Salvador Allende

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Un film di Patricio Guzmán. Con Salvador Allende, Fidel Castro, Henry Kissinger, Richard Nixon.
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Documentario, b/n durata 100 min. - Belgio, Cile, Francia, Spagna, Germania, Messico 2004. - Fandango uscita venerdì 2 settembre 2005. Acquista »
   
   
   

Marco Cicala

Il Venerdì di Repubblica

Chissà, forse se non ci fosse stato tale Juan Demarchi, calzolaio anarchico di origine italiana, Salvador Allende Gossens non sarebbe diventato chi sappiamo. Il futuro presidente cileno era solo un liceale quando l’artigiano lo iniziò al pensiero sociale passandogli gli scritti di Kropotkin, Bakunin, Malatesta e Paul Lafargue - il genero «degenere» di Marx che, contro Karl e la liberazione dei lavoratori, difendeva la liberazione dal lavoro: l’ozio.
Anche sulle poco indagate matrici libertarie dell’Allende-pensiero» ritorna Patricio Guzmàn nel bellissimo ritratto dedicato al leader «suicidato» dal golpe militare del 1973. Il suo documentario Sai vadorAllende sarà nei cinema italiani dal 2 settembre.
«Salvador un leninista? Con me parlava solo della Rivoluzione francese. Idee come “Partito unico” o “Dittatura del proletariato” gli erano estranee» dice a un certo punto Sergio Vuskovic, ex sindaco di Valparaiso, la città in cui Allende era nato nel 1908. Testimonianze, trascinanti immagini di repertorio, incursioni, camera in spalla, nel Cile di oggi, dove, alla parola «Allende», la gente vi sbatte la porta in faccia oppure ricorda gli anni dell’Unidad Popular come una grande favola collettiva ma ormai risucchiata dal tempo. «Il Cile è un Paese poco loquace» dice il regista. «È un’isola, stretto tra le Ande e il mare. All’epoca gli “allendisti” erano circa quattro milioni e mezzo di persone. Oggi sono quasi tutti ancora in vita. Nelle loro case trovi calendari con le foto di Allende o di Pablo Neruda, ma è gente dispersa e silenziosa. Spero reagisca alla proiezione del documentario, che sarà presentato in Cile in contemporanea con l’uscita in Italia».
Il materiale di repertorio è abbondante? «No, la maggior parte delle sequenze in bianco e nero le girai io in quei giorni. Tra quelle provenienti da altri archivi avrei voluto inserire l’intervista che Allende concesse a Roberto Rossellini ma alla fine ho rinunciato: faccia a faccia, i due personaggi mi sembravano irrigiditi, nervosi, poco naturali».
Il lavoro di Patricio Guzmàn sulla memoria è fisico, l’obiettivo indugia silenzioso sui corpi e gli oggetti: mani di donna che riempiono grossi ravioli, pittori di murales che impastano colori, oppure gli effetti personali che il Presidente aveva su di sé al momento della morte: il portafoglio, l’orologio, la tessera del partito socialista, la fascia tricolore cilena. Per non parlare dei celebri occhiali dalla montatura scura. Anche se ne resta solo metà, sono esposti in una teca di museo. «Allende se li era tolti, quell’11 settembre al Palazzo della Moneda, prima di piazzarsi una mitraglietta tra le gambe e farsi saltare la testa» ricorda un uomo del suo entourage.
I1 fisico rotondo, antieroico, borghese, lo sguardo dolente, ironico, quasi presago, EI Chicho (Il Riccioluto, come lo soprannominavano per la capigliatura) non si sarebbe mai prestato a quel culto della personalità che ancora oggi irretisce troppi leader latinoamericani di ogni fede politica. «Non ho la pasta del santo, dell’apostolo, del martire: sono un combattente sociale» diceva in un famoso, drammatico, discorso alla vigilia del golpe.
Ma chi l’ha conosciuto lo ricorda anche come un urnanissimo bon vivant, galante, che amava il vino, le giacche di tweed, l’umorismo, i western all’italiana. Però le macchine del corteo presidenziale erano sette utilitarie: Fiat 126. Da piccolo vestiva alla marinara, era figlio della borghesia progressista e massonica, massone a sua volta, ma nel senso tutto retrò di «libero pensatore». Fu la sua professione di medico a gettarlo tra le disgrazie dei poveracci d’uno fra i Paesi più ricchi del Sudamerica. Tra i suoi peccati mortali ci fu quello di aver «tradito» la propria classe. E certa borghesia odia più d’ogni altro chi le volta le spalle. A riprova, gli anatemi schiumanti, quasi vudù, che, in immagini d’archivio, una manifestante anti-Allende scagliava contro il Presidente e la sua «cricca marxista».
Eppure, ricorda Guzmàn «aveva l’aspetto rassicurante del vecchio parlamentare, lo stile dell’uomo politico liberale dell’Ottocento, sempre elegante ma sobrio, allergico a qualsiasi forma di stravaganza e protagonismo. Diversissimo, in questo dall’amico Fidel Castro». Certo, EI Chicho espropriava, nazionalizzava, tuonava all’Onu contro le multinazionali ma - forse proprio in forza della propria formazione «illuminista» - non derogò mai alle idee di parlamentarismo, rispetto della legalità, socialismo democratico. Gli ingredienti che fanno ancora della revoluciòn a la chilena un esperimento quasi unico nel panorama sudamericano. E che però - seppur con la possente spallata della Cia - contribuirono al suo fallimento. La solitudine di Allende con l’elmetto, circondato da un pugno di sodali durante il tragico epilogo alla Moneda, è anche la solitudine storica del suo tentativo politico.
Quali furono i suoi errori? «Difficile dirlo» spiega Patricio Guzmàn, «se avesse portato a termine il mandato avrebbe indetto un plebiscito per chiedere ai cileni se continuare o meno sulla strada delle riforme. E sono quasi certo che la sinistra avrebbe vinto. Il lato debole fu la sua politica nei confronti delle Forze armate. Lavorò insieme ai militari fedeli alla Costituzione, ma non fu sufficiente: quando quei generali furono scalzati dai duri si ritrovò isolato».
A trentadue anni di distanza, l’esperienza di Unidad Popular appare avvolta nella stessa aura mitica e patetica della rivoluzione libertaria Catalana all’inizio della Guerra civile di Spagna. Esperienza controversa, spezzata come gli occhiali alla Woody Allen del Presidente: così vecchia maniera. Poi arrivarono quelli dal taglio crudele di Augusto Pinochet. Scuri, impenetrabili, come il vetro di una limousine d’ordinanza.
Da Il Venerdì di Repubblica del 26 agosto 2005


di Marco Cicala,

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