The Midnight After

Film 2014 | Fantascienza, Thriller 124 min.

Regia di Fruit Chan. Un film con You-Nam Wong, Janice Man, Simon Yam, Kara Hui, Tien You Chui, Suet Lam. Cast completo Genere Fantascienza, Thriller - Cina, 2014, durata 124 minuti. - MYmonetro 2,85 su 2 recensioni tra critica, pubblico e dizionari.

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Ultimo aggiornamento martedì 10 marzo 2015

Fruit Chan torna ad Hong Kong a quasi dieci anni dal film ad episodi Three... Extremes (Cut - Box - Ravioli) . Il film ha ottenuto 1 candidatura a Asian Film Awards,

Consigliato sì!
2,85/5
MYMOVIES 2,75
CRITICA
PUBBLICO 2,94
CONSIGLIATO SÌ
Un'allegoria amara su Hong Kong, firmata da uno dei suoi cantori, sotto le sembianze di commedia horror post-apocalittica.
Recensione di Emanuele Sacchi
lunedì 10 febbraio 2014
Recensione di Emanuele Sacchi
lunedì 10 febbraio 2014

Diciassette passeggeri si trovano, per le coincidenze più strane, a bordo dello stesso mini-bus. Dopo aver attraversato il tunnel che porta ai Nuovi Territori a nord di Hong Kong, i veicoli e gli esseri umani all'esterno del bus sembrano scomparsi. La città è misteriosamente deserta, come se un contagio o una maledizione avessero debellato l'umanità.
Sviscerata, ribaltata e svuotata da tonnellate di pellicola spese per interrogarsi sulla sua peculiare identità, Hong Kong vive (sempre) più in qualità di gigantesco corpo cinematografico che in una realtà in cui rischia di smarrirsi, di confondersi nell'incertezza. Che cos'è oggi Hong Kong? Appartiene alla Cina? O è un'ex-colonia? Forse è ambedue e allo stesso tempo nessuna delle due? A tornare su questi temi non poteva essere che il più nostalgico tra i registi hongkonghesi, il più indicato per riflettere sul presente e sul futuro di una città-stato che si dibatte impazzita senza una direzione precisa, come una gallina decapitata nel mezzo di una caotica stia. Fruit Chan, il cantore dell'handover e del traumatico passaggio di consegne dalla Gran Bretagna alla Cina, esorcizzato in una trilogia che ha segnato un'epoca (Made in Hong Kong, The Longest Summer, Little Cheung), guarda avanti (un futuro nebuloso) e insieme alle proprie spalle (un passato glorioso, anche nelle sue miserie) come un Giano Bifronte. Per interrompere il suo esilio volontario - negli ultimi dodici anni Chan ha essenzialmente girato solo cortometraggi, episodi di omnibus o remake su commissione - sceglie la trasposizione di un romanzo pubblicato a puntate sul web, Lost on a Minibus from Mongkok to Taipo. Il surrealismo scatologico di Public Toilet trova così un suo contraltare in un'allegoria apocalittica e grottesca, un episodio di Ai confini della realtà ambientato in una Hong Kong deserta - paradosso e magia del cinema insieme, per un luogo che non dorme mai - in cui riunire paure e fobie di un'umanità smarrita. In cui interrogarsi sulla fine e su un possibile, ma niente affatto certo, nuovo inizio. Fukushima, le illusioni politiche, ma soprattutto il fallimento di più generazioni incarnate in un manipolo di sopravvissuti di un mini-bus: improbabili come eroi, assai più credibili come uomini pieni di debolezze e tendenti all'immoralità.
Quasi delle cavie di un esperimento alla Lost (osservate da misteriosi uomini mascherati, forse protettivi o forse diabolici) più che l'equipaggio di una nuova Arca di Noè. Chan comunque non cede alle facili spiegazioni, agli apologhi morali o a spettacolari deus ex machina, cari al gusto hollywoodiano, e preferisce procedere per accumulo di simboli e immagini suggestive, flirtando con la magia e la superstizione (come nell'episodio di Tales from the Dark che ha preceduto The Midnight After), quasi aggrappandosi a quei retaggi come all'unico brandello di identità di un popolo espropriato di una patria da sempre impalpabile e astratta (ma che ha comunque sentito orgogliosamente come sua). E l'ultima sequenza, un magistrale carrello all'indietro sui sopravvissuti, seguito da una panoramica sulla metropoli digitalizzata, sintetizza in pochi essenziali frame l'amarezza di una riflessione, il cui profondo pessimismo è solo in parte mitigato dal farsesco involucro.

