chiarialessandro
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lunedì 19 aprile 2010
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un fulmine a ciel sereno.
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Dopo un esordio che ritengo pressoché sconosciuto, Daniel Monzon ci ha regalato un vero gioiello, possente ed impetuoso, incastonato in una struttura narrativa semplice e lineare che si lascia seguire con facilità, dando corpo e voce ad una delle tante storie “assurde” che diventano realistiche proprio grazie a quella meravigliosa macchina dei sogni rispondente al nome di cinema. Vi potreste mai immaginare un secondino che, per una strana serie di cause, deve assumere l’identità di un detenuto e che, nel volgere di un brevissimo spazio di tempo, subisce tante e tali di quelle esperienze da vedere completamente sconvolta la sua vita, fino al punto di guidare con profonda convinzione una rivolta carceraria, di uccidere un collega reo di avergli ammazzato la moglie incinta e di stringere un sotterraneo ma sincero rapporto di stima e di amicizia con il peggiore dei reclusi? Eppure Daniel Monzon riesce a rendere verosimile tutto questo.
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Dopo un esordio che ritengo pressoché sconosciuto, Daniel Monzon ci ha regalato un vero gioiello, possente ed impetuoso, incastonato in una struttura narrativa semplice e lineare che si lascia seguire con facilità, dando corpo e voce ad una delle tante storie “assurde” che diventano realistiche proprio grazie a quella meravigliosa macchina dei sogni rispondente al nome di cinema. Vi potreste mai immaginare un secondino che, per una strana serie di cause, deve assumere l’identità di un detenuto e che, nel volgere di un brevissimo spazio di tempo, subisce tante e tali di quelle esperienze da vedere completamente sconvolta la sua vita, fino al punto di guidare con profonda convinzione una rivolta carceraria, di uccidere un collega reo di avergli ammazzato la moglie incinta e di stringere un sotterraneo ma sincero rapporto di stima e di amicizia con il peggiore dei reclusi? Eppure Daniel Monzon riesce a rendere verosimile tutto questo. Bellissimo, nella sua cruda violenza estetica. Indimenticabile lo sguardo fiero e magnetico di Malamadre – Luis Tosar. A dimostrazione di come, per costruire grandi film, non siano indispensabili grandi capitali od effetti speciali. A differenza de "Il profeta", che sfrutta abilmente una prospettiva claustrofobica sulla quale costruire una sottile sensazione di angoscia che ti accompagna dall'inizio alla fine.
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nino pell.
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sabato 17 aprile 2010
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il mondo non cambia, ma anche l'amicizia vera
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A volte capita che il confine che separa coloro che si schierano dalla parte del bene (o credono di schierarsi) e coloro che invece hanno scelto, per varie vicissitudini, l'altra sponda, diventa così labile e trasparente tanto da non riuscire più a distinguere i primi coi secondi. E quello che succede al protagonista di questo film: un giovane con una moglie ed un figlio prossimo alla nascita, che, dovendo assumere servizio come guardia carceraria all'interno di un istituto penitenziario di massima sicurezza, decide di anticiparsi di un giorno per iniziare a capire la realtà di un mondo che fino a ieri gli era completamente sconosciuta. E qui inizieranno per lui una serie di avvenimenti destinati a cambiargli completamente la vita.
