fabio57
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mercoledì 17 febbraio 2016
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straordinario
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Straordinario film che rivede e rovescia i canoni abituali del western classico.Hoffman è semplicemente subblime,offrendo forse una delle più memorabili interpretazioni.Da vedere assolutamente
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aristoteles
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giovedì 3 settembre 2015
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piccola grande ironia
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Il film mi è piaciuto e fino all'ultima scena l'ho seguito con grande piacere.
Questa storia di un ragazzo bianco adottato dagli indiani è veramente interessante.
Chiaramente Arthur Penn ha voluto immergere tutta la pellicola in un pentolone di ironia.
Questa scelta ,a volte funziona, regalando leggerezza e allegria,altre volte eccede e infastidisce.
Custer ,su tutti,è dipinto come un demente assoluto,la signora Pendrake è una ninfomane incallita,il nonno indiano "funziona" già di più ma comunque dargli del rimambito è il minimo che si possa fare,e così via anche per tanti altri personaggi minori.
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Il film mi è piaciuto e fino all'ultima scena l'ho seguito con grande piacere.
Questa storia di un ragazzo bianco adottato dagli indiani è veramente interessante.
Chiaramente Arthur Penn ha voluto immergere tutta la pellicola in un pentolone di ironia.
Questa scelta ,a volte funziona, regalando leggerezza e allegria,altre volte eccede e infastidisce.
Custer ,su tutti,è dipinto come un demente assoluto,la signora Pendrake è una ninfomane incallita,il nonno indiano "funziona" già di più ma comunque dargli del rimambito è il minimo che si possa fare,e così via anche per tanti altri personaggi minori.
Lo stesso Jack ,sballottato in un eccessivo ping pong tra la tribù indiana e il popolo dei bianchi,pecca in credibilità.
Tuttavia l'interpretazione di Hoffman è assolutamente strepitosa.
La parte degli eroi buoni è affidata agli indiani ,che è stato un popolo veramente maltrattato e ha subito crudeltà inenarrabili,da parte di un'America "bianca" che si spaccia,ancora oggi,per difensore massimo della giustizia e della moralità.
Consigliabilissimo.
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great steven
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venerdì 6 giugno 2014
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uno dei più apprezzabili western revisionisti.
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PICCOLO GRANDE UOMO (USA, 1970) diretto da ARTHUR PENN. Interpretato da DUSTIN HOFFMAN – FAYE DUNAWAY – MARTIN BALSAM – CHIEF DAN GEORGE – RICHARD MULLIGAN – JEFF COREY – AIMEE ECCLES § All’età di 121 anni Jack Crabb racconta ad un giornalista le sue avventure nel West: di come, decenne, fu rapito dai pellerossa insieme alla sorella maggiore e poi, tornando giovanotto fra i "visi pallidi", imparò i principi religiosi da un pastore protestante e il sesso da sua moglie, per diventare successivamente venditore di alambicchi, pistolero, pioniere, eremita e soldato-mulattiere, passando per la strage di Washita e la disastrosa battaglia di Little Big Horn, incontrando personaggi famosi e leggendari quali il generale George Armstrong Custer, il bandito Wild Bill Hickok e il cacciatore di bisonti Buffalo Bill.
