dogen
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domenica 14 febbraio 2010
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quando la vita è poesia
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Ci sono alcuni film (rarissimi purtroppo) tanto complessi, articolati che ritengo, da parte mia, non recensibili, perché so di non essere capace di espimere tutto ciò che il film esprime. Perderei particolari, rimandi, sfumature, sensi e sottosenti. Quindi avevo deciso di non recensire "Un prophete". Poi col tempo tutti i ricordi si essenzializzano, così anche i film. Con il distacco dato dalle settimane passate dalla visione, posso ora parlarne, sapendo di non essere esaustivo, ma senza più il senso di fare qualcosa di sbagliato. Premessa troppo lunga, per chi vuole semplicemente sapere com'è un film, però forse già questa premessa vi ha detto qualcosa.
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Ci sono alcuni film (rarissimi purtroppo) tanto complessi, articolati che ritengo, da parte mia, non recensibili, perché so di non essere capace di espimere tutto ciò che il film esprime. Perderei particolari, rimandi, sfumature, sensi e sottosenti. Quindi avevo deciso di non recensire "Un prophete". Poi col tempo tutti i ricordi si essenzializzano, così anche i film. Con il distacco dato dalle settimane passate dalla visione, posso ora parlarne, sapendo di non essere esaustivo, ma senza più il senso di fare qualcosa di sbagliato. Premessa troppo lunga, per chi vuole semplicemente sapere com'è un film, però forse già questa premessa vi ha detto qualcosa.
Un prophete è un film stupendo. Non v'è sbavatura, nessuna caduta di stile, nessun cedimento registico, niente di troppo né troppo poco. Reale quanto deve esserlo. Amorale come è giusto che sia un film che vuole solo rappresentare un'odissea umana senza nulla aggiungere né togliere a quello che già è.
La storia è di un giovane arabo che sconta sei anni in un carcere francese. È l'apologia di un essere umano solo, in un sistema che non si limita ad ignorarlo ma lo sfrutta con disumanità. Non c'è giustizia in questo luogo. L'uomo è sottoposto alle più atroci scelte e situazioni. L'uomo che non è mai né cattivo né buono ma solo umano. Così emergerà e sopravviverà adattandosi ad ogni contesto. Soffrendo e introiettando le regole che governano la realtà che lo circonda. Tenendosi vicine le colpe come fantasmi contro la solitudine, riconoscendo l'amicizia quando arriva e schierandosi dalla parte giusta al momento giusto. E riuscendo, forse, a non vendere la propria l'anima.
Un film che travalica i generi. Riduttivo è dargli un'etichetta.
La prova i Tahar Rahim è semplicemente perfetta. Raramente al cinema ho visto volti tanto umani da sembrare perfettamente veri.
Il regista osserva quanto accade, non giudica, non svela, non fornisce soluzioni. Fa solo una splendida fotografia del carcere in cui viviamo.
Con questo film, insieme al bellissimo "Welcome", a parer mio, la Francia si conferma (insieme ad una certa Inghilterra) vera portavoce della realtà dell'immigrazione nei nostri paesi ricchi. Sembra l'unico occho capare davvero di cogliere il senso dei continui incontri-scontri che avvengono nelle nostre città.
Sarebbe stato bello vedere, su questa locandina, la promozione di Quentin Tarantino, invece che darlo a tante boiate senza spessore, tanto per farci sapere che anche se nel fare è un po' confuso, almeno a vedere è ancora capace.
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laulilla
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sabato 27 marzo 2010
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le prigioni di malik
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Di Malik sappiamo pochissime cose: è un franco-marocchino diciannovenne, che, senza genitori, senza istruzione e senza radici, si trova nelle ideali condizioni per approdare, alla prima occasione, al carcere, dove appunto lo troviamo fin dall'inizio del film, condannato a sei anni di reclusione. La struttura che lo ospita non è tra le peggiori: vi funziona una scuola, i detenuti possono vedere i loro avvocati, le celle sono un po' squallide, ma per buona condotta ogni prigioniero può godere di sistemazioni più confortevoli, con tanto di frigorifero e televisore, nonché di un regime di semilibertà.
