La risonanza con alcuni temi arcaici e con antiche modalità narrative della letteratura occidentale induce a considerare Vivere un’opera apparentemente fruibile, in modo non mediato, al di là delle sue origini ancestrali e dei confini culturali della madrepatria dell’autore. Al contempo, il film risulta alquanto ostico sia per i mezzi espressivi utilizzati da Kurosawa, sia per i contenuti,entrambi indissolubilmente intrinseci alla storia giapponese e alla visione del mondo orientale. La recitazione innanzitutto ed il movimento degli attori in scena sono propri di una rappresentazione esasperata dei caratteri che affonda le proprie radici nella tradizione teatrale giapponese e rende i personaggi del film più simili alle maschere del teatro Nō che agli attori cinematografici di quell’epoca, che, in occidente, grazie al primo piano, potevano abbandonare i toni forti del parlato e l’atteggiamento mimico eccessivo del palco a favore di una espressività più sfumata e verosimile, attraverso impercettibili lavorii dei muscoli facciali.
Il Mono no aware, sentimento tipico della cultura giapponese, intraducibile nel comune sentire occidentale, veicolato dai versi di Gondola no Uta, una canzone derivata da una ballata popolare di inizi novecento, si presta ad una immediata quanto illusoria comprensibilità, riecheggiando già dal primo verso, La vita è breve. Innamoratevi fanciulle, prima che il fiore cremisi svanisca dalle vostre labbra, il carnascialesco Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia.
Così sul piano narrativo, l’evidente scopo edificativo della storia del vecchio impiegato cui è diagnosticato un tumore allo stomaco e decide di dedicare gli ultimi giorni della propria esistenza al prossimo, potrebbe fuorviare, richiamando lo schema di un panegirico raccontato nello stile delle leggende dei santi dell’agiografia medievale. In Vivere, tuttavia, il vecchio non è il santo dalla vita paradigmatica illuminato dalla luce divina, bensì il mezzo attraverso cui si mostra la realizzazione del fine dell’esistenza umana in osservanza ai principi dell’etica confuciana, simboleggiata dall’antico mito giapponese del coniglio lunare. Nella favola, il coniglio non avendo altro da offrire ad un indigente, a differenza degli altri animali che lo aiutano grazie alle loro specifiche abilità, si immola donandogli le proprie stesse carni per sfamarlo. La compiutezza ed il senso della vita individuale sta, quindi, nella concreta applicazione, nella vita di tutti i giorni, della virtù confuciana. E’ l’esaltazione dello spirito di servizio verso la famiglia, la collettività, lo Stato, spinta fino al sacrificio supremo della vita.
Il protagonista dopo la prematura scomparsa della moglie ancora giovane non si è risposato sacrificando la propria egoistica felicità per dedicarsi anima e corpo alla cura dell’unico figlio. Una volta che questi è divenuto adulto e la sua opera non è più necessaria nell’ambito familiare, si dischiude quello collettivo della comunità in cui vive, mostratogli provvidenzialmente dalla giovane impiegata con il dono del coniglietto giocattolo, simbolo del coniglio lunare del mito, che troverà posto emblematicamente dinanzi alla foto del defunto nella cerimonia funebre. La lentezza e la complessità della burocrazia che fanno da alibi al cinismo e all’indifferenza dei funzionari, l’inerzia e l’invidia dei colleghi, l’opportunismo dei politici ed i loschi interessi della mafia, sono soltanto esempi storicamente contingenti, simbolo degli eterni ostacoli che si frappongono, a seconda dell’epoca diversi, sul percorso universale della retta via che conduce alla vita perfetta, quella che si annulla in funzione del benessere della collettività. La filosofia di vita sottesa al film, estranea al modo di vedere prevalente in occidente, dove da sempre è in gioco la salvezza della vita individuale ed il prossimo è visto solo come un mezzo per raggiungere scopi egoistici, siano essi corporei o spirituali, è così distante dall’intimo sentire dello spettatore da rendere l’opera si intellegibile, ma non coinvolgente emotivamente. Insopportabile, infine, è la narrazione didascalica, con gli attori che, come in un coro greco, annunciano, di volta in volta, gli episodi delle scene seguenti del martirologio dell’eroe, riproposti nei flashback dei frammenti della sua lotta epica contro il male e che si ricompongono per un momento nel pianto unanime di amici e parenti, complice l’alcol che libera dalle catene dell’etichetta e del conformismo, abbattendo le barriere del reciproco gioco dei ruoli. Il giorno dopo, in quello che fu il suo ufficio, tutto riprende nell’uguale monotono trantran di negligente menefreghismo. Le ultime immagini del giardino creato al posto delle fogne a cielo aperto, grazie all’abnegazione del protagonista, bilanciano la pessimistica visione di Kurosawa sulla irredimibilità della natura umana. Nell’alternarsi malinconico delle stagioni della vita, i bambini che giocano in quel parco sono la nuova generazione, la rigogliosa primavera che fiorisce grazie al sacrificio dell’impiegato morente, il vecchio tronco inaridito dall’inverno, che, prima di cadere, ha steso i suoi rami protettivi a coprire la gemma assicurandole così la futura sbocciatura.
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