paola di giuseppe
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sabato 9 gennaio 2010
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un travet alla riscossa
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Vivere è una meditazione sulla vita e sulla morte di straordinaria profondità. Alle spalle di Kurosawa c’è la lezione di Welles in Citizen Kane,un accostamento a Umberto D è d’obbligo,ma c’è soprattutto la grande narrativa russa,da Gogol a Dostoevskij,senza dimenticare le suggestioni del Faust,a suggerire rimandi ed equivalenze per quest’opera di un regista di grande cultura,capace di muoversi sempre con naturalezza dentro prospettive intellettuali cosmopolite,per raccontarci di popoli e individui con la semplice verità dell’epos di ogni tempo.
Watanaba è un travet dell’ufficio civili del Comune,la morte incombe su di lui con un cancro allo stomaco, macchia scura ben visibile nella radiografia che campeggia in apertura sullo schermo.
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Vivere è una meditazione sulla vita e sulla morte di straordinaria profondità. Alle spalle di Kurosawa c’è la lezione di Welles in Citizen Kane,un accostamento a Umberto D è d’obbligo,ma c’è soprattutto la grande narrativa russa,da Gogol a Dostoevskij,senza dimenticare le suggestioni del Faust,a suggerire rimandi ed equivalenze per quest’opera di un regista di grande cultura,capace di muoversi sempre con naturalezza dentro prospettive intellettuali cosmopolite,per raccontarci di popoli e individui con la semplice verità dell’epos di ogni tempo.
Watanaba è un travet dell’ufficio civili del Comune,la morte incombe su di lui con un cancro allo stomaco, macchia scura ben visibile nella radiografia che campeggia in apertura sullo schermo.
“Nel piloro ci sono evidenti sintomi di un cancro, ma il protagonista della nostra storia non ne sa nulla”dice fredda la voce fuori campo.
Ben presto lo saprà anche lui,e all’improvviso il non senso di tutta una vita passata a non vivere gli sfilerà davanti. Con l’angoscia del naufrago che non vede nessuna riva a cui tendere,Watanaba annaspa fra inutili tentativi di fuga,per un recupero in extremis di un tempo e di una gioia che si è negato.
Inconsistente alibi la dedizione trentennale al figlio rimasto orfano piccolissimo della madre (ora quel figlio è chiuso nella ottusa indifferenza dei figli affrancati dai padri),squallido bilancio di un lavoro dietro la scrivania ad aumentare pile di scartoffie in cui affogano le istanze di cittadini intrappolati nelle spire della burocrazia,Watanaba tenta di affogare in dosi massicce di sakè e locali notturni il pensiero della morte.
L guida un Mefistofele disinteressato ai suoi yen e alla sua anima,donnine allegre di una dolce vita giapponese post-bellica non scalfiscono la sua corazza impacciata;solo Toyo,giovane impiegata del suo ufficio,povera e sorridente,riuscirà involontariamente a fornirgli la chiave per la salvezza:stavolta Rosebud è il coniglietto meccanico di péluche che lei costruisce per la gioia dei bambini.
Watanabe ora sa come riscattare la sua vita in cui non c’è più tempo per odiare o arrabbiarsi,ogni ostacolo sarà superato testardamente a capo chino e spalle curve per fare quello che ha deciso:dar corso ad una pratica.
Perché di quello si tratta,ma in fondo a questa pratica c’è un giardino che darà fiori,luce e aria alla povera gente del fetido quartiere di Huroecho.
In quel giardino Watanaba morirà in una silenziosa notte di neve,dondolandosi sull’altalena mentre canta ancora una volta “La vita è così breve”,con quel timbro di basso che aveva fatto ammutolire tutti, quella volta,al night.
Kurosawa riesce a raccontarci una favola mentre ci descrive con amaro realismo e satira pungente un mondo molto vero,con i disastri di un dopoguerra non dissimili da quelli di oggi,una società in cui ottusità,cinismo,rampantismo e servile ossequio mistificatore della verità dominano,e lo fa con enorme sapienza di costruzione filmica,con un montaggio che avviluppa fulminei flash-back sul filo conduttore della storia,crea ritmo narrativo serrato con prolessi e analessi tenute con salda mano a restituire la complessità del reale,punta l’occhio della macchina su frequentissimi primi piani dei volti,con una carica espressionista da choc emotivo per lo spettatore.