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Di Malik sappiamo pochissime cose: è un franco-marocchino diciannovenne, che, senza genitori, senza istruzione e senza radici, si trova nelle ideali condizioni per approdare, alla prima occasione, al carcere, dove appunto lo troviamo fin dall'inizio del film, condannato a sei anni di reclusione. La struttura che lo ospita non è tra le peggiori: vi funziona una scuola, i detenuti possono vedere i loro avvocati, le celle sono un po' squallide, ma per buona condotta ogni prigioniero può godere di sistemazioni più confortevoli, con tanto di frigorifero e televisore, nonché di un regime di semilibertà. Purtroppo però la vita del carcere non è regolata dalla legge dello stato né dagli uomini che dovrebbero farla applicare, ma dal clan dei corsi che, attraverso delitti e pestaggi, riesce a prevalere sul clan meno numeroso degli arabi.. Se ne accorgerà subito Malik, cui viene richiesto da Cesar Luciani, il capo corso temuto e rispettato, di uccidere Reyeb, arabo, se non vuole a sua volta rimetterci la pelle. Malik, per quanto riluttante, compie l'atroce delitto, imparando presto ad adattarsi alla logica e alle gerarchie che dominano incontrastate, ottenendo protezione, ma ricevendo anche umiliazioni di ogni genere, perché, in quanto arabo, non viene mai del tutto accettato. Il suo tempo in prigione, però sarà l'occasione per imparare le lingue (compreso il corso, carta vincente per inserirsi nella malavita), e per apprendere anche i meccanismi che assicurano la supremazia nel mondo degli affari malavitosi. Uscirà quindi, ancora molto giovane, ormai nuovo boss della malavita, dopo aver fatto una scelta di campo contro quel clan che l'aveva umiliato e offeso e contro quel Cesar Luciani che avrebbe potuto rappresentare per lui il padre che forse avrebbe voluto, ma che mai lo diventerà, per l'invincibile e protervo razzismo che lo connota. Quel barlume di rimorso, che all'interno del carcere era emerso attraverso incubi e allucinazioni, in qualche modo sopravvive grazie proprio alla scelta identitaria, che egli compie, dimostrando di aver fatto tesoro, assimilandoli, dei consigli di Reyeb. Il regista ci indica, con un memorabile e durissimo racconto, un percorso di devianza che si perfeziona proprio là dove avrebbe dovuto essere contenuta, in un film lungo, in cui si snoda senza fretta il processo di formazione criminale del protagonista, anche con scene terribili e agghiaccianti, raccontate con impassibile e distaccata presa d'atto. Bellissima recitazione degli attori: Tahar Rahim, in primo luogo, splendido alla prima recita, nei panni di un Malik, tenero e feroce; Niels Arestrup, in secondo luogo, ottimo Luciani.
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fight.club
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mercoledì 7 aprile 2010
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ognuno desidera quello che vede
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un piccolo bullo di una periferia che potrebbe appartenere a qualsiasi città del mondo, un ragazzo senza famiglia dove la strada sembra la sua casa, una strada senza punti di riferimento segnata solo dal caso e dalla violenza. Ecco l'universo di Malik El Djebena, un universo che diventa più stretto e claustrofobico quando diventato maggiorenne viene trasferito dal riformatorio a un carcere vero. Non conosce nessuno, non ha nemmeno un vestito e il suo avvocato è un legale che molto non può fare. Scaraventato nel mondo dei veri delinquenti sarà costretto ad accettare di diventare quello che forse non è, a commettere e subire cose che non immaginava di fare. Non è un vero criminale, solo uno sbandato, un solitario, un mezzosangue si sarebbe detto una volta, la sua origine non europea non lo aiuta a schierarsi, troppo arabo per i francesi, troppo francese per gli arabi, una via di mezzo che può essere la sua deifinitiva condanna ma che diventa il suo punto di forza, lui sa parlare a tutti, impara addirittura il dialetto corso del suo "padrone" che lo protegge e lo sfrutta.
