Maria Pia Fusco
La Repubblica
Un uomo si muove nell’ambiente scarno di una cucina povera, si siede al tavolo, prende il caffè, si alza di nuovo, cerca lo zucchero, torna a sedersi. In un angolo, appollaiato su un alto sgabello di legno, un altro uomo registra su un quaderno i tempi e i movimenti, in silenzio. Sono l”osservato” e l”osservatore, protagonisti di Kitchen stories-Racconti di cucina, il film dei norvegese Bent Hamer (candidato all’Oscar dal suo paese). Una storia di finzione «ispirata dalla realtà, quando nel dopoguerra grandi mobilifici svedesi come i’Ikea fecero un’indagine accurata sulle abitudine domestiche per costruire cucine ideali e razionali, che, come diceva una pubblicità d’epoca, anziché camminare l’equivalente di un viaggio dalla Svezia al Congo, per portare il cibo in tavola le casalinghe svedesi potessero coprire la distanza solo dalla Svezia all’Italia», dice il regista.
Il film comincia con un montaggio di documenti d’archivio che ripropongono immagini d’epoca, poi, dice Hamer, «comincia la finzione. Per rendere più estrema la situazione, si immagina che gli incaricati svedesi svolgano l’indagine in uno sperduto villaggio della Norvegia in case di uomini singoli, per i quali, per altro, nella povertà generale dei tempo, la cucina non aveva nessuna importanza, il cibo significava solo assumere le calorie necessarie, non come in Italia dove anche nella miseria c’è il culto del cibo».
Kitchen stories è una commedia che ironizza con intelligenza «sulla fede nei positivismo così forte nella nostra cultura nordica, sui contrasti antichi tra svedesi e norvegesi, sulla fiducia eccessiva nell’osservazione oggettiva - quasi un antesignano del Grande Fratello - soprattutto in un rapporto a due ruoli si scambiano, l’osservato diventa osservatore». Come accade nel film, dove il divieto di comunicazione imposto nell’indagine, viene lentamente disatteso, la curiosità di conoscersi prevale, dapprima in momenti conflittuali, poi in un incontro di persone.
«Penso che se in tante situazioni contrattuali si rompessero le regole, culturali o di autorità, che impediscono la comunicazione, il mondo sarebbe migliore. Penso ad Israele e alla Palestina, ma non vorrei sembrare pretenzioso, sarei contento se al pubblico arrivasse semplicemente la vicenda di due uomini che, insieme in una stanza con l’obbligo di non parlarsi, si ribellano ai divieti e scoprono il valore dell’amicizia. Per questo abbiamo scelto due uomini protagonisti, per evitare che nel rapporto ci fossero implicazioni erotiche o sentimentali», dice il regista e scherza: «Non ho mai saputo quanto la vita delle donne sia migliorata con le cucine svedesi, ma che l’Ikea abbia invaso il mondo è una realtà».
Da La Repubblica, 20 dicembre 2003
di Maria Pia Fusco, 20 dicembre 2003