padpaz
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martedì 2 aprile 2013
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l'amore ai tempi di skype
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“Io sono un occhio. Un occhio meccanico in costante movimento”. La frase è del regista russo Dziga Vertov, ma potrebbe anche essere di uno dei protagonisti di Aquadro, Alberto (Lorenzo Colombi), “l’uomo con il cellulare”, evoluzione moderna dell’uomo vertoviano, che filma e fotografa tutto ciò che gli sta intorno: tra cui Amanda (Maria Vittoria Barrella), la ragazza bionda che gioca a hockey, la ragazza con il cappello a forma di panda che vede ogni mattina andando a scuola, e di cui spesso incrocia lo sguardo. Distribuito gratuitamente sulla piattaforma web di Cubovision, Aquadro è una storia d’amore e non è solo una storia d’amore.
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“Io sono un occhio. Un occhio meccanico in costante movimento”. La frase è del regista russo Dziga Vertov, ma potrebbe anche essere di uno dei protagonisti di Aquadro, Alberto (Lorenzo Colombi), “l’uomo con il cellulare”, evoluzione moderna dell’uomo vertoviano, che filma e fotografa tutto ciò che gli sta intorno: tra cui Amanda (Maria Vittoria Barrella), la ragazza bionda che gioca a hockey, la ragazza con il cappello a forma di panda che vede ogni mattina andando a scuola, e di cui spesso incrocia lo sguardo. Distribuito gratuitamente sulla piattaforma web di Cubovision, Aquadro è una storia d’amore e non è solo una storia d’amore. Aquadro parla del potere ambiguo dell’immagine, parla della linea d’ombra dell’adolescenza moderna, parla del sesso ai tempi di Skype. Aquadro parla anche d’amore, ma non quello elevato sopra il cielo: l’amore al piano terra, reale in quanto imperfetto, impacciato e balbettante. Aquadro parla del mondo virtuale affondando le radici nella realtà: la sceneggiatura di Lodovichi e Orsini (premio Solinas Experimenta 2011 e Mattador 2011-12) mette sullo schermo un mondo vero, non ricostruito in casa ma studiato sul campo, riportandone senza forzature o moralismi le parole, i gesti e gli sguardi: una precisione che avrebbe fatto apprezzare l’opera dell’esordiente Lodovichi anche ai “pedinatori” neorealisti. Alberto si muove tra le macerie del reale, cercando attraverso un fotogramma, uno scatto, di cogliere il suo significato, e quello della propria vita: solo l’immagine digitale può trovare la verità tra le maglie rotte dell’esistenza. Ma l’immagine non rende immortale l’attimo, lo imbalsama, svuotandolo di significato: l’attimo riprodotto non è altro che un’immagine morta, cadavere dell’attimo reale ora alla mercè dello sguardo di tutti. “Puntare una cinepresa è come puntare un fucile e ogni volta che la puntavo mi sembrava come se la vita si prosciugasse dalle cose” diceva il regista Monroe nel film di Wenders Lisbon Story. Alberto e Amanda sottovalutano il potere dell’immagine, l’ambiguo lato oscuro dello schermo che può fare da genitore, che ti può insegnare a mettere un’assorbente, a cucinare o a far crescere una pianta da un seme di avocado, ma può anche rovinare una vita rivelandone i suoi più intimi segreti. Come Truffaut ne I 400 colpi, il regista Lodovichi non ci mostra gli adulti, elementi estranei a una tragedia di “digitalizzazione della realtà” a cui non partecipano, e che non possono realmente capire. Aquadro arriva a mostrarci la bellezza dell’imperfezione, la meraviglia dell’incompiutezza umana, della sua goffaggine, del suo maldestro e insicuro passo sulla Terra, più reale e vero della fredda perfezione virtuale. Grazie anche all’ottima recitazione dei suoi protagonisti e alla sensibilità di una troupe giovane ma matura, oltre che dalla “fotografia di confine” di Maier, fredda e drammatica, che si sposa alla malinconica colonna sonora firmata dal gruppo bolzanino “Sense of Akasha”, veniamo accompagnati nel campo minato della vita dei due protagonisti, e tra finte riprese amatoriali e in oggettiva, c’immergiamo nella storia fino a venirne risucchiati. E dimenticandoci per un un’ora e mezza di stare anche noi di fronte a uno schermo.
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edivad84
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lunedì 8 aprile 2013
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amore 2.0
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Alberto e Amanda sono due ragazzini che non sanno niente dell’amore e, partendo da qualcosa che la società reputa “sbagliato”, “malsano” (come una visione distorta della sessualità, visto che Alberto si relaziona al sesso solo tramite computer e chat erotiche), riescono a creare qualcosa di bello, unico. Riescono ad amarsi con la purezza di sguardo e azione che noi adulti non abbiamo. Anche la perversione diventa atto d’amore, di armonia, di condivisione di un piacere e di un sentimento. Tuttavia quando i giochi proibiti tra loro vengono scoperti, ecco che la gente non vede più l’amore, ma il sesso, ecco che tutti, anche chi era loro amico, si fa contagiare dal senso comune e si eleva a giudice, anche a costo di distruggere l’altra persona.
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Alberto e Amanda sono due ragazzini che non sanno niente dell’amore e, partendo da qualcosa che la società reputa “sbagliato”, “malsano” (come una visione distorta della sessualità, visto che Alberto si relaziona al sesso solo tramite computer e chat erotiche), riescono a creare qualcosa di bello, unico. Riescono ad amarsi con la purezza di sguardo e azione che noi adulti non abbiamo. Anche la perversione diventa atto d’amore, di armonia, di condivisione di un piacere e di un sentimento. Tuttavia quando i giochi proibiti tra loro vengono scoperti, ecco che la gente non vede più l’amore, ma il sesso, ecco che tutti, anche chi era loro amico, si fa contagiare dal senso comune e si eleva a giudice, anche a costo di distruggere l’altra persona. Alberto e Amanda si amano e lottano, soli contro il mondo, contro un terremoto di regole morali certamente non scritte da loro. Sono l’incarnazione di un’intera generazione che impara l’amore attraverso il web, ma allo stesso tempo sono unici, perché vivono pienamente un sentimento che i loro stessi coetanei non riescono a comprendere e tanto meno a vivere.
