Irene Bignardi
La Repubblica
Le fiabe sono sempre crudeli (pare che facciano bene così): vogliamo per un attimo pensare a quanto è cattivo un classico per l’infanzia come la Sirenetta di Andersen, con i suoi risvolti teratologici e la sua conclusione senza speranza?
Le fiabe pensate e nate per gli adulti sono ancor più crudeli, perché nutrite anche dalla consapevolezza che gli adulti hanno della durezza della vita. Così, non si troverà nulla di consolante, di consolatorio, di edificante nella favola inventata per Edward mani di forbice da Tim Burton insieme a Caroline Thompson. Ma si potrà trovare in compenso molta poesia, una malinconia autentica, una storia profondamente “morale”, che forse proprio per questo non ha un lieto fine se non nel riscatto della memoria e nella coscienza di non aver agito male.
La fiaba atemporale di Edward mani di forbice (raccontata da una vecchina tipo Cacao Talmone a una nipotina piccola piccola sprofondata in un letto che sembra quello della storia dei tre orsi) parte dall’ennesimo “mad doctor”, Vincent Price - oggetto di culto da parte di Tim Burton -‘nei panni di un vecchio scienziato che crea una macchina affetta-verdure in forma umana. E sbaglia in due cose: muore prima di averle dato le mani, frettolosamente sostituite con un fantasioso intrico di lame, ed eccede nell’anima. Così che quando Edward, abbandonato a vivere da solo in un castello gotico in rovina, viene salvato da una gentile signora e portato da lei a vivere nella sua casetta suburbana, sono i turbamenti della sua anima a rendergli dura la vita.
Nella piccola città, che Burton dipinge con i colori dei gelati - giardinetti tutti uguali, vialetti inappuntabili, macchinone parcheggiate in bell’ordine - Edward, extraterrestre timidissimo e pallidissimo vestito di nero, segnato sul volto dalle sottili cicatrici che le sue stesse forbici gli hanno prodotto, ma dotato del dono prodigioso di tagliare virtuosisticamente qualsiasi cosa (capelli femminili, cespugli, pellicce canine), riscuote all’inizio un successo strepitoso che sarebbe anche un successo erotico, nella comunità piena di signore e signorine sole, se non fosse che le sue lame sono pur sempre un rischio e che lui è già bell’innamorato della figlia della sua ospite, a sua volta fidanzata con un orribile teddy-boy violento e razzista.
Pur inserendo i suoi personaggi nei contorni di una favola, Burton tiene d’occhio la realtà per farne una satira dai deliziosi toni poetici. La buona Dianne Wiest è una venditrice di prodotti Avon e, nella sua personale interpretazione del sogno americano, pensa sia molto importante truccare le cicatrici di Edward. E la piccola città è un concentrato di conformismo. Tanto che al primo equivoco la sorte di Edward, troppo diverso - anche perché troppo gentile d’animo - è segnata.
Unico regista capace di inventare un mondo totalmente fantastico seppure popolato da esseri umani, Tim Burton, in questo malinconico apologo sulla fatica di essere diverso, dispiega anche una dolente sensibilità. E nonostante la nascente love story tra la bionda fatina Winona Ryder e Edward il diverso fallisca per la cattiveria del mondo, Burton afferma in maniera convincente il potere della memoria, che resta ai buoni come estrema consolazione.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996