jonnylogan
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domenica 11 aprile 2021
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traditori si nasce?
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Nel 1968 William O’Neal, un ventenne di Chicago, viene arrestato per aver rubato un’auto ed essersi spacciato per un agente dell’FBI. Per evitare il carcere William dovrà avvicinare Fred Hampton, presidente della sezione di Chicago del movimento Black Panther e fornire all’FBI tutte le informazioni necessarie allo smantellamento dell’organizzazione. Una volta avvicinatosi a Hampton William ne diviene amico fino a essere nominato a capo della sicurezza della sede Black Panther di Chicago.
Il quarantunenne Shaka King, arrivato al suo secondo lungometraggio dopo Newlyweeds presentato al Sundance nel 2013, porta sul grande schermo una storia di stretta attualità e al tempo stesso dimenticata in una passato sufficientemente distante.
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Nel 1968 William O’Neal, un ventenne di Chicago, viene arrestato per aver rubato un’auto ed essersi spacciato per un agente dell’FBI. Per evitare il carcere William dovrà avvicinare Fred Hampton, presidente della sezione di Chicago del movimento Black Panther e fornire all’FBI tutte le informazioni necessarie allo smantellamento dell’organizzazione. Una volta avvicinatosi a Hampton William ne diviene amico fino a essere nominato a capo della sicurezza della sede Black Panther di Chicago.
Il quarantunenne Shaka King, arrivato al suo secondo lungometraggio dopo Newlyweeds presentato al Sundance nel 2013, porta sul grande schermo una storia di stretta attualità e al tempo stesso dimenticata in una passato sufficientemente distante. Sulle ultime curve dei non troppo dorati ‘60ies, almeno per gli abitanti dello sterminato ghetto di Southside Chicago, il ventenne William O’ Neal, un eccellente Lakeith Stanfield, ladro di auto e millantatore di falsa identità, viene costretto dall’agente FBI Roy Mitchell, il caratterista Jesse Plemons, protagonista di numerose serie TV fra cui la pluripremiata Breaking Bad, a infiltrarsi nella più sovversiva fra le varie associazioni che all’epoca solcavano il mare magnum USA, le Pantere Nere. Ideologi della fede marxista e della ribellione armata non solo per le persone di colore ma di tutti gli oppressi dal potere capitalistico, non necessariamente bianco. William avvicinandosi al leader delle Pantere Fred Hampton, curiosamente già fra i protagonisti di Black Panther, cinecomics Marvel del 2018, inizia a condividerne idee, ideali di libertà e lotta armata, ma al tempo stesso senza mai dimenticarsi la ragione per la quale era stato coinvolto in una vicenda molto più grande di lui.
King dipinge in maniera accurata e solo parzialmente romanzata le vicende che riguardarono l’attività politica di Hampton e di come venne avvicinato da Wild Bill e da quest’ultimo tradito, in un continuo rimando cinematografico che parte dal proprio mentore Spike Lee, conosciuto in un corso di sceneggiatura al college, con chiari riferimenti al suo BlackKklansman, del quale questo lungometraggio potrebbe essere la copia al negativo, e The Departed di Martin Scorsese, con il quale divide la presenza di un Martin Sheen, qui nei panni irriconoscibili del capo dell’FBI J. Edgar Hoover.
Film che alla fine riesce a ripotare a galla una storia in parte dimenticata e a far riflettere lasciandosi ammirare per tutta la sua durata, non riuscendo però a sciogliere quei dubbi che da più di cinque decadi attanagliano il ricordo di uno fra i leader maggiormente controversi del più importante movimento politico di colore a stelle e strisce.
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felicity
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lunedì 15 novembre 2021
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le pantere nere e il loro capo più carismatico
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Judas and the Black Messiah, candidato a cinque premi Oscar (nomination più prestigiosa, quella per il Miglior film, compresa),ovvero il lavoro su Fred Hampton, leader delle Pantere Nere, rappresenta perfettamente la fatica che continua a fare il cinema a trattare la cultura afroamericana.
Quando è uscito Black Panther ed è stato un successo, si è detto che la sua importanza e la sua influenza sarebbero andate ben oltre il cinema di supereroi. Ora non è più una teoria, bensì una certezza. Judas and the Black Messiah, un lavoro di alto profilo prodotto da una major come la Warner che mette in scena una storia americana quasi mai raccontata prima, è proprio figlio di Black Panther.
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Judas and the Black Messiah, candidato a cinque premi Oscar (nomination più prestigiosa, quella per il Miglior film, compresa),ovvero il lavoro su Fred Hampton, leader delle Pantere Nere, rappresenta perfettamente la fatica che continua a fare il cinema a trattare la cultura afroamericana.
Quando è uscito Black Panther ed è stato un successo, si è detto che la sua importanza e la sua influenza sarebbero andate ben oltre il cinema di supereroi. Ora non è più una teoria, bensì una certezza. Judas and the Black Messiah, un lavoro di alto profilo prodotto da una major come la Warner che mette in scena una storia americana quasi mai raccontata prima, è proprio figlio di Black Panther. E, ironia della sorte, parla di Pantere Nere, quelle vere, il movimento armato e rivoluzionario che si è battuto – e in forme diverse ancora si batte – per i diritti degli afroamericani.
Judas and the Black Messiah è, più precisamente, il racconto del suo capo più importante e carismatico, Fred Hampton, assassinato dall’FBI perché considerato pericoloso. Un leader afroamericano ucciso dalle forze dell’ordine che diventa un simbolo: niente di più attuale.