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un piccolo bullo di una periferia che potrebbe appartenere a qualsiasi città del mondo, un ragazzo senza famiglia dove la strada sembra la sua casa, una strada senza punti di riferimento segnata solo dal caso e dalla violenza. Ecco l'universo di Malik El Djebena, un universo che diventa più stretto e claustrofobico quando diventato maggiorenne viene trasferito dal riformatorio a un carcere vero. Non conosce nessuno, non ha nemmeno un vestito e il suo avvocato è un legale che molto non può fare. Scaraventato nel mondo dei veri delinquenti sarà costretto ad accettare di diventare quello che forse non è, a commettere e subire cose che non immaginava di fare. Non è un vero criminale, solo uno sbandato, un solitario, un mezzosangue si sarebbe detto una volta, la sua origine non europea non lo aiuta a schierarsi, troppo arabo per i francesi, troppo francese per gli arabi, una via di mezzo che può essere la sua deifinitiva condanna ma che diventa il suo punto di forza, lui sa parlare a tutti, impara addirittura il dialetto corso del suo "padrone" che lo protegge e lo sfrutta. Piano piano si crea dei suoi punti di riferimento non certo elevati, piega i suoi desideri alla realtà che lo circonda, un'anima divisa in due che miscela nel finale del film una voglia di riscatto diventando uno spacciatore e la ricerca di una famiglia che non ha mai avuto. film crudo e intenso. da vedere
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francesco2
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lunedì 11 aprile 2011
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un'idea di cinema
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Di Audiard possiamo dire varie cose. Che i suoi film sono più generosi che belli (Penso al precedente), o più furbi che belli (Penso a questo). O che è un beneficiato dalla caduta dei generi, che "Sulle mie labbra" ancora vent'anni fa, o qualcosa di simile, forse sarebbe stato considerato solo un'onesto prodotto di genere, ben realizzato e ottimamente interpretato.
Ma c'è una cosa di cui sono sicuro, al suo terzo film: ha un 'idea di cinema, quella che manca a certo cinema nostrano (Lo ripetiamo ancora?Sì.). Forse Postmoderna (Ma è un insulto necesariamente?), forse furba, ma ce l'ha. Lo stesso sospetto che mi è venuto vedendo "Racconto di Natale" del suo connazionale Desplechin, che però conosco sicuramente meno bene.
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Di Audiard possiamo dire varie cose. Che i suoi film sono più generosi che belli (Penso al precedente), o più furbi che belli (Penso a questo). O che è un beneficiato dalla caduta dei generi, che "Sulle mie labbra" ancora vent'anni fa, o qualcosa di simile, forse sarebbe stato considerato solo un'onesto prodotto di genere, ben realizzato e ottimamente interpretato.
Ma c'è una cosa di cui sono sicuro, al suo terzo film: ha un 'idea di cinema, quella che manca a certo cinema nostrano (Lo ripetiamo ancora?Sì.). Forse Postmoderna (Ma è un insulto necesariamente?), forse furba, ma ce l'ha. Lo stesso sospetto che mi è venuto vedendo "Racconto di Natale" del suo connazionale Desplechin, che però conosco sicuramente meno bene.
Il suo film migliore, secondo me, rimane "Sulle mie labbra", il più commovente e significativo nella sua non perfetta commistione di generi. Ma, anche qui, guardiamo come non banalmente racconta l'omicidio che segna l'iniziazione nella vita carceraria,crudo e crudele nei confronti del detenuto che si fidava del giovane. Guardiamo la scena del cervo, dove si avvertono echi del "Totò le heros" di Van Dormael, una punta di misticismo in un film così crudo nella sostanza (Il carcere, i detenuti) , e nell'impostazione (Il "giallo", l'ascesa del giovane padrino). Con un tocco di paradossalità, quando si
sente dire: "Ci stavi rimettendo la pelle"(Ed è proprio così).
E' un film che non idealizza nessuno, che nonostante il titolo (E francese ed italiano) non investe il protagonista di un ruolo salvifico: del resto lui nella "Gerarchia" carceraria è, anzi, l'ultimo
anello della catena, non foss'altro per motivi anagrafici. Non vuole redimere nulla e nessuno, anzi per quanto perseguitato dai sensi di colpa non esita a far tesoro dic erte cose imparate in carcere(Le lingue, per esempio). Anche se il finale è un pò più ottimistico, non per questo penso il regista volesse farne un santo che si era "Perso".
