Irene Bignardi
La Repubblica
Ma quando recitano una scena d’amore gli attori fanno veramente l’amore? Il quesito è di quelli che ogni spettatore cinematografico si è posto almeno una volta nella vita, e almeno dai tempi di A Venezia... un dicembre rosso shocking (ricordate l’aria di verità del vertiginoso amplesso tra Julie Christie e Donald Sutherland?). Prima, in età più innocenti, ci si limitava a chiedersi se erano veri i baci.
Nel film di Abel Ferrara Snake Eye (Occhi di serpente, ma nel gergo dei dadi significa “il colpo più basso che si possa fare”, insomma, la sfortuna nera), c’è una risposta al quesito. Sì, lo fanno sul serio. O almeno lo fa sul serio, con una rabbia che sfiora il raptus dello stupro, James Russo (che conosciamo come il violentatore di Farrah Fawcett in Oltre ogni limite), l’interprete di Mother of Mirrors, il film dal titolo quanto mai allusivo che sta girando il regista Harvey Keitel. La sua partner cinematografica - e vittima di questa concezione stanislavskiana della recitazione - è Madonna, che nel film di Ferrara è una star tele-visiva approdata tra la diffidenza generale al suo primo film importante.
Qualcuno potrebbe pensare che Madonna - Sarah Jennings se l’è voluta. Perché, secondo la migliore tradizione delle confusioni sessuali e sentimentali che i set incoraggiano, cancellando nel gioco dell’identificazione la sottile distinzione tra realtà e finzione, tra la vita quotidiana e il cinema, prima la signora se l’è fatta con l’attore, poi con il regista. E la trama del film in lavorazione - che racconta come un matrimonio cominciato sotto la triade sex, drugs and rock’n roil vada in crisi quando lei non vuole più starci per passare a più miti consigli borghesi - non è di quelle che lascino tranquilli i protagonisti. Anche perché Harvey Keitel, nel suo ruolo di regista, li incalza, li incoraggia all’identificazione, li provoca, fa irrompere la realtà nel copione. E ci mette, dal canto suo, la propria noia matrimoniale (ad apertura del film assistiamo a una cenetta in famiglia a base di spaghetti, condotta secondo i rituali delle carinerie domestiche un po’ fasulle) e la crisi che la presenza di Sarah porta nel suo precario equilibrio.
Potrebbe essere solo l’ennesimo film sul film, la versione hard di Effetto notte (e vale anche ora quello che diceva Valentina Cortese nell’incantevole e amarognolo film di Truffaut: che noia, fare cinema, non si fa altro che aspettare). Invece Abel Ferrara, dimenticati gli eccessi mania-cali di Il cattivo tenente e la parentesi facilmente e banalmente spettacolare di Ultracorpi - L’invasione continua, per raccontare il set di questo falso film d’arte sempre pronto a finire nel porno scopre una vena di indagine psicologica crudele, e rivela un occhio così impietoso da riuscire a fare un ritratto inedito di un ambiente che sullo schermo abbiamo rivisto in tutte le salse. Sta addosso agli attori, li incalza a pochi centimetri dal viso, fa ripercorrere allo spettatore il tormento, la pazzia e il paradosso di incarnare sentimenti che non ci sono, e che l’ambiente del set cerca di surrogare inventando passioni e dolori destinati a esaurirsi con l’ultimo ciak (e che nel gergo della tribù cinematografica hanno la sigla ONDC, “on location it doesn’t count”, durante la lavorazione non conta).
Occhi di serpente decolla lentamente, ma prende forza a mano a mano che si procede nell’intreccio dei suoi molti livelli. Buona parte dell’interessante risultato va attribuita a Madonna, che in questo gioco delle diverse identità si rivela un’autentica attrice drammatica, capace di passare dalla volgarità all’intensità, dalle risatacce ai silenzi. E Harvey Keitel - che nel film non ha nome, ma nel ciak usato sul set si chiama Abel Ferrara - dà corpo con la sua consueta forza a un personaggio egoista, sbruffone, presuntuoso e insieme vero che, si direbbe da come è scritto, racconta un pezzo di bruciante autobiografia.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996