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il sindacato che fa la storia (sua) Valutazione 3 stelle su cinque

di angelo umana


Feedback: 110710 | altri commenti e recensioni di angelo umana
giovedì 10 novembre 2016

 Un film per discutere, sul mondo del lavoro dipendente, sui consigli di fabbrica e le interminabili discussioni, i sindacati, i diritti dei lavoratori, i drammi e le esigenze personali. Tratto da un fatto verificatosi in una ditta francese qualche anno fa. Michele Placido lesse la versione del testo teatrale di Stefano Massini e ne ha fatto un film. La vivida e vitale Ottavia Piccolo – presente alla proiezione al Giorgione di Venezia il 7/11 - era la protagonista in teatro e lo è anche nel film, come prima rappresentante delle undici che compongono il consiglio di fabbrica. Un gruppo francese compra l’azienda italiana di 300 dipendenti donne e, assicurando il lavoro a tutte, propone di rinunciare a 7’ della pausa pranzo.

 
Innegabile il valore di testimonianza del film e delle attrici coinvolte (tutte in gambissima e calate nella parte, un profluvio di bei nomi ma … come sono lontani i loro redditi da quelli delle operaie che impersonano), l’interpretazione drammatica e esemplificativa dei punti di vista di donne diverse - le 11 del consiglio di fabbrica - le dispute che scatena la proposta della nuova proprietà, i punti di vista di donne diverse, alcune giovani altre più anziane, italiane e immigrate, provenienti da esperienze e problemi familiari veriegati. Per alcune non può fare alcun male rinunciare a 7 minuti di pausa, purché il lavoro resti: una del consiglio di fabbrica telefona la notizia alle dipendenti che sono fuori dalla fabbrica e per queste è festa grande, balli e suoni, i reporter televisivi a coprire l’evento e annunciare la buona novella. Il prezzo da pagare sono solo quei 7 minuti di riduzione della pausa: per alcune sono irrilevanti, per aver un lavoro purché sia, una immigrata dice che al suo paese una pausa non sapeva nemmeno cosa fosse, che un panino lo mangerebbe con una mano e con l’altra continuerebbe a lavorare. Un’altra, che per arrotondare chiede il cibo in parrocchia, non vorrebbe nemmeno discuterne. 
 
Il dubbio su cosa quella rinuncia potrebbe rappresentare è instillato dall’anziana Bianca (Ottavia), la rappresentante del consiglio: anni prima la pausa durava 60 minuti, poi ridotta a 30 e poi a 15. Lei è memore di lotte sindacali, sostiene che quella rinuncia, apparentemente piccola, potrebbe preludere ad altre e più gravi rinunce, alla schiavitù prossima ventura. Quei 7 minuti, dal loro computo, porterebbero alla proprietà 900 ore mensili in più di lavoro, pari alla prestazione di cinque-sei lavoratrici in più, senza assumerle. E, come è avvenuto nel passato, si sostiene che quella lotta può rappresentare un punto di forza per altre aziende che potrebbero trovarsi di fronte ad altre scelte-ricatti: il sindacato che fa la storia. Ma non crea posti di lavoro, al massimo li conserva!
 
La classe operaia però, forse, non và più in paradiso e un sindacalista come Bertinotti non finirebbe oggi, speriamo, a concludere la sua carriera come presidente della Camera e poi conferenziere a Cortina, la R alla francese in ciò lo aiuta (non che una ubbidiente ed enunciativa Boldrini sia molto meglio …), ed ex sindacalisti non diventeranno più – si spera - così facilmente parlamentari o presidenti di enti inutili. Nemmeno un Luciano Lama affermerebbe più che “il costo del lavoro è una variabile indipendente”: oggi una votazione sulla rinuncia ai 7 minuti si farebbe online con tutte le 300 dipendenti, un posto di lavoro può avere un  significato diverso per ognuna di quelle e la decisione non sarebbe più – o non dovrebbe essere - appannaggio di un consiglio di fabbrica, dove alcuni membri pensano ancora a principi e ra”gggg”ionamenti retaggio del passato, alcuni altri invece danno a quel posto un valore del tutto personale. Sarà per queste battaglie sindacali che abbiamo il 12% di disoccupati (il 40% tra i giovani)? Eppure un sindacalista non s’è mai aperto una botteghetta per farla prosperare. Saprebbe farlo?

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