Poi Audiard non è Van Dormael, ammesso che il film che ho citato, più esplicitamente "Mistico" e "D'autore", sia un vero caposaldo. Ma senza manicheismi, né voglia di incutere facile pietà per nessuno (A parte , forse, il detenuto ucciso dal protagonista), ci ha dimostrato per la terza volta che l'"Autore" non è necessariamente un signorino occhialuto che realizza cinem astruso (Ad avercene, se oltre ad astruso fosse anche significativo!), e che , come ha scritto qualcuno, il cinema italiano soffre perché, nella vita, non puoi essere postmoderno se prima non sei mai stato moderno.
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dario
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martedì 27 luglio 2010
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paradigmatico
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Il carcere come paradigma della vita. Ma il film è troppo lungo, la tesi si sfilaccia e giunge a conclusioni granguignolesche, rovinando tutta la buona preparazione iniziale. Cinema secco, a tratti quasi da spot pubblicitario, purtroppo, e notevole recitazione. Regia sicura, ma sceneggiatura che si perde in mille dettagli, mostrando scarso carattere. Criminalità troppo sfumata, quasi giustificata, sottolinata per sostenere una certa fenomenologia a tutti i costi. Ridarella finale inopportuna.
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mariadibuenosaires
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martedì 31 agosto 2010
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nascere nel carcere
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Malik entra nel carcere così come nascere.
Prima del carcere non c'è niente nella sua vita. Non ha famiglia, non ha cose, non conosce niente. E' afasico, non si rapporta con niente. Nasce nel carcere.
Nel carcere impara prima a sopravvivere (uccidi o sarai ucciso, dice il sottotitolo) e poi a vivere (relazioni che danno forma alle sue azioni, gli indicano le strade e lui imparerà a scegliere il percorso più vantaggioso).
Il successo di Malik è paradossale: proprio chi non ha niente da difendere (oltre alla propria persona) è meno vulnerabile e può fare scelte in cui la sopravvivenza si sostituisce alla morale, a significare che la morale è un lusso che si addice a una società ricca e tutelata.
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Malik entra nel carcere così come nascere.
Prima del carcere non c'è niente nella sua vita. Non ha famiglia, non ha cose, non conosce niente. E' afasico, non si rapporta con niente. Nasce nel carcere.
Nel carcere impara prima a sopravvivere (uccidi o sarai ucciso, dice il sottotitolo) e poi a vivere (relazioni che danno forma alle sue azioni, gli indicano le strade e lui imparerà a scegliere il percorso più vantaggioso).
Il successo di Malik è paradossale: proprio chi non ha niente da difendere (oltre alla propria persona) è meno vulnerabile e può fare scelte in cui la sopravvivenza si sostituisce alla morale, a significare che la morale è un lusso che si addice a una società ricca e tutelata.
Questo grado zero delle relazioni ha in realtà una potentissima struttura e Malik impara. Impara la geografia dei poteri e dei gruppi, gli equilibri e i pregiudizi che reggono il mondo della mala. Impara a trarre vantaggio dalle reciproche opposizioni. Impara l'amicizia.
Malik dentro al carcere cresce, diventa persona e riesce a smarcarsi dai condizionamenti e con istintiva intelligenza, con la cella di isolamento, riesce a evitare il collasso finale della guerra tra i gruppi.
Il finale, mentre ci risarcisce da due ore di intensa sofferenza, sembra un po' troppo roseo, un po' troppo happy e fa scadere il film nell'apologo.
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paride86
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sabato 2 ottobre 2010
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interessante
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Storia di "formazione" di un giovanotto sprovveduto all'interno di un carcere.
"Il profeta" è un film interessante e denso di avvenimenti, ognuno dei quali influirà sulla psicologia del protagonista.
