Questo è il secondo film di Buñuel, nato dalla collaborazione con Salvador Dalì, che, in seguito avrebbe preso le distanze dal regista, interrompendo il sodalizio grazie al quale era stato realizzato Un chien andalou. Non fu estranea alla decisione la polemica che immediatamente si scatenò contro questo lavoro, attaccato per molte ragioni, ma principalmente per l'allusivo erotismo, che scandalizzò i benpensanti dell'epoca (siamo nella Francia del 1930) e per la blasfemia dell'ultima parte del film, ma serpegginte fin dall'inizio del racconto. Rispetto al precedente film, questo appare maggiormente disarticolato, presentando alcuni temi che paiono slegati, anche se una lieve trama si può individuare nella vicenda dell' amore impossibile fra un uomo e una donna che si piacciono e si desiderano, senza riuscire a realizzare, per le ragioni più diverse, il rapporto amoroso. Vengono infatti violentemente separati mentre si scambianoi effusioni su una fangosa spiaggia della Costa Azzurra, vicino aal rifugio dei banditi, unici abitanti del luogo, e al sito in cui pregano alcuni salmodianti alti prelati, che appariranno come scheletri qualche scena dopo. Signori e i Maiorchini, ivi sbarcati, procederanno, dopo qualche frettoloso segno di croce, oltre il gruppo dei prelati scheletriti, ma sentiranno il dovere di separare i due amanti,ponendo fine allo scandalo, intollerabile per la costruzione di qualsiasi civiltà (come aveva spiegato Freud), di due innamorati che si amano liberamente senza nascondersi. Lo sbarco dei Maiorchini, e di notabili, di preti e di suore è finalizzato, infatti, alla fondazione di una città(surrealisticamente identificata in Roma). Seguiranno le peripezie dei due giovani che continuano ad amarsi da lontano e a cercarsi, finché si ritroveranno. La parte centrale del film è la narrazione del loro ritrovarsi, ma anche delle difficoltà che ancora si frappongono alla realizzazione del loro desiderio. Agli impedimenti sociali si aggiunge ora anche la difficoltà di mantenere vivo il desiderio maschile quando sembra più facile la sua realizzazione, perché è costretto a misurarsi con l'imprevisto emergere di quello femminile. Alla frustrazione che ne deriva, fa riscontro il manifestarsi di comportamenti sessuali devianti, voyeristici e feticistici, che (io credo), per analogia, ci portano all'epilogo del film: l'evocazione del sinistro castello all'interno del quale si consumano i delitti orribili descritti da Sade nelle 120 giornate di Sodoma. "In cauda venenum", sostenevano gli antichi, riferendosi al comportamento degli scorpioni, che, probabilmente non a caso, sono descritti, con grande precisione documentaria nel prologo del film. Il veleno delle scene finali è nella nettissima e scandalosa blasfemia: il dissoluto duca di Blengis, protagonista delle efferatezze delle 120 giornate ha le vesti e le sembianze di Gesù Cristo, essendo interpretato dall'attore cui all'epoca, veniva affidato quel ruolo, mentre la scena conclusiva rappresenta il rogo della Croce, cui sono appesi gli scalpi e le reliquie delle vittime dell'intolleranza religiosa. La visione del film, perciò, ci presenta molti episodi apparentemente slegati, ma probabilmente meno di quanto appaia in un primo momento: il prologo e l'epilogo hanno un legame interno, abbastanza chiaro, mentre, nonostante le incongruenze di tempo e di luogo, tipiche del cinema surrealista che fa del delirio paranoico la cifra dell'indagine, secondo la definizione di Dalì, tutto il film è interessante e contiene temi che il regista successivamente svilupperà
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