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PICCOLO GRANDE UOMO (USA, 1970) diretto da ARTHUR PENN. Interpretato da DUSTIN HOFFMAN – FAYE DUNAWAY – MARTIN BALSAM – CHIEF DAN GEORGE – RICHARD MULLIGAN – JEFF COREY – AIMEE ECCLES § All’età di 121 anni Jack Crabb racconta ad un giornalista le sue avventure nel West: di come, decenne, fu rapito dai pellerossa insieme alla sorella maggiore e poi, tornando giovanotto fra i "visi pallidi", imparò i principi religiosi da un pastore protestante e il sesso da sua moglie, per diventare successivamente venditore di alambicchi, pistolero, pioniere, eremita e soldato-mulattiere, passando per la strage di Washita e la disastrosa battaglia di Little Big Horn, incontrando personaggi famosi e leggendari quali il generale George Armstrong Custer, il bandito Wild Bill Hickok e il cacciatore di bisonti Buffalo Bill. Passò più volte dal mondo degli indiani a quello dei bianchi e viceversa, rivedendo vecchie conoscenze quali la moglie del religioso (divenuta prostituta in una casa di tolleranza), il proprietario degli antidoti con la mania della mutilazione e Cotenna Di Bisonte e gli altri compagni della tribù pacifica dei sioux. A. Penn ha diretto con sapiente mestiere ed eccellente professionalità un western revisionista che, come altri usciti in quello stesso periodo (come ad esempio Un uomo chiamato cavallo), si distacca dalla visione degli indiani intesi come nemici degli statunitensi e sanguinari tagliagole e li inquadra in una visuale più positiva attribuendo loro ruoli di primo piano e protagonistici nel riadattare l’epopea della conquista del West, delle grandi scorrerie della cavalleria e delle antiche usanze dei nativi americani sul continente desertico. Ne esce fuori, grazie alla sceneggiatura di Calder Willingham che ha adattato l’omonimo romanzo di Thomas Berger, un western anormale e unico nel suo genere, che attinge sia dal racconto filosofico illuminista francese del Settecento (il Candide di Voltaire) che dal romanzo picaresco spagnolo del Seicento (il Don Chisciotte di Cervantes). La smitizzazione dei miti bianchi si presenta come una rivisitazione un po’ prolissa ma assolutamente esaustiva e preparata degli eventi che segnarono la storia ottocentesca del Nuovo Mondo, accompagnata da un miscuglio tragicomico che mescola realtà e finzione, bugie e verità nel racconto appassionato e pacato di Crabb mentre rammenta le vicende di cui si rese protagonista tanto come millantatore quanto come uomo onesto. Di tutto rispetto la recitazione dei personaggi principali, a partire dallo straordinario Hoffman (all’apice del suo istrionismo caloroso e portentoso), seguendo poi con la disinibita e procace F. Dunaway (da poco reduce del successo di Gangster Story, 1967), l’idiota militarista e avido di R. Mulligan, il grottesco e ingombrante M. Balsam (già apparso dieci anni prima in Psyco e Tutti a casa), il vecchio, saggio e ingenuo capo indiano di C. D. George. Ottima fotografia che ritrae a colori (Technicolor) i paesaggi statunitensi agresti e urbani che popolano queste eccezionali sequenze di supremo cinema con un tocco magico e carezzevole, mentre le scene d’azione si alternano ai momenti di riflessione seguendo un percorso di escalation meravigliosa e fantastica che toglie al film ogni passaggio di noia e gli aggiunge dinamismo, velocità e cipiglio conciso. Le scene migliori: la prima battuta di caccia del giovane piccolo grande uomo; l’elefante nel bar dalla cui proboscide esce il cioccolato liquido; il tiro al bersaglio con le bottiglie di vetro; il ritorno presso i sioux passando attraverso la valle montuosa; il rapimento della moglie teutonica dagli indiani sulla carrozza in corsa inseguita dai cavalli; la battaglia contro gli indigeni presso il canneto-boschetto fluviale; la strage degli indiani dopo i rapporti sessuali con le donne indiane nella spianata innevata; la disfatta a Little Big Horn; la tentata ascensione al cielo che chiude magistralmente la pellicola. Nemmeno un Oscar.
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gandalfefrodo
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mercoledì 1 gennaio 2014
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film straordinario
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Se mi chiedessero quale film, avendone la possibilità, vorrei recitare come protagonista, risponderei: Piccolo Grande Uomo. Perchè è un film che trascende la dimensione personale della storia di Jack Crabb sfruttandola per affrontare praticamente tutti i temi universali della Storia Umana. E' il film dei film. Non è mai prolisso. Non è mai, o quasi, melodrammatico. Non è "politically correct", grazie al cielo. E' semplicemente perfetto. Lo scopo del cinema è prima di tutto suscitare le emozioni profonde dello spettatore, e se possibile farlo riflettere sui temi importanti, addirittura cambiare il modo di pensare della gente. Non è letteratura, non è teatro, non è pittura. Deve rifuggere dagli intellettualismi autoreferenzianti.
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Se mi chiedessero quale film, avendone la possibilità, vorrei recitare come protagonista, risponderei: Piccolo Grande Uomo. Perchè è un film che trascende la dimensione personale della storia di Jack Crabb sfruttandola per affrontare praticamente tutti i temi universali della Storia Umana. E' il film dei film. Non è mai prolisso. Non è mai, o quasi, melodrammatico. Non è "politically correct", grazie al cielo. E' semplicemente perfetto. Lo scopo del cinema è prima di tutto suscitare le emozioni profonde dello spettatore, e se possibile farlo riflettere sui temi importanti, addirittura cambiare il modo di pensare della gente. Non è letteratura, non è teatro, non è pittura. Deve rifuggere dagli intellettualismi autoreferenzianti. Gli intellettuali scrivano libri e saggi, non facciano cinema. Ma non deve neanche essere, secondo me, solo spettacolo, azione, effetti speciali. Quando ho visto questo film la prima volta, sono rimasto a bocca aperta, senza fiato dal primo all'ultimo minuto.