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brunozucchermaglio
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lunedì 20 febbraio 2017
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amare online e crisi comunicazionale
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La vera crisi che l’Occidente sta attraversando non è tanto quella economico-finanziario, come si crede, bensì quella comunicazionale.
L’ormai noto paradosso che il mondo a nord della famigerata linea di Brandt sta vivendo è infatti quello di una società in cui i mezzi di comunicazione sono alla portata di tutti, agilmente accessibili e fruibili, invadenti e ubiquitari come nemmeno l’Orwell del “1984” aveva osato immaginare, dunque con una potenzialità comunicativa prossima all’eccesso che si risolve però in incapacità di percepirsi in presenza, di guardarsi negli occhi, semplicemente di parlare con chi ci sta accanto e ci sfiora.
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La vera crisi che l’Occidente sta attraversando non è tanto quella economico-finanziario, come si crede, bensì quella comunicazionale.
L’ormai noto paradosso che il mondo a nord della famigerata linea di Brandt sta vivendo è infatti quello di una società in cui i mezzi di comunicazione sono alla portata di tutti, agilmente accessibili e fruibili, invadenti e ubiquitari come nemmeno l’Orwell del “1984” aveva osato immaginare, dunque con una potenzialità comunicativa prossima all’eccesso che si risolve però in incapacità di percepirsi in presenza, di guardarsi negli occhi, semplicemente di parlare con chi ci sta accanto e ci sfiora.
Con la fresca immediatezza di un giovane regista toscano, che ha diretto un cast di ragazzi altrettanto “veri”, “Aquadro” racconta la storia di due adolescenti di Bolzano che non riescono a vivere la loro storia d’amore come una volta erano le storie d’amore dei “liceali”.
I “liceali”, oggi, vivono infatti costantemente on line, pedissequamente collegati con social network, tramite skype, chat, email , webcam, sms e, quando non sono collegati in rete con un pc o un tablet, a fatica riescono a non filtrare la realtà che si palesa davanti a loro con un qualche apparecchio come la foto o la videocamera di un telefonino che la media, la filtra, appunto, distanziandola da loro stessi in modo tale da renderla più facilmente gestibile. Reificata, trasformata in immagine da codificare e maneggiare su un tablet o sul desktop di un portatile, l’immagine della propria ragazza diventa meno difficile da “maneggiare” di quanto invece lo sia una persona reale e realmente contestualizzata nel mondo vero che fa sempre più paura.
Il film, che è uscito su cubovision in streaming la scorsa primavera e che ora è disponibile su raicinemachannel, è realizzato sena sbavature e senza falsi pudori e non a caso è ambientato nella più nordica delle città italiane, Bolzano, che si colloca nella tradizione mittel-nordeuropea della filmografia dedicata al mondo dei giovani che in Italia fa invece da sempre fatica a trovare un suo pubblico.
Il regista è molto bravo a dirigere i giovani attori che si distinguono per la loro capacità a recitare in modo mai al di sopra delle righe e sempre con la piena consapevolezza del loro ruolo. In particolare i due protagonisti, interpretati da Lorenzo Colombi e da Maria Vittoria Barrella, sono veri e autentici senza nessuna ammaccatura o imperfezione, e chiunque abbia avuto a che fare con un attore e ancor più con un giovane attore privo o con poca esperienza sa quanto ciò non sia scontato.
Lorenzo Colombi è bravissimo nel suo difficile ruolo di adolescente sfigato che sfigato non è, che dietro quel suo volto apparentemente imperturbabile di outsider o di ragazzo timido, introverso e “diverso”, incarna in realtà la “normalità” dell’oggi ovvero il fatto che la vita pare sempre più dover essere vissuta in rete, on demand, accalappiata nella ragnatela della percezione multimediale, tanto online quanto offline.
Non è da meno Maria Vittoria Barrella che interpreta invece il ruolo di una adolescente sì inserita nella datità multimediale della quotidianità adolescenziale postmoderna, ma non al punto da perdere la concreta freschezza della sua giovinezza ancorata al mito del primo amore e della prima volta, anche se con tutte le pertinentizzazioni e dunque le evoluzioni che dal secolo scorso ad oggi tale mito ha inevitabilmente subìto.
Abbiamo un Papa che dispensa le sue benedizioni via social network ma che poi si tuffa dietro le quinte fra la gente scavalcando le transenne per toccare ogni fedele con mano e per parlargli guardandolo negli occhi. Lo fa, Papa Francesco, perché probabilmente ha compreso la difficoltà della comunicazione vis-a-vis che attanaglia le società postindustriali in cui ad essere virtuali non sono solo le operazioni finanziarie che infatti prima o poi si afflosciano come castelli di carta sgualcita, ma anche le relazioni diadiche, triadiche, di gruppo, di quelle che una volta erano le comitive e le bande di amici.
“Aquadro” è un bell’esempio di buon cinema, semplice, posato, misurato ma al tempo stesso senza peli sulla lingua e senza miniature né dunque manierismi d’ogni sorta.
Un bell’auspicio, e un augurio, ovvero che, chissà, forse il nuovo e promettente cinema italiano può ripartire da una terra quasi non-italiana ma così profondamente mitteleuropea qual è (o dovrebbe essere) l’Alto Adige.
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