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Il film Family Therapy di Sonja Prosenc è un film apparentemente dell’assurdo, ma mi è molto piaciuto anche se di primo acchito non sono riuscito a capirne il perché. Probabilmente una delle modalità che ne permette una interpretazione è quella di considerare gli episodi come singole sequenze di un viaggio in cui mondo onirico e fantasmatico si mescolano, si sovrappongono, e la realtà non è che una forviante epifania della verità. Si è di fronte all’inconscio della regista (e di concerto a quello degli spettatori) e con la sessualità femminile. Una famiglia che vive in una casa opulenta; che sembra arredata da un estraneo; di un ordine ossessivo, maniacale, dove non c’è una cosa fuori posto. Una famiglia che non ha imparato a fidarsi ed affidarsi, così all’esterno come all’interno di essa. Ognuno sulla difensiva, dove Alex non ha imparato a fare il marito né il padre, Olivia non ha imparato a fare la moglie né la madre, Mila a fare la figlia e a chiamare i genitori papà, mamma, anziché con i loro nomi. Un equilibrio assai precario, che suggerisce uno stato di disordine della casa interiore. L’arrivo del figlio adolescente di Alex, Julien (avuto con un’altra donna) sollecita la famiglia ad un cambiamento. Non si può pensare, però, che un adolescente sia già un adulto maturo; molto di quello che fa deve averlo imparato dalle figure che se ne sono preso cura, nei primi anni, di cui non conosciamo nulla. Ci vuole tempo, al di là delle banalizzazioni delle motivazioni o di quelle che preferiamo chiamare fantasie e non agiti, per indurre la consapevolezza.
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