Nessun patetismo,Watanabe è un eroe molto chapliniano,la vita non è meravigliosa per Kurosawa,ma la voglia di far qualcosa e viverla,comunque,può anche starci,piuttosto che affogare fra pratiche inevase
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eugenio
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venerdì 31 dicembre 2010
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semplicemente... ikiru
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Inizialmente c'era "L'idiota",monumentale opera dostojveskiana trasposta dalla Russia ottocentesca all'industrializzato Giappone; prima ancora "L'angelo ubriaco",che seppur in chiave poliziesca, riprendeva tematiche simili al riconosciuto capolavoro di Kurosawa "Vivere". Grigio capufficio della sezione civile (interpretato magistralmente da uno splendido Takashi Shimura), apprende di avere pochi mesi di vita a causa di un cancro allo stomaco che non gli lascia via di salvezza. Sconvolto dalla tragica notizia e resosi conto di aver trascorso un'intera vita nell'opacità e nell'inconcludenza, il funzionario deciderà di dare una svolta alla sua esistenza,tentando,inizialmente,di lasciarsi andare a una placida dissolutezza nei bar di una Tokyo nebbiosa e "sotterranea",in seguito,intrecciando un legame affettivo con la sua ex collega d'ufficio.
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Inizialmente c'era "L'idiota",monumentale opera dostojveskiana trasposta dalla Russia ottocentesca all'industrializzato Giappone; prima ancora "L'angelo ubriaco",che seppur in chiave poliziesca, riprendeva tematiche simili al riconosciuto capolavoro di Kurosawa "Vivere". Grigio capufficio della sezione civile (interpretato magistralmente da uno splendido Takashi Shimura), apprende di avere pochi mesi di vita a causa di un cancro allo stomaco che non gli lascia via di salvezza. Sconvolto dalla tragica notizia e resosi conto di aver trascorso un'intera vita nell'opacità e nell'inconcludenza, il funzionario deciderà di dare una svolta alla sua esistenza,tentando,inizialmente,di lasciarsi andare a una placida dissolutezza nei bar di una Tokyo nebbiosa e "sotterranea",in seguito,intrecciando un legame affettivo con la sua ex collega d'ufficio.Sara' proprio la giovane donna,emblema di una giovinezza mai goduta dall'anziano burocrate, a consigliargli, indirettamente, di dedicare le sue ultime energie realizzando qualcosa di utile per la comunità: la bonifica di un'area paludosa e la successiva trasformazione in parco giochi per bambini. Un'impresa che muterà significativamente la tetra esistenza del funzionario,aprendogli un percorso inaspettato verso la strada della coscienza di se' e della presa di posizione. Il male di cui questi è attanagliato assurge quindi a una condizione esistenziale estrema che permette al maestro nipponico di analizzare, con sguardo naturalista e mai patetico, le vite anonime e senza senso di una Tokyo post-bellica in fase di industrializzazione. Di questo ne sono simbolo universale le meschine condizioni dei suoi colleghi di lavoro,che ricordano i compagni del protagonista del racconto "La morte di Ivan Ill'ic"di Tolstoj,la società progressista e consumista (si veda la bellissima scena del colloquio con il sindaco),il freddo compatimento delle autorità. L'influenza dei grandi narratori russi è evidente: l'andare della vita,il senso della propria esistenza sono classiche tematiche affrontate dalla narrativa dell'età della crisi. Kurosawa riesce a andare oltre: attraverso il potente ritratto di un uomo solo davanti al proprio destino, realizza uno splendido film sulla vecchiaia (riscontrato dall'occidentale "Umberto D.") permeato di un'atmosfera mista a realismo e simbolismo, emozione e rigore stilistico con una struttura innovativa per l'epoca: si pensi ai frequenti primi piani che inquadrano il volto scavato dalla sofferenza e dalla tristezza dell'anziano,la spensierata allegria della giovane collega,la passività e l'invidia dei compagni d'ufficio.Non solo: il sapiente uso della tecnica del flashback e flash-forward permettono al cineasta lo studio, con intento scientifico, della psicologia e delle reazioni dei coprimari a seguito della morte del protagonista,uno sperimentalismo privo di enfasi ma non per questo colmo di suggestione ed espressività. Memorabile è la scena della ubriacatura di sake' durante la veglia funebre,ove ciascuno,a mo' di racconto medievale,caratterizza un aspetto distintivo della vita del burocrate,la strenua lotta,i suoi sforzi. "Vivere" nasce come pellicola di rinnovamento,di miccia vitale alla scure di indolente passività che caratterizza la vita dell'essere umano di fronte alla morte, vecchia signora che tutti,presto o tardi,avvolgerà tra le sue spire ma,sembra suggerirci Kurosawa,impotente di fronte alle azioni, gesti e ricordi che ciascuno di noi ha lasciato in vita.
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alberto cinelli
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lunedì 28 marzo 2005
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la leggenda del santo burocrate
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Vivere è una una pietra miliare nella storia del cinema. Protagonista ne è il signor Watanabe, un anziano capufficio comunale al quale la burocrazia ha da tempo spento in lui ogni stimolo e ambizione riducendolo a una larva parassita. Quando gli viene diagnosticato un male incurabile, l'uomo cerca di far qualcosa per dare un senso a quello che rimane della propria vita. Raggiungerà il suo scopo quando, dopo essersi scontrato con uffici, politici, addirittura con la mafia, con una grande volitività e ostinazione riuscirà a far costruire un parco giochi per i bambini in un quartiere povero della città, progetto mai riuscito a decollare. Dopo la sua morte, alla veglia funebre le popolane di quel quartiere gli rendono un omaggio degno di una santo.