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A volte capita che il confine che separa coloro che si schierano dalla parte del bene (o credono di schierarsi) e coloro che invece hanno scelto, per varie vicissitudini, l'altra sponda, diventa così labile e trasparente tanto da non riuscire più a distinguere i primi coi secondi. E quello che succede al protagonista di questo film: un giovane con una moglie ed un figlio prossimo alla nascita, che, dovendo assumere servizio come guardia carceraria all'interno di un istituto penitenziario di massima sicurezza, decide di anticiparsi di un giorno per iniziare a capire la realtà di un mondo che fino a ieri gli era completamente sconosciuta. E qui inizieranno per lui una serie di avvenimenti destinati a cambiargli completamente la vita. Questo film naturalmente è rivolto ad un pubblico allenato e, come tale, abituato a vedere scene forti, cruenti e chiaramente in questa pellicola ce ne sono, eccome. L'ambientazione all'interno di un carcere, si sa, non promette mai niente di buono: vi regnano ostilità, malvagità e soprattutto tanta violenza da parte di chi vi è detenuto. Ma è anche vero che tali situazioni sono spesso alimentate dalla scarsa sensibilità della polizia e del Governo in quanto spesso i carcerati vengono abbandonati a se stessi, costretti a vivere in situazioni pietose di isolamento, di umiliazioni e, spesso, coloro che riversano in condizioni di degenza, non curati a dovere. Ed ecco allora che, nel corso della trama di questo film, un gruppo di carcerati decide di ribellarsi alle ataviche regole del regime penitenziario, scatenando il loro desiderio di cambiamento in efferrate azioni di rivolta. Come risponderà il Governo alle loro esigenze di esseri umani? Purtroppo con indifferenza e con altrettanta violenza come si potrà evidenziare nel corso del film. Ma anche in un ambiente che potrebbe sembrare così orripilante quale appunto quello carceraio, possono nascere sentimenti come la fratellanza e il rispetto dell'uomo nei confronti degli altri. L'amicizia che nasce e si rafforza col tempo tra il capo dei detenuti ed il giovane sfortunato neo agente penitenziario resta sicuramente tra i momenti di maggior poesia di quest'opera di Daniel Monzòn. L'amicizia vera che appunto in un mondo sempre più egoistico e di dissoluzione dei valori umani, resterà per sempre l'unico elemento eterno di certezza. E ciò a prescindere dalla malinconica osservazione che in fondo le cose di questa vita sono destinate a non cambiare mai. Un film adrenalico, senza mezze sfaccettature e che punta diritto all'obiettivo, unendo egregiamente impegno sociale con quel tocco ammiccante di spettacolarizzazione che non guasta. Magari da rivedere per assimilare altri elementi che potrebbero sfuggire alla prima visione.
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alespiri
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venerdì 21 maggio 2010
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avvincente e spettacolare thriller claustrofobico
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Una situazione paradossale, resa estremamente credibile, è lo spunto per il claustrofobico thriller del regista spagnolo Daniel Monzon.
Juan Olivier, un neoassunto in un carcere di massima sicurezza, ale presentazioni, viene coplito alla testa: è l’inizio di una rivolta carceraria sanguinosa. Altri agenti vengono feriti nel tentativo di arginare la sommossa. Grazie anche alla prontezza di riflessi, alla scaltrezza, del protagonista questi si troverà ad affrontare un involontario "passaggio" nella schiera dei rivoltosi perché scambiato per un detenuto e riuscirà a mettersi in buona luce, coi suoi suggerimenti strategici per evitare alle forze dell’ordine di avere la meglio, con il pluriomicida e più temibile tra tutti: Malamadre (Luis Tosar), semisconosciuto in Italia ma già vincitore di un premio Goya in Spagna e candidato per questo film come attore protagonista.
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Una situazione paradossale, resa estremamente credibile, è lo spunto per il claustrofobico thriller del regista spagnolo Daniel Monzon.
Juan Olivier, un neoassunto in un carcere di massima sicurezza, ale presentazioni, viene coplito alla testa: è l’inizio di una rivolta carceraria sanguinosa. Altri agenti vengono feriti nel tentativo di arginare la sommossa. Grazie anche alla prontezza di riflessi, alla scaltrezza, del protagonista questi si troverà ad affrontare un involontario "passaggio" nella schiera dei rivoltosi perché scambiato per un detenuto e riuscirà a mettersi in buona luce, coi suoi suggerimenti strategici per evitare alle forze dell’ordine di avere la meglio, con il pluriomicida e più temibile tra tutti: Malamadre (Luis Tosar), semisconosciuto in Italia ma già vincitore di un premio Goya in Spagna e candidato per questo film come attore protagonista.
L’amicizia tra i due è il fulcro del film, che si regge sui due interpreti (Juan e Malamadre) che riescono a far passare emozioni autentiche e forti allo spettatore.