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anton chigurh
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giovedì 28 marzo 2013
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emozione su celluloide
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Sarò concreto, come lo è il film, nonostante l'ingannevole durata. Un film capace di conquistare il cuore dello spettatore. Dal punto di vista del coinvolgimento emotivo, merita le famose 5 stelle. Capace di far sorridere, ridere, arrabbiare, piangere, gioire, pensare lo spettatore. È un film emozionante,e sicuramente quando i fratelli Lumiere pensavano agli innumerevoli fini della loro rivoluzionaria invenzione, credo che emozionare il prossimo fosse tra le loro più nobili e immediate aspettative. Aspettative centrate,nel caso di codesta proiezione. Un film che fa dell'umanità(non troppo smielata) il suo punto di forza. Il titolo "Little big man", la dice lunga, sulla completezza del nostro protagonista(eccelso Hoffman)con le sue sfaccettature,sfumature, a volte anche di umana(e opportunisticamente divertentissima,come nel primo incontro da adulto coi bianchi,ma anche nobile, quando egli si libera delle sue pistole dopo aver visto il vero volto di cio che concerne l'essere pistoleri)codardia.
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Sarò concreto, come lo è il film, nonostante l'ingannevole durata. Un film capace di conquistare il cuore dello spettatore. Dal punto di vista del coinvolgimento emotivo, merita le famose 5 stelle. Capace di far sorridere, ridere, arrabbiare, piangere, gioire, pensare lo spettatore. È un film emozionante,e sicuramente quando i fratelli Lumiere pensavano agli innumerevoli fini della loro rivoluzionaria invenzione, credo che emozionare il prossimo fosse tra le loro più nobili e immediate aspettative. Aspettative centrate,nel caso di codesta proiezione. Un film che fa dell'umanità(non troppo smielata) il suo punto di forza. Il titolo "Little big man", la dice lunga, sulla completezza del nostro protagonista(eccelso Hoffman)con le sue sfaccettature,sfumature, a volte anche di umana(e opportunisticamente divertentissima,come nel primo incontro da adulto coi bianchi,ma anche nobile, quando egli si libera delle sue pistole dopo aver visto il vero volto di cio che concerne l'essere pistoleri)codardia. Oltre alla parte emozionale, che per me potrebbe essere soggettiva, bisogna fare un elogio alla scorrevolezza della sceneggiatura, allo spessore di alcuni personaggi(Cotenna di Bisonte, Orso Giovane,Ombra, la signora Pendrake,e non solo) merito di un buon romanzo sicuramente,ma ottime per quanto riguarda la trasposizione cinematografica ottima la regia,le interpretazioni, la scenografia e i costumi, e buonissima la fotografia,a mio modesto giudizio, anche se non è questo il fulcro del film.Spettacolare il trucco di Hoffman invecchiato. Alcune frasi e dialoghi sono indimenticabili. Crudo e realista nelle scene di violenza, edulcoratissimo al confronto nelle scene(anzi, nella scena)di sess (un po di bacchettonismo congenito d'epoca?) Difetti? Ce ne sono. Ma amo troppo questo film per darci peso,e non solo per questo motivo affettivo, ma anche oggettivamente. E poi la perfezione non esiste, o almeno non è detto sappia emozionare. Non così . Buona visione.
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paraclitus
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lunedì 20 agosto 2012
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ottimo
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Secondo me di gran lunga il miglior western mai girato. E' un po' dissacrante ma è interessante notare la differenza fra l' iconoclastia pacifista di quegli anni e il compiaciuto nichilismo totale estetizzante e violento di oggi.
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oillut
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giovedì 13 ottobre 2011
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un film eterno.
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Un grande Chief Dan George per un vero capo indiano, certo questo artista avrebbe meritato ben altra considerazione dalla grande famiglia del cinema. Anche se oggi fosse uscito nelle sale, questo film avrebbe avuto gli stessi apprezzamenti di allora. Una grande opera!
