Scarface

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La cicatrice indelebile del cinema Valutazione 5 stelle su cinque

di Flegiàs TN


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martedì 1 aprile 2008

(…) Scarface di Hawks rifletteva una realtà ben precisa: il fenomeno del banditismo organizzato durante il proibizionismo. Praticamente tutte le scene del film avevano un aggancio con fatti realmente accaduti: il massacro di San Valentino, la guerra tra gang rivali per il controllo del South Side di Chicago, l'assassinio di O'Hara nel suo negozio di fiori. Ovviamente, la figura stessa di Tony Camonte adombrava quella del mitico Al Capone. Hawks descriveva l'ascesa e la caduta di un capo nel mondo parallelo del crimine: non lo faceva in maniera pedantemente realistica ma con una forte carica di ambiguità, sia dal punto di vista strutturale (le forti tinte espressioniste, per esempio) che dal punto di vista sociale. Perché è pur vero che se la tesi - secondo i principi del codice Hays - doveva essere «il crimine non paga», Hawks la tradiva silenziosamente, dotando il brutale Camonte di una sorta di primitiva innocenza a cui si legava (e si lega ancor oggi) l'inconscio dello spettatore, una illusione di invulnerabilità di cui Tony stesso è la prima vittima e il pubblico la seconda. È il medesimo fascino oltraggioso di Cagney in Furia umana e di Robinson in Piccolo Cesare, tanto più carismatico della corruzione dei loro gangster rivali o degli anonimi (e altrettanto brutali) poliziotti. Il film noir degli anni trenta rieditava il mito americano del self-made man in chiave criminale, regalava allo spettatore nel buio della sala l'illusione di un modello che invece combatteva nella vita di tutti i giorni. Tutti i grandi film di questo genere classico nascevano da questa fertile ambiguità, dal conflitto tra moralità legale e trasgressione. Le forche caudine del codice Hays costringevano gli autori per narrare le loro storie à inventare splendidi linguaggi allusivi. Che senso ha oggi realizzare un nuovo Scarface, in un'epoca di recessione economica e morale, in cui il capobanda non porta più il mitra ma traffica con banche e imprese, quando la lotta per il potere non riguarda più gli individui ma le organizzazioni? Sembra che De Palma e Oliver Stone, il suo sceneggiatore, non si siano posti il problema più di tanto, individuando invece nel testo dello Scarface hawksiano - su intuizione di Martin Bregman, il produttore - una autosufficienza cinematografica da rimaneggiare con semplici riferimenti d'attualità. Tony Camonte, immigrato illegale italiano, diventa Tony Montana, delinquente cubano con la sua brava green card ottenuta con l'omicidio; lo spaccio della birra durante il proibizionismo si trasforma nel commercio all'ingrosso di cocaina; le armi non sono più i mitra (una meraviglia tecnologica per Camonte) ma i bazooka, le bombe telecomandate, le motoseghe. Certo, il sogno è rimasto lo stesso: arrivare. Conquistare il successo, il potere, il denaro. Ma Hollywood ha speso gli ultimi dieci anni - almeno per quanto riguarda i suoi auteurs - nella dimostrazione della vacuità di quel sogno, della sua inattingibilità e - ancor più malinconicamente - della sua inconsistenza umana. La cifra della parabola di Montana è sostanzialmente diversa da quella di Camonte. Quest'ultimo era spinto da una volontà di autoaffermazione quasi fine a se stessa, la distillazione pressoché astratta (e perciò illegale) dello spirito della frontiera. Montana non è altrettanto «puro»: è semplicemente alla feroce caccia di status symbols - la villa faraonica, le macchine di lusso, i vestiti costosi, la donna fatale. Mentre a Camonte non passa mai per la testa di verificare la natura del suo successo, Montana si scopre a un certo punto improbabile moralista. Steso nel suo bagno di schiuma commenta acidamente la vanità della ricchezza e il cinismo ipocrita della società ufficiale: come Kane in Quarto potere, al colmo della potenza vagheggia l'innocenza perduta della gioventù. La forza shakespeariana di Welles, però, è una cosa ben diversa dai sofismi estemporanei del mafioso di De Palma, che non è in grado di descrivere credibilmente lo sviluppo «epico» del suo personaggio nonostante le quasi tre ore di durata. La crisi di Tony Montana è semplicemente «data», così come estremamente artefatta risulta la meccanica della sua disgrazia. È possibile che lui, macchina di sterminio, killer spietato e senza scrupoli per tre quarti del film, si faccia all'improvviso commuovere dalla presenza di due bambini sconosciuti sull'auto della vittima designata? Nel film di Hawks la dinamica dell'autodistruzione era tutta interna al personaggio (che diventava così davvero epico): Tony Camonte crolla quando, nella sua furia devastatrice, comincia a massacrare anche il suo clan. È interessante confrontare lo sviluppo rispettivamente dato da Hawks e De Palma al tema dell'amore incestuoso di Tony per la sorella. Nel vecchio Scarface il tabù è continuamente alluso - anche in maniera erotica - e si basa sulla fondamentale identità del carattere tra i due fratelli (alla fine Cesca, nonostante Tony le abbia ucciso il marito, si schiera di nuovo al suo fianco contro la polizia: Hawks mira ad evocare l'irrazionale magica potenza dell'impulso distruttivo che domina i Camonte). De Palma opta invece per una soluzione da tragedia (non certo epica): la scoperta del tabù causa la morte del protagonista e la catarsi della sua «vittima». (…) De Palma punta proprio su questi effetti pesantemente teatrali per comunicarci il tono grandioso della vicenda di Tony. Anche la sua morte (imbottito di coca e crivellato di proiettili trova la forza di arringare i killer sulla sua invulnerabilità) ha qualcosa di baracconesco, anche se di vagamente familiare nel cinema di De Palma. (…) Rimangono gli effimeri piaceri dell'effettismo che segna, nonostante tutto, i momenti migliori del film. La cruenta e quasi insopportabile sequenza del motel, con i suoi lenti e inquietanti dolly e i violenti primi piani, è un bell'esempio di grand guignol in puro stile De Palma, così come la sparatoria finale a colpi di bazooka. (…)

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mary 93 giovedì 25 dicembre 2008
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