Nella consapevolezza di una fine prossima il loro legame diventerà intenso ed il valore di quest’amicizia rappresenterà l’unico elemento umano della narrazione.
"Cella 211" è un film che ci fa riflettere sulla sindacabilità di ogni giudizio, dove i valori invertono i poli di continuo e quello che c’è fuori dal carcere, ad un certo punto, apparirà meno rassicurante di quello che c’è dentro.
Luis Tosar (Malamadre) trascina col suo sguardo carismatico, in un labirinto di emozioni , ma tutti gli interpreti sono all’altezza della situazione. Il livello di tensione narrativa risulta essere alto fino all’ultimo secondo. Un senso di frustrante amarezza ci lascia l’inevitabile finale nella consapevolezza che la corruzione umana si trasferisce sempre più spesso ai vertici sociali, mascherata abilmente da parole prive di verità.
E questa, ancora una volta, è di chi la sa raccontare meglio.
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andrea zagano
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venerdì 3 maggio 2013
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finalmente un ottimo film spagnolo,oramai un cult!
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Cella 211 è un film spagnolo che ha avuto grandissimo successo in patria e un discreto successo internazionale. Questo clamore attorno alla pellicola è più che giustificato dato che la trama di base è buona, anche se già vista, mentre ciò che rende il film davvero speciale è l’alto livello di suspense. C'è anche spazio per un timido confronto sulla "questione basca".
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Cella 211 è un film spagnolo che ha avuto grandissimo successo in patria e un discreto successo internazionale. Questo clamore attorno alla pellicola è più che giustificato dato che la trama di base è buona, anche se già vista, mentre ciò che rende il film davvero speciale è l’alto livello di suspense. C'è anche spazio per un timido confronto sulla "questione basca".
Lo spettatore si immedesima fin da subito nel personaggio di Juàn: all’inizio è inevitabilmente preoccupato per sé stesso, successivamente il suo unico pensiero è rivolto alla moglie incinta.
Juàn col susseguirsi degli eventi diventa spietato e perde la testa, guidando la rivolta contro il carcere e le varie organizzazioni politiche(che lo abbandonano come un cane). La scena nella quale lo spettatore capisce che “Mutanda” verrà ricordato (nonostante non fosse uno di loro) è racchiusa nella scritta all’interno della 211: “Aquì muriò Mutanda”.
Davvero interessante il personaggio di Malamadre, interpretato da un grande Luis Tosar, l’unico attore non esordiente: fin da subito, senza una spiegazione logica, lo spettatore vede nei suoi occhi qualcosa di positivo e non lo teme. Nel finale esce fuori il suo lato umano: non uccide Juàn perché ammira il suo coraggio e si rende conto che comunque non è stata una sua scelta ritrovarsi in quella scomoda situazione.
Cella 211 ha vinto 8 premi Goya confermando soprattutto il talento di Daniel Monzòn come regista. La pellicola ha pochi difetti, irrilevanti. E’ cruda al punto giusto e fa respirare allo spettatore l’aria pesante presente all’interno di questo thriller claustrofobico.
Un bel film, di culto.
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filippo catani
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venerdì 19 aprile 2013
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dramma carcerario ben congegnato
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Un giovane ragazzo spagnolo ottiene un lavoro come secondino. Per fare buona impressione ai suoi superiori il giorno prima di prendere servizio si presenta per fare un po' il giro della struttura carceraria. Rimasto vittima di un banale incidente, il ragazzo viene temporaneamente messo in una cella libera per ricevere le cure del caso. Proprio in quel momento però lui perderà i sensi e una rivolta porterà i prigionieri a controllare il braccio. Una volta risvegliato, l'unica speranza per il ragazzo sarà fingersi un prigioniero.
Un bel thriller carcerario quello proposto da Monzòn che riflette su diversi aspetti della vita carceraria. Intanto sul carisma che determinati criminali (vedi malamadre) riescono e devono esercitare sugli altri detenuti.