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gianni lucini
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martedì 27 settembre 2011
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jack crabb, una bella sfida per hoffman
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Il personaggio di Jack Crabb è una bella sfida per Dustin Hoffman. È proprio il regista Arthur Penn l’artefica di questa scelta nonostante le obiezioni di chi pensa che l’attore sia poco adatto alle evoluzioni della storia. Poliedrico, capace di reazioni inaspettate di fronte ai repentini cambiamenti della sua vita, capace a volte di aggiustare con l’ironia i momenti più drammatici, mezzo bianco e mezzo Cheyenne, Crabb costringe Hoffman a dar fondo alle tecniche apprese all’Actor’s Studio più di quanto gli sia accaduto fino a quel momento. Come sempre lui non lascia nulla al caso. Vive per qualche tempo a stretto contatto con i Cheyenne, si immerge nella loro cultura, impara a cavalcare come loro ne condivide la lingua.
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Il personaggio di Jack Crabb è una bella sfida per Dustin Hoffman. È proprio il regista Arthur Penn l’artefica di questa scelta nonostante le obiezioni di chi pensa che l’attore sia poco adatto alle evoluzioni della storia. Poliedrico, capace di reazioni inaspettate di fronte ai repentini cambiamenti della sua vita, capace a volte di aggiustare con l’ironia i momenti più drammatici, mezzo bianco e mezzo Cheyenne, Crabb costringe Hoffman a dar fondo alle tecniche apprese all’Actor’s Studio più di quanto gli sia accaduto fino a quel momento. Come sempre lui non lascia nulla al caso. Vive per qualche tempo a stretto contatto con i Cheyenne, si immerge nella loro cultura, impara a cavalcare come loro ne condivide la lingua. Contemporaneamente però non può e non deve dimenticarsi di essere un bianco “prestato” ai nativi americani da un destino particolare. Il lavoro che l’aspetta è, quindi, doppio. Da un lato deve essere credibile come figlio adottivo del capo tribù Cotenna di Bisonte e dall’altro non può completare la trasformazione perché la storia prevede costanti e credibili ritorni nel mondo cosiddetto “civilizzato” dei bianchi. In più il suo personaggio deve fare anche da collante in una narrazione che a volte usa l’ironia per demistificare luoghi comuni e stereotipi. Un esempio è la famosa scena nella quale si scontra da cheyenne con un drappello di “soldati blu” e trovatosi in difficoltà, temendo per la sua vita, cerca di convincere il soldato con il quale sta lottando di essere un bianco lanciando varie frasi imparate da bambino. Quando lo convince e può essere certo di non rischiare più nulla osserva con aria sorniona: «Non mi hai sentito gridare "Viva Giorgio Washington!" e "Benedetta mia madre!"? Ma quale indiano direbbe delle cretinate del genere?». Sente il ruolo e cerca di renderlo al meglio senza eccessi di teatralizzazione. Integra il dialogo con una recitazione perfetta grazie anche all’efficacia di una mimica facciale misurata e una gestualità più evidente ma meno esasperata di quella utilizzata in altre occasioni. Indiano tra gli indiani, bianco tra i bianchi, Dustin Hoffman recupera un po’ la maschera già indossata nel ruolo del giovane Benjamin ne “Il laureato” quando deve interpretare il primo “ritorno” nel mondo civilizzato del giovane Crabb, affidato alle cure della famiglia del reverendo Pendrake e della sua provocante signora.
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gianni lucini
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martedì 27 settembre 2011
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la trilogia che riscrive il west di hollywood
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Nel 1970 “Il piccolo grande uomo” compone con “Soldato blu” di Ralph Nelson e “Un uomo chiamato cavallo” di Elliott Silverstein, una trilogia di pellicole di culto con le quali il cinema opera una vera e propria riscrittura della narrazione filmica della storia degli Stati Uniti. Salvo in rarissime eccezioni come “L’ultimo apache” di Robert Aldrich nel 1955, lo schema hollywoodiano dell’epopea “della frontiera” vedeva infatti i colonizzatori bianchi e le loro truppe nella parte dei buoni inspiegabilmente aggrediti dai cattivi e selvaggi “indiani”. I tre film, usciti quasi in contemporanea, raccolgono e portano su grande schermo una sensazione molto diffusa nel paese, alle prese con la cattiva coscienza della guerra del Vietnam e i grandi movimenti giovanili che sognano la libertà, la pace e il ritorno alla natura.
