Il grande silenzio

Roberto Nepoti

Se viviamo nell'epoca dell'"attenzione parziale continua", spezzettando la nostra concentrazione fra tre o quattro cose da fare in contemporanea, ecco un film prezioso. La sua chiave è una merce ormai introvabile, o quasi: la lentezza. Lentissimo il tempo della gestazione; dato che, per portare la cinepresa all'interno della Grande Chartreuse, la casa madre dell'ordine dei certosini incastonata tra le Alpi francesi, il regista ha dovuto attendere diciotto anni.
Lento quello della realizzazione: sei mesi, durante i quali il regista Philip Gröning ha condiviso la vita dei monaci (solo il mitico Flaherty, ai tempi remoti di "Nanuk l'eschimese", si era potuto permettere tanto). Lento lo scorrere delle immagini sullo schermo, in un film che tiene a distanza le parole (discorsi, commenti over-screen), la musica (salvo il canto gregoriano), ogni artificio che poteva trasformare l'eremo in un set cinematografico.
Eppure, le due ore e tre quarti del Grande silenzio sono un regalo, un viaggio nella contemplazione dove ogni creatura, e perfino il minimo degli oggetti, diventa significante grazie al potere di uno sguardo finalmente placato. Non occorre essere mistici, e neppure credenti, per andare all'appuntamento con questo film-monolito straordinario. Basta saper rinunciare a una "storia" per entrare in uno spazio (come dice benissimo il regista il film, più che rappresentarlo, "è diventato" un monastero), in un tempo a parte, in un ritmo - assieme - solenne e lievissimo.
Da La Repubblica, 31 marzo 2006


di Roberto Nepoti, 31 marzo 2006