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Un giovane ragazzo spagnolo ottiene un lavoro come secondino. Per fare buona impressione ai suoi superiori il giorno prima di prendere servizio si presenta per fare un po' il giro della struttura carceraria. Rimasto vittima di un banale incidente, il ragazzo viene temporaneamente messo in una cella libera per ricevere le cure del caso. Proprio in quel momento però lui perderà i sensi e una rivolta porterà i prigionieri a controllare il braccio. Una volta risvegliato, l'unica speranza per il ragazzo sarà fingersi un prigioniero.
Un bel thriller carcerario quello proposto da Monzòn che riflette su diversi aspetti della vita carceraria. Intanto sul carisma che determinati criminali (vedi malamadre) riescono e devono esercitare sugli altri detenuti. Vediamo poi le pessime condizioni igeniche e delle strutture delle carceri spagnole (e da noi la situazione se possibile stando ai vari rapporti è anche peggiore). Quindi troviamo la storia di un giovane ragazzo futuro padre che nell'arco di alcune giornate vedrà la sua vita capovolgersi completamente e lui stesso subirà una incredibile trasformazione da vittima a carnefice. In tutto questo un ruolo non certo secondario lo giocano funzionari arrivisti o doppiogiochisti o intenti solo a cercare di salvare i delicati equilibri con i prigionieri baschi (altra sfaccettatura che viene messa in risalto nel film come una questione eternamente irrisolta). Molto bene anche le interpretazioni dei protagonisti per un film che ha fatto incetta di premi spagnoli e che merita un'ottima considerazione così come era successo per il francese il Profeta segnale che il filone carcerario, quando ben sfruttato, può ancora regalare ottime storie.
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amandagriss
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lunedì 15 aprile 2013
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nella 'città',l'inferno
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Il cinema torna a raccontare,appassionato,della reclusione detentiva,dello spietato crudo e crudele inferno che ribolle entro le alte mura di cinta dei penitenziari e lo fa con due opere europee,Il profeta del francese Jacques Audiard e Cella 211 dello spagnolo Daniel Monzón: pellicole entrambe robuste,radicali,che nobilitano ulteriormente il nutrito genere del prison movie confermando quanto ancora una volta le storie carcerarie ben si prestino al racconto per immagini rinnovandone quella forte fascinazione che ha sempre esercitato sullo spettatore.Qui si narra la tragica disavventura di un giovane secondino che,alla vigilia del suo primo giorno di lavoro,giunto nel (suo) carcere per meglio ambientarsi e 'fare una buona impressione',si ferisce alla testa a causa delle condizioni dissestate degli ambienti e,riposto momentaneamente in una cella libera -la 211- in attesa di cure mediche,si ritrova coinvolto,senza possibilità di fuga,nell'improvvisa rivolta dei detenuti del braccio più violento.
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Il cinema torna a raccontare,appassionato,della reclusione detentiva,dello spietato crudo e crudele inferno che ribolle entro le alte mura di cinta dei penitenziari e lo fa con due opere europee,Il profeta del francese Jacques Audiard e Cella 211 dello spagnolo Daniel Monzón: pellicole entrambe robuste,radicali,che nobilitano ulteriormente il nutrito genere del prison movie confermando quanto ancora una volta le storie carcerarie ben si prestino al racconto per immagini rinnovandone quella forte fascinazione che ha sempre esercitato sullo spettatore.Qui si narra la tragica disavventura di un giovane secondino che,alla vigilia del suo primo giorno di lavoro,giunto nel (suo) carcere per meglio ambientarsi e 'fare una buona impressione',si ferisce alla testa a causa delle condizioni dissestate degli ambienti e,riposto momentaneamente in una cella libera -la 211- in attesa di cure mediche,si ritrova coinvolto,senza possibilità di fuga,nell'improvvisa rivolta dei detenuti del braccio più violento.Unica carta da giocare per uscirne vivo è fingersi anch'egli un detenuto e tuffarsi nella feroce mischia di facce e corpi che nulla più hanno da perdere.Questo l'interessante avvio di una storia estrema dove l'aderenza al reale fortemente ricercata è attinta non tanto dall'intreccio, quasi mai convincente e credibile -troppe forzature,spessore psicologico sacrificato a favore del ritmo veloce - quanto dallo stile ruvido,grezzo,scarno,che sceglie l’’instabilità’ della ripresa con camera a mano affinché restituisca l'immediatezza degli eventi,e da una fotografia ‘neutra’,volta ad esaltare lo squallore ed il degrado di siffatti luoghi coatti.E nessuna propensione a mitizzare ambienti e volti,a rendere il criminale di turno un eroe in cui identificarsi,teso unicamente alla fuga (cliché USA) che qui,invece,resta un rifiuto della società,rinchiuso a lottare e pretendere un trattamento più dignitoso,civile,umano.Il tono è palesemente polemico,di denuncia,che rimanda al polar d’oltralpe,soprattutto alle opere di José Giovanni,che molto ha dedicato al genere (vedi Due contro la città,Il figlio del gangster,Ultimo domicilio conosciuto),teso a scandagliare le perverse intrinseche dinamiche del sistema giudiziario/carcerario,microcosmo governato da proprie regole,leggi non scritte,subdoli compromessi,in cui i detenuti non sono che l'ago della bilancia di delicatissimi equilibri di potere,pedine sacrificabili di un gioco più grande e pericoloso,condotto da quelli che sono i veri 'lupi',così terribili e spietati che al confronto il pluripregiudicato -re delle celle- leader indiscusso della rivolta,l’etico Malamadre,fa la figura di una monaca missionaria.E il 'puro' secondino (i nostri occhi nella terra straniera della galera),che non vive (ancora) di prigione,che non è perciò negoziabile, finisce,suo malgrado,per trasformarsi in un giustiziere-cane sciolto.Quale il suo destino se non quello di spezzarsi piuttosto che piegarsi.
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cianoz
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domenica 27 marzo 2011
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bel film
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Bel film. Chi si è fatto (giustamente) l'idea che il cinema spagnolo sia tutto minestroni manierati di Almodovar può ricredersi parzialmente guardando questo bel film.
Molto ben recicato, realistico e credibile. Una vicenda che si svolge con degli sviluppi non scontati e ben orchestrati. Da vedere. Ottima presenza scenica quella del protagonista cattivo, il leader del detenuti.
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giorpost
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martedì 6 settembre 2016
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buona l'idea,scarso il risultato:colpa del budget?
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Juan Oliver è un giovane sposato, in attesa di diventare padre, che ha appena trovato un impiego come secondino; un giorno prima del debutto nel nuovo incarico si reca sul luogo di lavoro per far colpo sul direttore del carcere, ma la sua scelta si dimostrerà poco azzeccata in quanto proprio negli istanti in cui i veterani gli stanno spiegando come funziona l'attività penitenziaria, scoppia una rivolta tra i detenuti: Juan, portato nella cella 211 per essere medicato a seguito di una caduta di calcinacci provocata dai rivoltosi, si troverà suo malgrado catapultato in un incubo dal quale dovrà cercare di scappare adoperandosi come mai prima nella sua vita, giocando una partita fatta di fantasia per poter prendere alla svelta decisioni utili alla sua stessa sopravvivenza.
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Juan Oliver è un giovane sposato, in attesa di diventare padre, che ha appena trovato un impiego come secondino; un giorno prima del debutto nel nuovo incarico si reca sul luogo di lavoro per far colpo sul direttore del carcere, ma la sua scelta si dimostrerà poco azzeccata in quanto proprio negli istanti in cui i veterani gli stanno spiegando come funziona l'attività penitenziaria, scoppia una rivolta tra i detenuti: Juan, portato nella cella 211 per essere medicato a seguito di una caduta di calcinacci provocata dai rivoltosi, si troverà suo malgrado catapultato in un incubo dal quale dovrà cercare di scappare adoperandosi come mai prima nella sua vita, giocando una partita fatta di fantasia per poter prendere alla svelta decisioni utili alla sua stessa sopravvivenza. Non tutto filerà liscio, e non solo per colpa dei carcerati, capitanati da Malamadre...
Eccezion fatta per Almodovar, chi vi scrive non è un grande appassionato di Cinema iberico, non fosse altro che per quella qualità visiva mai troppo elevata, sempre assimilabile a film di second'ordine. Un esempio degli ultimi anni è quel Apri gli occhi (imitato a breve distanza temporale da Hollywood con Vanilla Sky) nel quale si trovano interessanti spunti autoriali ma dove scarseggiano fotografia, montaggio e via dicendo.
