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                Sinceramente il messaggio del film non mi è molto chiaro. Ho provato a capirci qualcosa leggendo i commenti e attraverso la lettura delle diverse esegesi dell’opera in questione, ma non mi hanno del tutto convinto. 
Allora, provo a farmene una ragione citando per cominciare  l’intervento sul palco di Brian (“eroe per caso”) chiamato a commemorare la morte del sindaco trucidato dallo sceriffo che mi sembra emblematico di tutto l’andazzo del film forse, e lo menziono a mo’ di sineddoche come direbbero quelli bravi: ”Era una persona di colore che è riuscita a diventare una persona di potere  ed è stata uccisa da quello stesso sistema e persino l'assassino né è una vittima. Anch'io ne faccio parte sono solo l'ennesimo ragazzo bianco privilegiato e il mio compito è sedermi e ascoltare… che è quello che farò dopo aver fatto questo discorso che non ho nessunissimo diritto di fare. Questa veglia si sta svolgendo su una terra rubata”. 
Questo breve discorso è la sintesi “horror” e molto discutibile di tutto il film. Brian come il regista Aster che forse “non aveva nessunissimo diritto di fare questo film?” 
Insomma, mi pare che dal film trapeli l’idea che “siamo tutti colpevoli e responsabili di questo sistema infernale. Non si salva nessuno! Ok, e dunque? 
E dunque, che fa il regista? Fa di tutta l'erba un fascio (perché di tutto questo eccesso di generalizzazione sono proprio i fasci a beneficiarne, ultimamente, almeno): prende materie diverse e lascia che si sfidino all’«Ok Corral». Inutile stare qui a snocciolare i temi rappresentati perché già ampiamente trattati. 
Aster che si dà arie da intellettuale fa qualcosa che non è da vero intellettuale: si limita ad osservare dalla cabina di regia questi  umani pazzi che si scannano tra loro. Egli non giudica, non distingue ciò che è bene e ciò che è male. I personaggi si muovono in questo mondo con assoluta scioltezza, tutto ciò che fanno è normale.  Ma mi piacerebbe chiedere all’intellettuale regista: come possiamo progredire se il massimo dell’azione che ci è concessa è osservare l’azione stessa? Come si può aspirare ad un cambiamento reale se ti limiti unicamente a descrivere ciò che accade? Perché questo fa il regista a ben guardare. 
E allora la globalizzazione, il libero mercato, l’immigrazione, i vaccini l’ossessione per i complotti, i moti antirazzisti e l’onnipresenza dei social, i no-vax e i fautori della mascherina, le multinazionali che sfruttano uomini e territori, ecc ecc,  tutto finisce fatalmente in un unico indistinto calderone. Ma non tutto è equiparabile, seppure nel caos. Ci sono verità che sono più vere di altre, mettiamola così. Altrimenti, è la paralisi, è lo stallo perpetuo. Forse l’intenzione era quella di obbligare quasi lo spettatore a vedere l’Altro non poi così diverso da sé. In un sussulto di comprensione estrema reciproca  liberal e maga diventano uguali, dunque? Tutti complici della tossicità di questo mondo. Senza voler fare di certi “individui” il capro espiatorio di quest’inferno, dobbiamo pur rimarcare che tutto sommato non è propriamente vero che “tutti siamo colpevoli allo stesso modo”. Ci sono pur sempre diversi gradi di responsabilità. Certo è inutile negare che nella società civile avanzata quella del politicamente corretto e del sostegno ai diritti civili persistono pur sempre - interessi diversi e contrastanti, se non effettivamente discriminatori che sono legati alla proprietà, all’educazione, al lavoro, al genere, all’etnia. E tuttavia, sussistono ancora delle differenze. Non è che se i liberal hanno fallito uno diventa fascista o trumpista automaticamente. E a trump non si può dare oggettivamente il nobel per la pace. Ma non si rende conto il regista intellettuale a quale paradosso perverso porta la sua visione del mondo? È davvero così rassegnato il nostro ggggiovane cineasta? 