Sei d'accordo con Emanuele Sacchi?
Eccessivo e abitato da troppi generi, la grande metafora dei problemi di Hong Kong non funziona.
Recensione di Gabriele Niola

Un minibus del trasporto pubblico, carico di persone parte da Hong Kong verso un quartiere periferico. Dopo aver attraversato una galleria in una strada a scorrimento veloce nessuno si accorge che tutte le altre macchine sono sparite, solo giunti a destinazione diventa chiaro come il gruppo sia l’unica forma di vita presente. In aggiunta, lentamente, anche i viaggiatori cominciano a morire di morti orribili, efferate e stranissime.
Nella lotta per comprendere gli eventi e cosa li stia uccidendo incontreranno un giapponese che pare sapere molto e riusciranno a parlare con qualcuno al telefono, ottenendo però come risultato solo di infittire il mistero.
Una città deserta e il postapocalittico generico che non aderisce a nessun canone (non quello delle creature, non quello degli zombie, nè quello del ritorno della natura o ancora quello della totale solitudine) per rendere l’idea di cosa stia succedendo ad Hong Kong ora, a più di dieci anni dalla riannessione con la Cina.
Non c’è nulla che direttamente colleghi la trama, i fatti o i personaggi di The Midnight After alla situazione politica cinese, perchè Fruit Chain cerca innanzitutto il pubblico. L’obiettivo del film è arrivare e arrivare a tutti, per questo sfrutta molto l’umorismo, il genere e la suspense di un misterioso evento che di colpo svuota una città e dei luoghi noti in tutto il mondo per la loro popolosità, ma la ragione dietro il desiderio di arrivare a tutti con espedienti tra i più commerciali in assoluto è l’urgenza della situazione.
Forse è stato questo peso eccessivo a schiacciare The Midnight After, la volontà di conquistare pubblico, di essere benvoluto, di penetrare quanti più occhi è possibile. Difficile spiegarsi altrimenti una simile sciatteria combinata con tali ambizioni. Fare un film che sconfina nel fantastico senza disporre di effetti speciali di livello (o non sapendoli trattare adeguatamente per una riuscita ottimale), allungare la storia e le solite situazioni a dismisura per indugiare nel vuoto che i protagonisti affrontano e infine non chiudere niente senza riuscire a suggerire che di una chiusa non ci sia bisogno, sono tutti difetti difficili da sostenere da soli, figuriamoci combinati!
Nonostante qualche buono spunto comico infatti The Midnight After gira a vuoto per troppo tempo. E’ impossibile non farsi intrigare dai paesaggi metropolitani spogliati dalla folla e dall’accumulo umano che solitamente li caratterizzano o trascurare la maniera affettuosa con cui vengono di continuo citati quartieri, strade, svincoli e incroci di una parte di Hong Kong come se li conoscessimo tutti (ma in realtà sono cari solo al regista), tuttavia è evidente che la sensazione di impotenza e i contrasti interni al gruppo di survivors non servono giustamente la causa perseguita, nè tantomeno il film in generale.
Alla fine purtroppo, in questo polpettone di troppi generi e troppe suggestioni (ci entrano anche l’horror e il musical) il disastro che Fruit Chan vorrebbe comunicare, quello che si vive nella sua Hong Kong da quando c’è stata l’annessione, non si intuisce (cosa non gravissima) nè si percepisce nello stomaco (che sarebbe ben più determinante).
L’unico traguardo di The Midnight After è di fare il peggior uso che si ricordi di Space Oddity, frazionandola in mille porzioni sconnesse e riproponendola ad oltranza.

Sei d'accordo con Gabriele Niola?
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