Cella 211 (Spa, 2009) purtroppo non si discosta troppo da questo discorso pur avendo, al suo interno, delle note positive, alternate a diverse criticità. L'opera è riuscita nel suo complesso, ma a mio avviso se fosse stata prodotta interamente in Francia o, perché no, persino in Italia, avrebbe potuto godere di una qualità decisamente migliore. Il cast è comunque buono, specialmente per quanto riguarda i cattivi, ovvero il telegenico Luis Tosar, nei panni del capo-popolo, e l'efficace Antonio Resines, in quelli del poliziotto frustrato incline alla violenza che non risparmia nemmeno le donne, finanche incinte.
In pratica, negli anni correnti, il Cinema in lingua ispanica parla messicano con Cuaron, Iñárritu e compagnia bella, mentre quello made in Spain lascia ancora a desiderare. Peccato: con un pizzico d'impegno in più (ma anche con maggiori coperture economiche) con Celda 211 poteva uscir fuori un prodotto di livello, considerando l'impianto generale e la presenza di argomenti importanti come le condizioni delle carceri perché, come recita la famosa citazione, non si conosce veramente una nazione finché non si sia stati nelle sue galere...
Voto: 6+
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figliounico
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mercoledì 22 febbraio 2023
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dramma mancato
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Un film carcerario spagnolo del 2009 diretto da Daniel Monzon che si ispira per il soggetto ad un classico del genere, Brubaker di Rosenberg del 1980 con Redford. Protagonisti Luis Tosar e Alberto Ammann, i due antagonisti perfetti, anche fisionomicamente, l’uno, il prototipo del bravo ragazzo, fresco sposo con moglie incinta, al suo primo giorno di lavoro, l’altro, il criminale psicopatico rinchiuso nel braccio di massima sicurezza della prigione di Zamora, lo stereotipo del villain dal cuore d’oro, l’angelo precipitato all’inferno da una sorte malevola o da un dio distratto o come, si vedrà, da una società ingiusta. Il meccanismo del romanzo da cui è tratto il film si basa sul cambio di ruolo improvviso, dovuto ad un fatto fortuito ed imprevedibile.
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Un film carcerario spagnolo del 2009 diretto da Daniel Monzon che si ispira per il soggetto ad un classico del genere, Brubaker di Rosenberg del 1980 con Redford. Protagonisti Luis Tosar e Alberto Ammann, i due antagonisti perfetti, anche fisionomicamente, l’uno, il prototipo del bravo ragazzo, fresco sposo con moglie incinta, al suo primo giorno di lavoro, l’altro, il criminale psicopatico rinchiuso nel braccio di massima sicurezza della prigione di Zamora, lo stereotipo del villain dal cuore d’oro, l’angelo precipitato all’inferno da una sorte malevola o da un dio distratto o come, si vedrà, da una società ingiusta. Il meccanismo del romanzo da cui è tratto il film si basa sul cambio di ruolo improvviso, dovuto ad un fatto fortuito ed imprevedibile. Dai Menecmi di Plauto al Principe ed il povero di Twain, sebbene pensato come duplice inversione della personalità, il fraintendimento sulla vera identità del protagonista è all’origine sia della commedia degli equivoci che del dramma psicologico della trasformazione involontaria in altro da sé, immaginata prima che nel cinema, con La mosca di Cronenberg, da Kafka nel La metamorfosi. In questo caso il dramma individuale del cambiamento interiore del protagonista passa in secondo piano e si preferisce spettacolarizzare il mutamento ormai avvenuto nella sequenza della cruenta eliminazione del poliziotto sadico. Monzon si concentra sull’azione e abbandona l’approfondimento psicologico dei personaggi che restano bidimensionali e grossolanamente caratterizzati fino alla fine nonostante la potenziale valenza tragica di ognuno di loro. Prevale sul dramma personale il messaggio sociologico di fondo, il teorema da dimostrare, di facile lettura e banalmente retorico, del reato come conseguenza di una società ingiusta, con buona pace del libero arbitrio. Morale della favola: chiunque di noi, anche il più bravo e onesto dei cristiani, si può trasformare in un criminale se la società, rappresentata da microcosmo del carcere, lo mette in condizioni tali da non poter agire diversamente. E’ chiaro che con questi presupposti ideologici Monzon non poteva mettere in scena la tragedia dell’individuo, per farlo occorre pensare in modo classico e non moderno, credere che la coscienza individuale sia un valore assoluto, con i giusti corollari della libertà e della responsabilità personale, e non un semplice derivato della società.
