Cagliari 1943. La morte arriva dal cielo – strana, innaturale, fragorosa – piovendo dalle ali dei bombardieri alleati. Mentre quasi tutti si rifugiano in campagna, la quarantenne Annetta arriva controcorrente dal suo paese per cercare la nipote Tecla. Si aggira nel labirinto della città semideserta: le case sventrate, l’incubo degli allarmi antiaerei, le corse ai rifugi, i cadaveri per le strade, i feriti ricoverati alla meno peggio nelle chiese. La morte comunque non sembra spaventarla.
Annetta con la morte ha dimestichezza antica. Come sua madre, e una lunga teoria di ave precedenti, porta l’atavico fardello di essere un’accabadora: un’antimadre, una madre terminale, una levatrice della morte. Al suo paese, viene chiamata al capezzale degl’inguaribili per liberarli secondo un rito millenario. Le vesti nere e il capo coperto attraversa la casa, chiude dietro di sé la porta della misera stanzetta, depone un ramo intagliato a forma di giogo sul letto, volge il crocifisso verso la parete perché ci sono cose che è meglio Lui non veda, quindi soffoca con un cuscino, oppure col suo stesso corpo, il sofferente. L’accabadora non deve essere pagata, anzi è lei a pagare assumendo su di sé la morte data; e Annetta lascia il paese per cercare Tecla, ma anche per fuggire le ombre che visitano le sue veglie e i sogni.
Ci sono cose che resistono e durano, e prosperano, anche nelle situazioni più estreme. Tecla a Cagliari fa la prostituta. Annetta la troverà, prima sul lavoro, e quindi, dopo la distruzione della sua casa, priva di coscienza e paralizzata in ospedale. Non ci sono speranze, e Annetta si chiede se – come già per sua sorella, la madre di Tecla – anche per la nipote dovrà arrivare l’accabadora.
Figura della tradizione popolare sarda, l’accabadora è nota per l’omonimo romanzo di Michela Murgia. Secondo testimonianze, negate però da alcuni antropologi, quest’attività è stata esercitata fino all’immediato dopoguerra. Senza trascurare la pietà, s’individua comunque la ragione della sua missione nell’estrema miseria dei luoghi e nell’impossibilità di mantenere i più deboli se non a rischio della sopravvivenza dell’intera comunità. L’ottimo film di Enrico Pau, riprendendo il personaggio della Murgia, propone una storia essenziale per introdurci in un mondo primigenio. Un mondo precedente le religioni e le filosofie, il peccato e la legge, governato dalla necessità, in cui tutto si dissolve nella natura, e vita e morte, e anime e corpi, sono fatti della medesima materia, e i morti continuano a camminare sulla terra perché, non essendoci altro, la morte non può essere né fine, né barriera.
Regia puntuale, ottima la fotografia di nitore ed essenzialità caravaggesca, notevole l’interpretazione di Donatella Finocchiaro (Annetta), appropriato anche Barry Ward nei panni del medico scettico – io ne ho visti tanti di uomini che morivano e non ho mai visto l’anima – col suo accento straniero a restituirci lo straniamento dell’uomo in mezzo alla distruzione. Significative le riprese degl’impressionanti modelli umani anatomici in cera risalenti ai primi dell’ottocento, tuttora conservati a Cagliari; come pure la riproduzione del filmato originale in bianco e nero con la spettrale processione di Sant’Efisio tra le macerie.
Attraverso una curiosa nemesi Annetta, e prima Tecla, fuggono l’oscurità del mondo rurale sardo, incontrando la città, il progresso e la tecnica giusto nella morte industriale prodotta dai modernissimi bombardieri. L’impossibile composizione tra le due civiltà è una faglia che attraversa la Storia, ampliatasi a dismisura nei decenni trascorsi dall’ambientazione del film. Oggi, in tempi di rimozione privata della morte e del dolore, e di corrispettivo infame teatro politico su fine vita ed eutanasia, il coraggioso Enrico Pau ripropone una figura distantissima. L’accabadora è memoria di una persa intimità con la sofferenza; reliquia di un mondo vero in cui dolore e morte sono stati mistero e compagnia per ogni vivente, e non problema estraneo che qualcun altro – il medico, il terapeuta, magari il legislatore – deve risolvere al posto nostro. Quel passato vecchissimo, anche se cronologicamente non troppo lontano, denuncia paradossi e ipocrisie del nostro infantile presente, smanioso di libertà e irresponsabilità e insieme ossessionato da diritti e risarcimenti.
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