Cesare deve morire

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Un film di Paolo Taviani, Vittorio Taviani. Con Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti.
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Docu-fiction, durata 77 min. - Italia 2012. - Sacher uscita venerdì 2 marzo 2012. MYMONETRO Cesare deve morire * * * 1/2 - valutazione media: 3,75 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Anime schiacciate Valutazione 4 stelle su cinque

di Antonello Chichiricco


Feedback: 2169 | altri commenti e recensioni di Antonello Chichiricco
mercoledì 3 ottobre 2012

L’ultima opera dei fratelli Taviani è indubbiamente un riuscito film-documento (modernamente definito con l’ennesimo anglicismo traslato dalla Tv: docufiction) che, impalcato sul parziale libero adattamento di Fabio Cavalli (presente lui stesso nel film) del dramma scespiriano “Giulio Cesare”, affronta con efficacia il terribile tema della reclusione. 
Favorire lo sviluppo di percorsi d’integrazione sociale e inserimento lavorativo per  un ex detenuto che esce dal carcere è certamente arduo, tuttavia produce discrete probabilità di successo.   Salvaguardare la psiche e la dignità di un essere umano costretto dentro una cella per lunghissimi anni o per tutto il resto della sua vita è  molto più difficile e delicato.  Lavoro, letture, studio, sono certamente utili ma presentano valenza soprattutto pedagogico-cognitiva. Mentre il laboratorio teatrale opportunamente intensificato e organizzato all’interno delle carceri potrebbe rappresentare per quegli esseri umani che “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo” un formidabile strumento polivalente di recupero della propria integrità.  Forse il più efficace. Una sorta di psicodramma metamorfico e liberatorio di rinvenimento individuale.
Mi spiego meglio. Recitare – e questo vale per qualunque attore – è un po’ entrare in un personaggio ricercandone in se stessi un approvvigionamento emotivo mediabile e differenziabile. Nel caso del detenuto-attore,  anche se non ha mai recitato,  si spalanca in più un contatto diretto con la coscienza di sé in un incontro istintuale col proprio Io disaffermato.  Si dissotterra la sua anima schiacciata, spaventata, indurita, reclusa più del corpo stesso.  In quel “recitare” convergono allora potentissime pulsioni quali disperazione, castrazioni affettive, reminiscenze, paure, spasimi vitali, rivendicazioni, rigurgiti d’orgoglio, spinte autodistruttive, sensi di colpa, vettori che emergono esplodendo in superficie, legittimati da una finzione che libera la loro autenticità ed innesca un’ebrezza catartica incontenibile.  E’ troppo superficiale e semplificatorio quindi affermare “ma guarda che bravi attori si rivelano questi detenuti!”.
Felicemente adeguata,  riconducente al neorealismo, la scelta - che mi piace pensare con-passionevole - del bianco e nero, dove forse per un carcerato i colori dell’anima restano Fuori (“quanto azzurro lassù…”).
Apprezzabili nel significato ma paradossalmente poco verosimili o mal rappresentati gl’inserti “veristi”, sui retroscena conflittuali e personali  dei vari interpreti. Forse insistere di più con stacchi su prove e preparativi avrebbe rimarcato ulteriormente l’autenticità della recita accentuandone il lirismo.
Azzeccate le presentazioni degli attori con nomi e cognomi nonché marchio identificativo della durata della detenzione.  Irresistibilmente struggente la frase finale di Cosimo Rega, alias Cassio: “Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”.  E a proposito di frasi mi ha colpito negativamente quella tipica del gergo giuridico-carcerario, riportata nella scheda di alcuni interpreti: “fine pena: mai”. Un infelice locuzione inferta quale monito, secondo me concepita da un sadico con sottile perfidia. Quel “mai”, duro e inflessibile, suona tanto di crudele gratuita empietà, allora era meglio “ergastolo”, o “carcere a vita”.
Per concludere, un’opera di primaria importanza, che onora il cinema italiano (meritatissimo l’Orso d’oro di Berlino),  che riporta l’attenzione su un dramma irrisolto della società civile e che conferma l’impegno e la coerenza dei “terribili vecchietti” Paolo e Vittorio Taviani.
Sarebbe interessante vedere un film analogo trasposto al femminile.
Antonello Chichiricco

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