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giovedì 5 agosto 2010
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emozionante ma ben poco credibile.
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Troppo costruito, nonché dimostrazione lampante che i premi nazionali sono la più grande masturbazione mentale (e non solo) dell'industria cinematografica (vincitore di 8 premi Goya). E' un problema tipico dei film tratti da libri, le storie che funzionano sotto l'aspetto "sospensione dell'incredulità" in un libro a volte non funzionano al cinema (uno certi dettagli nella lettura se li dimentica). Il regista qui ha spinto con numerosi colpi di scena per tenere su la tensione e la drammaticità della storia (e quindi l'interesse del pubblico), a discapito però della credibilità generale.
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Troppo costruito, nonché dimostrazione lampante che i premi nazionali sono la più grande masturbazione mentale (e non solo) dell'industria cinematografica (vincitore di 8 premi Goya). E' un problema tipico dei film tratti da libri, le storie che funzionano sotto l'aspetto "sospensione dell'incredulità" in un libro a volte non funzionano al cinema (uno certi dettagli nella lettura se li dimentica). Il regista qui ha spinto con numerosi colpi di scena per tenere su la tensione e la drammaticità della storia (e quindi l'interesse del pubblico), a discapito però della credibilità generale.
I protagonisti hanno aiutato il regista con ottime prestazioni, ma ciò non è bastato a mio avviso... quando la storia non funziona del tutto, puoi fare tutto quello che vuoi, la storia non funziona del tutto (problema tipico dei film spettacolari americani, ma lì già lo sai ancora prima di entrare in sala).
A circa metà del film io ho perso l'interesse. A questo punto vorrei chiedervi perché di tutte queste esaltanti recensioni sui blog, riviste e giornali come ad esempio il corriere della sera. Ognuno si faccia la domanda e si dia la risposta, come diceva il buon Marzullo (buon?!).
Dal punto di vista della sceneggiatura ci sono degli spunti interessanti, mentre, mi ripeto, la recitazione nonchè le scenografie sono ottime. Un grande dispendio di mezzi, per la gran carità (e quando c'è un grande dispendio fioccano premi e buone recensioni). Ma il personaggio del cattivo ad esempio, ovvero il poliziotto che ama picchiare, ha un qualcosa che manca. E' fin troppo antagonista e conosciamo troppo poco la sua storia. Non è caratterizzato a sufficienza. E' lì per fare il suo compitino in sceneggiatura, ma non ha nulla che lo muove veramente. E' un sadico, ma non abbastanza. E' l'autore della prima svolta del film, quando durante una rivolta con una manganellata manda in ospedale la moglie di Juan e questi diventa uno che non ha nulla da perdere, uno dei disperati del carcere. I buoni diventano cattivi e i cattivi buoni, e Juan ne è l'eroe. L'evoluzione del personaggio Juan è centrale in questa storia, quello che avviene nel carcere è a corredo di questa sua rivoluzione interiore.
Mi è piaciuto molto, l'inizio, d'effetto devo dire, ripeto la regia ottima, con ottimi spunti. Ma lo sceneggiatore con le mani legate fa le sue marchette e si vede. Film franco-spagnolo buono in questo genere tipicamente americano, ma se si vuole competere con i film di oltreoceano bisogna fare di più. Lo sconsiglio a persone dai gusti raffinati, mentre per il pubblico medio va più che bene.
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[+] approvo in toto!
(di cris2811)
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[+] una buona critica
(di chrisbots)
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