Roberto Nepoti
La Repubblica
Un regista armeno (Charles Aznavour, simbolo internazionale dell'identità armena) gira un film sullo sterminio del suo popolo. Gli fa da consulente storica una specialista della pittura di Arshile Gorky, artista ossessionato dal massacro. Il figlio della donna, nonché assistente del regista, racconta la storia a un doganiere. Interpretando un crudele ufficiale, un attore turco scopre parecchie cose su se stesso.
Presentato a Cannes contemporaneamente alPianista, Ararat è un film altrettanto profondamente sentito dal proprio autore, ma che adotta una chiave di rappresentazione diametralmente opposta: dove Polanski sceglie il classicismo, Egoyan evoca il genocidio mediante una struttura narrativa a puzzle, ne affida la rappresentazione a un film nel film banalmente hollywoodiano; si concentra sugli esiti che il dramma storico proietta sulle esistenze individuali a distanza di molti decenni.
Peccato che il regista abbia dovuto aspettare e penare troppo prima di riuscire e realizzare quello che considerava il film della sua vita. Si sente che ci ha messo moltissimo di sé, di ciò che lo lega alle proprie origini armene, dell'orrore per le atroci violenze perpetrate dai turchi nel 1915: però il risultato è incerto, confuso, inferiore alle aspettative che il suo talento (Il dolce domani,Il viaggio di Felicia) legittimava.
Il problema è come Egoyan fa interferire tracce narrative disparate in un racconto a scatole cinesi troppo pieno di coincidenze e, insieme, d'incongruenze. Viaggiando tra presente e passato, realtà e finzione, Ararat ottiene un effetto ai limiti dell'imbarazzo: se i brani di film al secondo grado hanno l'aspetto di un mélo retorico e manicheo (turchi uguale bestie sanguinarie) il "film vero" che li contiene non pare riuscito molto meglio e sconta l'artificiosità in cui incorre, spesso, chi vuole dire troppe cose in una volta sola.
Da La Repubblica, 26 aprile 2003
di Roberto Nepoti, 26 aprile 2003