Insomma, mi pare che il qualunquismo sia il biglietto da visita di questo Aster in versione cinica. Adesso la butto lì: “Aster gioca a fare l’Auster del cinema gggiovane”. Ma gli manca più di una “u” per emulare nel cinema ciò che l’illustre scrittore e intellettuale fu per la letteratura. Perché Aster altrimenti saprebbe che un intellettuale vero non si ferma alla speculazione cinematografica, non si limita banalmente a descrivere l’esistente, ma prende una posizione, una qualsiasi ma che alla fine sfocia in una forma di impegno sociale e politico, giusto o sbagliato che sia, che poi risuonerà o no nel pubblico che assiste davanti ad uno schermo. 
Aster ammassa, invece, un insieme confuso di interrogativi tra loro molto diversi spiattellandoli alla platea degli spettatori e senza adombrare la benché minima risposta. Niente di male! Non è che il cinema o un intellettuale sono chiamati per forza a dare risposte. Ma è proprio il suo modo di impostare la questione che impedisce di trovare soluzioni adeguate, comunque. L’autore vuole forse rimanere neutrale per non condizionare il giudizio dello spettatore medio? O è soltanto un cinico che trova più comodo tenersi alla larga dall’agone politico e sociale e per non scontentare nessuno? Il suo forse è soltanto un esercizio filmico mal riuscito? Secondo me, Aster vuole scimmiottare I “Daniels. Ma gli riesce malissimo. Ve lo ricordate “Swiss Army Man - Un amico multiuso?” Anche qui si impiegava una composizione di generi cinematografici e insieme di contenuti” molto distinti, accostati (impropriamente quanto si vuole) gli uni agli altri. E tuttavia, in quel contesto l'uso di effetti stilistici cinematografici contrastanti conferiva il giusto rilievo alle varie argomentazioni trattate. E il vagabondo del film di Aster forse ha la stessa funzione che la “flatulenza” rivestiva nel film dei Daniels, cioè quella di contribuire ad esaltare questi contrasti di stili e argomentazioni composite? Ma in “S.A.M”. i Daniels prendevano posizione e non si limitavano a prendere atto dell’esistente, mi pare. Quello era un film tutto sommato “verista” pur nella sua surrealtà. Invece, più che essere il “simbolo del caos individuale e del disordine mentale e sociale”, il vagabondo “mi puzza” e basta e ci lascia soltanto la nauseabonda sensazione dell’untore ubriaco che appesta l’umanità con tutti i suoi coronavirus mortali. Quello che Aster propone qui si limita al falso realismo e al superficiale scetticismo, semmai. 
Tutti quelli che muoiono o che ammazzano nel film sono simboli che a loro modo compiono o sono o vorrebbero essere vittime di un atto di giustizia. Ma di quale giustizia? Ognuno qui ha la sua di giustizia, ugualmente dignitosa a dire del regista, e la porta avanti fregandosene bellamente delle conseguenze. Forse il regista attraverso questa morte di simboli voleva far luce sulla “generalizzata forza sociale” che fa da sfondo alla morte ingiustificata e all’ingiustizia collettiva? Insomma lo sceriffo e il sindaco sembrerebbero diventare le due facce di una stessa medaglia il cui presupposto è che non esiste la realtà in sé, ma soltanto l’interpretazione, più o meno emotiva, che ne facciamo in base ai nostri interessi particolari per niente nobili o alle nostre idee preconfezionate o maturate da lì a poco sotto l’influenza di furbi imbonitori. Insomma, non condivido la filosofia cinematografica agnostica del regista. Preferisco ricordarmelo attraverso Midsommar dove il suo orizzonte è circoscritto all’amore seppure trattato con un orrore non privo di ironia. 
 
             
            
            
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