Orizzonti di gloria

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Un film di Stanley Kubrick. Con Ralph Meeker, Adolphe Menjou, Wayne Morris, Kirk Douglas, George Macready.
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Titolo originale Paths of Glory. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 86 min. - USA 1957. MYMONETRO Orizzonti di gloria * * * * - valutazione media: 4,41 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

La guerra come autodistruzione Valutazione 5 stelle su cinque

di WalterLeonardi


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venerdì 1 settembre 2017

 I "sentieri di gloria"  (come recita il verso di Thomas Gray che dà il titolo al film) del capolavoro di Kubrick sono quelli solcati sui brandelli di anima, sangue e carne che la guerra lascia sul suo cammino. Uscito nel 1957, ma proibito in Francia fino al 1975, il quarto lungometraggio del maestro newyorkese è il film che ne rivela il genio ed è anche l'opera che anticipa e compendia tutte le tematiche care al regista. L'assurdità della guerra è qui raccontata senza remore, con una ferocia antimilitarista rara nella storia del cinema, e con una crudezza di linguaggio e di immagine ancor oggi insuperata. Ma c'è qualcosa in più, nel film di Kubrick, che lo distingue e lo eleva al di sopra di qualsiasi altra pellicola di guerra. C'è, in particolare, la disamina crudele, desolante, delle dinamiche di classe, che per il regista sono il vero motore della strage. La guerra è, anzitutto, una pulsione autodistruttiva: la si combatte tra gente della stessa divisa, si alimenta delle schermaglie di casta tra ufficiali e semplici fanti, è logorante nelle parole, prima che nelle armi. Il nemico è solo menzionato, mai mostrato, perché a Kubrick non interessa raccontare lo scontro tra le nazioni, ma solo gli esiti violenti della follia e dell'ambizione umana. Nelle trincee francesi in cui si dispiega il racconto del film si muore, dunque, non più nel corpo al corpo con i tedeschi (irraggiungibili, per altro, e dunque assurti a effimera, metafisica controparte del fatto bellico), ma nelle corti marziali e davanti ai plotoni di esecuzione, tra soldati dall'uniforme del medesimo colore. La tragedia si consuma negli eleganti tribunali dove vengono allestiti processi fasulli e nei saloni da ballo dove danzano i generali, prima che nel fango e sul filo spinato dei campi di battaglia. Nell'amara elucubrazione che il film conduce sul lato oscuro dell'animo umano, dominano i personaggi più cinici e spietati del film: il generale Mireau, che organizza la disumana vendetta contro il proprio battaglione, dopo aver già tentato la strage durante l'attacco al "formicaio", ordinando al comandante dell'artiglieria di fare fuoco sulle proprie retrovie (un antesignano dell'indimenticabile generale Jack D. Ripper de "Il dottor Stranamore"), e il generale Broulard, che vede la guerra dall'alto della sua posizione privilegiata e lontana, e che contratta sul numero di soldati da fucilare come si trattasse di animali da mandare al macello. È nella definizione di questi due mefistofelici caratteri che il genio di Kubrick (e la sua proverbiale misantropia) tocca uno dei vertici drammatici della propria carriera. Di fronte ad essi, e alla durezza di un sistema di gerarchie, regole e convenzioni che appare invincibile e imperituro, la personale battaglia del colonnello Dax (un intenso Kirk Douglas) è destinata alla disperazione, e alla sconfitta. Il suo idealismo va incontro al fallimento annunciato, rimbalza contro i poteri costituiti, contro la burocrazia degli ordini, contro l'insensatezza delle stragi di stato giustificate dall'alibi del patriottismo, "l'ultimo rifugio delle canaglie". È un senso, quasi beckettiano, di assurdo, di grottesco, che domina, in questo amaro pamphlet pacifista. Assurdo è l'assalto al formicaio, vero suicidio di massa. Assurdo è il processo- farsa che viene imbastito dopo il fallito assalto. Grottesca, al limite con il ridicolo, l'esecuzione della condanna a morte dei tre soldati, con il milite Arnaud, gravemente ferito, legato al palo insieme alla barella dove è sdraiato, e svegliato a via di pizzicotti perché sia cosciente al momento della fucilazione. In questo mondo disumano, dove anche Dio sembra essere sparito (il prete che ipocritamente cerca di consolare i tre prigionieri è il primo ad annunciare la notizia della condanna), l'unica nota di umanissima pietas (peraltro rara nel cinema di Kubrick) si scorge soltanto alla fine, nel canto della ragazza tedesca all'osteria e nella commozione di tutti i soldati. Che diventano uomini, per la prima volta, al di là delle loro uniformi. Ma è una breve illusione.

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