Eppure, in pochi volevano produrre il film, nonostante metà del budget necessario fosse già pronto e messo a disposizione dalla società di Ryan Coogler (per l’appunto il regista di Black Panther) e nonostante lo stesso Coogler facesse da promotore della pellicola a Hollywood.
“Aver fatto così tanta fatica, con il regista di Black Panther a bordo, una storia simile e quasi metà del budget già pronto, la dice lunga sullo sforzo necessario a voler produrre storie davvero afroamericane a Hollywood”, è la maniera in cui la mette Charles King, uno dei molti produttori originali.
Il fatto è che raccontare le Pantere Nere non come nemici dello Stato, ma tutto il contrario, è una rivoluzione.
Il partito, il suo atteggiamento e soprattutto la scelta di usare la violenza sono sempre state viste al cinema come qualcosa di negativo, da cui prendere le distanze.
Judas and the Black Messiah ha ricevuto diverse nomination agli Oscar, tra cui gli attori non protagonisti, la canzone, la sceneggiatura, la fotografia e quella più importante al Miglior film. È il primo a produzione interamente afroamericana (cioè tra i cui produttori non ci sono bianchi) a ricevere quella candidatura in 93 anni di storia del premio. Non solo, ha anche battuto il record detenuto da Il colore viola per il maggior numero di afroamericani nominati. E quello era diretto da Steven Spielberg.
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paolp78
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venerdì 3 giugno 2022
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traditori ed eroi … secondo l’etica moderna
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Pellicola che segue la tendenza hollywoodiana del ventunesimo secolo di celebrare e rivalutare le battaglie per i diritti civili delle minoranze etniche negli Stati Uniti, in particolare degli afro-americani: sono operazioni sicuramente lodevoli negli intenti, ma che talvolta portano a risultati ben poco condivisibili, in primo luogo sul piano della ricostruzione storica.
In questo caso il regista Shaka King sceglie una narrazione davvero troppo schierata e partigiana, tanto da ridimensionare inaccettabilmente la matrice sovversiva dell’azione delle “Pantere nere”, che non viene fatta oggetto della benché minima nota di biasimo. Viceversa è criminalizzato l’uso della violenza da parte della polizia, nonostante che nella stessa pellicola si mostri come fosse in atto una lotta armata, con scontri a fuoco in cui a rimetterci la vita erano anche i tutori dell’ordine (ma sembra quasi che quando a morire è un poliziotto, non conti … alla faccia del “black lives matter” dei nostri giorni).
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Pellicola che segue la tendenza hollywoodiana del ventunesimo secolo di celebrare e rivalutare le battaglie per i diritti civili delle minoranze etniche negli Stati Uniti, in particolare degli afro-americani: sono operazioni sicuramente lodevoli negli intenti, ma che talvolta portano a risultati ben poco condivisibili, in primo luogo sul piano della ricostruzione storica.
In questo caso il regista Shaka King sceglie una narrazione davvero troppo schierata e partigiana, tanto da ridimensionare inaccettabilmente la matrice sovversiva dell’azione delle “Pantere nere”, che non viene fatta oggetto della benché minima nota di biasimo. Viceversa è criminalizzato l’uso della violenza da parte della polizia, nonostante che nella stessa pellicola si mostri come fosse in atto una lotta armata, con scontri a fuoco in cui a rimetterci la vita erano anche i tutori dell’ordine (ma sembra quasi che quando a morire è un poliziotto, non conti … alla faccia del “black lives matter” dei nostri giorni).
In questa ricostruzione faziosa della storia americana della seconda metà del secolo scorso, si innestano le vicende dei due protagonisti: da una parte il capo delle “Pantere nere”, dipinto come un’eroico condottiero del suo popolo ed un martire senza macchia e senza colpa; dall’altra il traditore, che seppur combattuto e ferito dai sensi di colpa, resta un infame e pertanto merita solo disprezzo.
Fa riflettere la condanna spietata del traditore, che nella narrazione fortemente ideologizzata della pellicola ha la colpa inemendabile di avere tradito un leader fortemente idealizzato, come si evince dal bel titolo dell’opera.
Ben diverso come altre pellicole avevano descritto le dinamiche del tradimento seguendo narrazioni molto più leggere, poetiche ed al contempo profonde, ritraenti tratti umani emozionanti, come nell’impareggiabile capolavoro di John Ford “Il traditore”.
Troppi i tempi morti, soprattutto dovuti ad uno sforzo palese di voler rendere il lato umano degli appartenenti all’organizzazione rivoluzionaria.
Buona la prova dei due protagonisti Lakeith Stanfield e Daniel Kaluuya, che inspiegabilmente alla notte degli Oscar vennero entrambi inseriti nella categoria “attore non protagonista”, tanto che viene da chiedersi chi fosse allora il personaggio principale del film. Per la cronaca Kaluuya riuscì almeno ad aggiudicarsi la statuetta.
Tra gli altri interpreti si ricordano Dominique Fishback, nel ruolo femminile di maggiore rilievo, Martin Sheen nella parte dell’ormai sempre vituperatissimo J. Edgar Hoover, e Jesse Plemons che anch’egli, essendo un bianco, deve ricoprire un ruolo alquanto negativo.
Risucita la ricostruzione dell’America del tempo, dall’abbigliamento agli ambienti.
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