E' un film molto pessimista sulla condizione dei carcerati: invece di venire riabilitato, Malik imparerà ad essere un vero criminale proprio durante la reclusione, seppur mantenendosi fedele ad una morale tutta sua.
Il finale zuccheroso, invece, mi ha deluso un po': l'ho trovato molto poco realista e, soprattutto, poco onesto nei confronti del protagonista che, a differenza degli altri personaggi del film, sbaglia ma non paga il prezzo dei suoi crimini.
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Storia di "formazione" di un giovanotto sprovveduto all'interno di un carcere.
"Il profeta" è un film interessante e denso di avvenimenti, ognuno dei quali influirà sulla psicologia del protagonista.
E' un film molto pessimista sulla condizione dei carcerati: invece di venire riabilitato, Malik imparerà ad essere un vero criminale proprio durante la reclusione, seppur mantenendosi fedele ad una morale tutta sua.
Il finale zuccheroso, invece, mi ha deluso un po': l'ho trovato molto poco realista e, soprattutto, poco onesto nei confronti del protagonista che, a differenza degli altri personaggi del film, sbaglia ma non paga il prezzo dei suoi crimini.
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thekalisa
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venerdì 12 febbraio 2010
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il profeta sarà un successo?
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Ho avuto la fortuna di poter vedere il film ad un'anteprima stampa tenutasi a Roma alla fine di gennaio. Devo dire che è un film mozzafiato. Narra la storia di Malik El Djebena, detenuto in un carcere corso dove, più debole tra tutti, si troverà a combattere tutti i giorni per la propria sopravvivenza. Audiard ha dato prova che un grande film può nascere senza necessariamente grandi attori. Anzi, senza scritturare attori che non fossero già icone del grande schermo è riuscito a creare eroi che nessuno conosce, presentandoli in modo realistico, con un forte riferimento nel sociale. Una grande storia fatta da piccoli uomini.
Tahar Rahim è perfetto nella parte di Malik, non essendo uno stereotipo di bellezza maschile rientra a pennello in quella parte del personaggio che lo porta ad essere percepito come una moneta a più facce.
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Ho avuto la fortuna di poter vedere il film ad un'anteprima stampa tenutasi a Roma alla fine di gennaio. Devo dire che è un film mozzafiato. Narra la storia di Malik El Djebena, detenuto in un carcere corso dove, più debole tra tutti, si troverà a combattere tutti i giorni per la propria sopravvivenza. Audiard ha dato prova che un grande film può nascere senza necessariamente grandi attori. Anzi, senza scritturare attori che non fossero già icone del grande schermo è riuscito a creare eroi che nessuno conosce, presentandoli in modo realistico, con un forte riferimento nel sociale. Una grande storia fatta da piccoli uomini.
Tahar Rahim è perfetto nella parte di Malik, non essendo uno stereotipo di bellezza maschile rientra a pennello in quella parte del personaggio che lo porta ad essere percepito come una moneta a più facce. Più lati del proprio carattere dovrà sperimentare per riuscire ad adattarsi alle varie situazioni. Malik rompe gli schemi, e il film segue soprattutto questo suo percorso mentale, una mente che lavora e che mostra straordinarie capacità di adattamento.
Il grande co-protagonista di Malik è proprio la prigione. E' stata costruita ad hoc per il film ed è stata popolata da un considerevole numero di persone che hanno costituito un background ideale per lo scopo del film, e quindi del cinema. Ovvero, osservare il reale per insegnare a vivere.
Un film straordinario, toccante e crudo. Violento ma ricco di significato. Un successo annunciato?
:D
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(di opidum)
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molenga
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giovedì 10 gennaio 2013
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in che senso profeta?
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Malik è un arabo della banlieue cresciuto on orfanotrofio: ha ferito un poiziotto assicurandosi 6 anni alla prigione centrale di Parigi: per uno come lui, ragazzetto senza conoscenze, significa finire sotto il giogo di chiunque: eseguendo un omicidio su commissione per conto del gruppo dei corsi, veterani del carcere, si assicura la protezione del loro boss, césar Luciani: impara il corso, il francese e l'arabo sono le sue lingue madri, sballottato a destra e a manca riesce a farsi rispettare "parlando per" il capo( da qui, pensavo, il titolo del film) e mette su un suo giro grazie all'aiuto di un compare uscito dal carcere e di un gitano...inoltre Luciani riesce a fargli ottenere un permesso di 12 ore quotidiane per un finto lavoro: piano piano malik studia e si fa colto e furbo, ribaltando la situazione con il boss.