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Nel 1970 “Il piccolo grande uomo” compone con “Soldato blu” di Ralph Nelson e “Un uomo chiamato cavallo” di Elliott Silverstein, una trilogia di pellicole di culto con le quali il cinema opera una vera e propria riscrittura della narrazione filmica della storia degli Stati Uniti. Salvo in rarissime eccezioni come “L’ultimo apache” di Robert Aldrich nel 1955, lo schema hollywoodiano dell’epopea “della frontiera” vedeva infatti i colonizzatori bianchi e le loro truppe nella parte dei buoni inspiegabilmente aggrediti dai cattivi e selvaggi “indiani”. I tre film, usciti quasi in contemporanea, raccolgono e portano su grande schermo una sensazione molto diffusa nel paese, alle prese con la cattiva coscienza della guerra del Vietnam e i grandi movimenti giovanili che sognano la libertà, la pace e il ritorno alla natura. Non è un caso che sempre nello stesso anno, tra i libri più venduti nel paese, ci sia “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” di Dee Brown, che affronta con lo stesso taglio lo stesso argomento. L’odissea dei nativi americani e la riscoperta della loro cultura regalano soprattutto ai giovani che sognano di cambiare il mondo nuove suggestioni ma, soprattutto, un modello di comunità dello spirito in grado di contrapporsi agli stili di vita dei cittadini bianchi occidentali. Della citata trilogia “Il piccolo grande uomo” è quello che, fin dal taglio narrativo, mostra di essere più cosciente del senso e delle motivazioni profonde dell’operazione culturale. Il collegamento tra passato e presente è esplicito nella scelta di affidare a un centoventunenne Jack Crabb il compito di annodare il filo narrativo. Alla sua voce di bianco che ne ha viste di ogni genere e alle sue impressioni è delegato il compito di affrontare la questione del rapporto fra i colonizzatori a stelle e strisce e gli indigeni. Lo fa sfuggendo alla facile trappola del semplice rovesciamento dello schema con i bianchi che diventano cattivi e gli indiani buoni. Più che schierarsi dalla parte di questi ultimi il film compie un’operazione più articolata e complessa puntando soprattutto a mostrarli per quello che sono: un popolo con una cultura diversa da quella dei bianchi, orgogliosamente libera e pacifica, e non dei barbari aggressori di inermi coloni come nella tradizione delle storie di frontiera. Il regista evita anche gli accenni retorici, sempre possibili in questo tipo di narrazione lasciando allo spettatore la possibilità di farsi un’opinione man mano che la storia prende corpo e si sviluppa. La chiave la forniscono i passaggi, spesso repentini, del protagonista dal corrotto, violento e sostanzialmente ignorante mondo dei bianchi al semplice ma tutt’altro che superficiale arcipelago delle antiche culture dei nativi americani.
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robertone65
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mercoledì 13 aprile 2011
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non sono solo gli americani a sbagliare!
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Premettendo che i film, al giorno d'oggi, sono quasi sempre antimilitaristi, antioccidentali e antigiustizia, sostengo l'idea che tutti questi registi come Arthur Penn, invece di far caso agli orrori dei Pellirossa abituati peggio degli animali, o dei Soviet che hanno ucciso 300 milioni e passa di connazionali, guardano invece le ingiustizie americane, che sono pochissime rispetto a quelle dei rivoluzionari cubani e vietnamiti, che volevano togliere i regimi democratici dai loro paesi.
Ormai questo stile cinematografico esagera, arrivando come "Platoon" a mostrare le uccisioni di civili da parte di un sergente dei Marines, invece che mostrare gli arresti ingiusti e le condanne a morte vomitevoli dei soldati di Stalin.
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Premettendo che i film, al giorno d'oggi, sono quasi sempre antimilitaristi, antioccidentali e antigiustizia, sostengo l'idea che tutti questi registi come Arthur Penn, invece di far caso agli orrori dei Pellirossa abituati peggio degli animali, o dei Soviet che hanno ucciso 300 milioni e passa di connazionali, guardano invece le ingiustizie americane, che sono pochissime rispetto a quelle dei rivoluzionari cubani e vietnamiti, che volevano togliere i regimi democratici dai loro paesi.
Ormai questo stile cinematografico esagera, arrivando come "Platoon" a mostrare le uccisioni di civili da parte di un sergente dei Marines, invece che mostrare gli arresti ingiusti e le condanne a morte vomitevoli dei soldati di Stalin.
Il Generale Custer è mostrato come un idiota patriottista e militarista e come un criminale di guerra: ma come mai non parlano così di Che Guevara??? Perché gli viene comodo???
Forza John Wayne, almeno lui dava ragione a chi se la meritava, che cavolo!
O AMI L'AMERICA O TE NE VAI!!!!!!!!!!!!!!
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