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Durante la prima metà degli anni ’50 negli Stati Uniti d'America si diffuse un orientamento politico-culturale caratterizzato da una forte contrapposizione, quasi persecutoria, verso coloro che venivano accusati di essere filo comunisti, il tutto in un’ottica di protezione dei valori americani; tale atteggiamento venne denominato maccartismo dal nome del senatore statunitense che ne fu il maggiore interprete. Il maccartismo fu certamente illiberale ed in evidente distonia con la storia ed i principi fondanti del sistema americano, pertanto dopo che nel 1955 il senatore McCarthy si dimise dalla presidenza della commissione parlamentare d'inchiesta per la repressione delle attività antiamericane, con conseguente declino e abbandono di tale pratica, questa venne fatta oggetto di forti critiche da parte del mondo culturale, tra cui ovviamente l’industria del cinema hollywoodiano: questa pellicola diretta da Daniel Taradash fu la prima a realizzare tale operazione.
Benché la tematica sia interessante, il film nel complesso non convince affatto.
Taradash che era un grande sceneggiatore, tra l’altro vincitore dell’Oscar in tale categoria per “Da qui all’eternità” di Zinnemann, si dimostra invece del tutto inadeguato dietro la macchina da presa.
La narrazione adottata è troppo retorica, tanto che diviene addirittura fastidiosa. L’opera appare artefatta ed eccessivamente impegnata a comunicare in modo esplicito il messaggio di condanna del maccartismo, giustamente dipinto come una caccia alle streghe; tuttavia la parte di intrattenimento ne esce appesantita ed irrimediabilmente sacrificata.
Ottima prova della grande Bette Davis che salva un po’ la pellicola; tra gli altri interpreti si ricordano la sempre brava Kim Hunter e Brian Keith; non all’altezza invece la recitazione del bambino a cui è affidata una parte di rilievo.
Meglio la prima parte che la seconda.
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