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Malik è un arabo della banlieue cresciuto on orfanotrofio: ha ferito un poiziotto assicurandosi 6 anni alla prigione centrale di Parigi: per uno come lui, ragazzetto senza conoscenze, significa finire sotto il giogo di chiunque: eseguendo un omicidio su commissione per conto del gruppo dei corsi, veterani del carcere, si assicura la protezione del loro boss, césar Luciani: impara il corso, il francese e l'arabo sono le sue lingue madri, sballottato a destra e a manca riesce a farsi rispettare "parlando per" il capo( da qui, pensavo, il titolo del film) e mette su un suo giro grazie all'aiuto di un compare uscito dal carcere e di un gitano...inoltre Luciani riesce a fargli ottenere un permesso di 12 ore quotidiane per un finto lavoro: piano piano malik studia e si fa colto e furbo, ribaltando la situazione con il boss.
Alcune sequenze sono indimenticabili e la sceneggiatura, fluviale, è perfetta: i francesi hanno ripreso in mano le sorti del loro cinema.
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carloalberto
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mercoledì 18 agosto 2021
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l''allievo supera il maestro
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Il Profeta è uno di quei film che si rivede volentieri una seconda volta per il piacere di vederlo o per coglierne aspetti, sfumature non colte in una prima frettolosa visione.
Il crudo realismo non si ferma al puro descrittivismo dell’ambiente carcerario, peraltro filmato fin nei minimi particolari con la pignoleria per i dettagli di un pittore fiammingo, ma si tracciano profili psicologici, si narrano storie interiori, percorsi spirituali, che sfociano, come rivoli di unico grande fiume in piena, tutti nel dramma corale della tragica quotidianità della gente senza speranza.
Per molti l’inferno è dentro e fuori il carcere. L’organizzazione criminale detta le sue regole come se le sbarre non esistessero.
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Il Profeta è uno di quei film che si rivede volentieri una seconda volta per il piacere di vederlo o per coglierne aspetti, sfumature non colte in una prima frettolosa visione.
Il crudo realismo non si ferma al puro descrittivismo dell’ambiente carcerario, peraltro filmato fin nei minimi particolari con la pignoleria per i dettagli di un pittore fiammingo, ma si tracciano profili psicologici, si narrano storie interiori, percorsi spirituali, che sfociano, come rivoli di unico grande fiume in piena, tutti nel dramma corale della tragica quotidianità della gente senza speranza.
Per molti l’inferno è dentro e fuori il carcere. L’organizzazione criminale detta le sue regole come se le sbarre non esistessero. Con il danaro si compra tutto, anche la complicità dei carcerieri, con il danaro si fanno proseliti, si accresce il potere del clan e si fanno più soldi, in un sistema chiuso, un circolo virtuoso che si alimenta con la disperazione di chi non ha più nulla da perdere, nemmeno la dignità.
Lo sguardo di Audiard è cinicamente attento a quello che accade, come uno scienziato osserva le sue cavie, impietosamente le sottopone alle più dure prove. L’esperimento sociale termina e la tesi è confermata, quello che era soltanto un luogo comune si può ora affermare con sicurezza essere una verità oggettiva e dimostrata sul set laboratorio di Audiard, ovvero il carcere non redime, non migliora bensì fa l’esatto contrario, laurea a pieni voti piccoli criminali ponendogli sul capo l’alloro di boss, sempre che abbiano hanno studiato con profitto alla scuola dei cattivi maestri, che abbondano nelle patrie galere, in Francia come in Italia, come in tutto il mondo, e si siano rivelati tanto intraprendenti persino da superarli.
Ottimo il cast in cui spiccano il giovane allievo,Tahar Rahim, ed il vecchio maestro,Niels Arestrup.
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