprattutto la vita quotidiana di questi ultimi (pranzi, feste, mogli, figli e amanti). Con la cura dei particolari di chi conosce quel mondo come le sue tasche, Scorsese ci lascia una allucinante descrizione di un ambiente in cui uccidere è ordinaria amministrazione; e lo fa con uno stile mai così brillante ed innovativo: "flusso di immagini costruite con esattezza documentaristica e montate su una colonna sonora ininterrotta, dove canzoni, voce fuori campo, dialoghi, spari e boati si sovrappongono in modo stupefacente e mozzafiato" (Mereghetti).
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Trent'anni di vita nella mafia del "pentito" Henry Hill (Liotta, straordinario). Radiografia dell'universo mafioso italo-americano, visto dal basso, da chi non sarà mai "Padrino". A differenza dei classici film gangster, non vengono soltanto raccontate le "imprese" criminali dei mafiosi, ma soprattutto la vita quotidiana di questi ultimi (pranzi, feste, mogli, figli e amanti). Con la cura dei particolari di chi conosce quel mondo come le sue tasche, Scorsese ci lascia una allucinante descrizione di un ambiente in cui uccidere è ordinaria amministrazione; e lo fa con uno stile mai così brillante ed innovativo: "flusso di immagini costruite con esattezza documentaristica e montate su una colonna sonora ininterrotta, dove canzoni, voce fuori campo, dialoghi, spari e boati si sovrappongono in modo stupefacente e mozzafiato" (Mereghetti). Scorsese arriva addirittura ad infrangere una delle regole non scritte del cinema, lasciando che il protagonista, nella scena finale del film, parli direttamente agli spettatori. Il bello è che questo modo di narrare imprevedibile e folgorante non si esaurisce nel formalismo, ma è necessario per farci "entrare" nell'universo mafioso; fondamentale, da questo punto di vista, il ricorso a dialoghi spesso irresistibili, che rimandano alla commedia grottesca e perfino alla farsa macabra. Un capolavoro che non ci si stanca mai di rivedere ed apprezzare.
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