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Vivere è una una pietra miliare nella storia del cinema. Protagonista ne è il signor Watanabe, un anziano capufficio comunale al quale la burocrazia ha da tempo spento in lui ogni stimolo e ambizione riducendolo a una larva parassita. Quando gli viene diagnosticato un male incurabile, l'uomo cerca di far qualcosa per dare un senso a quello che rimane della propria vita. Raggiungerà il suo scopo quando, dopo essersi scontrato con uffici, politici, addirittura con la mafia, con una grande volitività e ostinazione riuscirà a far costruire un parco giochi per i bambini in un quartiere povero della città, progetto mai riuscito a decollare. Dopo la sua morte, alla veglia funebre le popolane di quel quartiere gli rendono un omaggio degno di una santo. Mentre i colleghi promettono di seguire il suo esempio. Ma ci riusciranno?
Collocando la vicenda tra uffici pieni di scartoffie, caotiche vie cittadine, interni domestici e quartieri degradati, Kurosawa non solo ci ha offerto il ritratto di un condannato a morte che cerca disperatamente di riscattarsi da una vita piatta e meschina, ma anche una convincente descrizione delle condizioni del Giappone del secondo dopoguerra. E soprattutto una critica e una satira feroce della burocrazia, ove non mancano le occasioni in cui funzionari e politici - quasi tutti antipatici, arrivisti e ipocriti - sono derisi e sbeffeggiati. Situazioni queste mutuate dalla letteratura russa, che l'autore conosceva benissimo.
Un altro merito del film va ricercato anche nell'originalità con cui Kurosawa lo ha strutturato: gli avvenimenti seguono l'ordine cronologico fino ad un certo punto; poi, con un salto temporale, la vicenda si sposta a dopo la morte del protagonista (che noi non vediamo) ove, con una serie di flash-back, attraverso ricordi, supposizioni e congetture di colleghi e familiari, come in un puzzle vengono ricostruiti gli avvenimenti che hanno determinato la rivalutazione di Watanabe. Momento del film molto importante perché viene qui rivelata una forte personalità dell'uomo che forse nessuno conosceva, anche se un po' tortuoso per una certa verbosità di dialogo e per qualche lungaggine.
Con sequenze toccanti ma anche ironiche, con attori molto bravi, con qualche riferimento a Umberto D e a Quarto potere, Kurosawa (all'epoca poco più che quarantenne) ha saputo esprimere un dramma umano universale, compatibile con qualunque luogo e con qualunque tempo, quindi valido sempre: nel passato, nel presente e nel futuro.
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g. romagna
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mercoledì 7 aprile 2010
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vivere
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Il signor Watanabe, ligio impiegato pubblico, nonostante in venticinque anni di servizio non abbia mai mosso, per sua ammissione, nemmeno una foglia, è vedovo da tempo immemore ed ha dedicato l’intera sua esistenza all’unico figlio. Egli è convinto, nonostante il suo medico ridimensioni tutto ad una più banale ulcera, di avere – a ragione – un cancro allo stomaco che gli lascerà ben poco da vivere. A seguito di ciò decide di abbandonare il lavoro e di scoprire più o meno sobriamente quei piaceri che nel corso degli anni si era sempre negato e che devono rivelarsi capaci di lenire quell’angoscia e quel senso di “non aver mai vissuto” che lo stanno accompagnando verso la tomba.
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Il signor Watanabe, ligio impiegato pubblico, nonostante in venticinque anni di servizio non abbia mai mosso, per sua ammissione, nemmeno una foglia, è vedovo da tempo immemore ed ha dedicato l’intera sua esistenza all’unico figlio. Egli è convinto, nonostante il suo medico ridimensioni tutto ad una più banale ulcera, di avere – a ragione – un cancro allo stomaco che gli lascerà ben poco da vivere. A seguito di ciò decide di abbandonare il lavoro e di scoprire più o meno sobriamente quei piaceri che nel corso degli anni si era sempre negato e che devono rivelarsi capaci di lenire quell’angoscia e quel senso di “non aver mai vissuto” che lo stanno accompagnando verso la tomba. Tutto ciò non si rivelerà però assolutamente sufficiente. Nel mentre il figlio, ignaro della patologia del padre, è convinto, assolutamente a torto, che questi abbia stretto una relazione dissoluta con una giovane ragazza sua collega. Sarà tuttavia ella a suggerire involontariamente all’anziano la via per terminare la sua vita dopo un autentico riscatto. Il signor Watanabe decide di tornare al lavoro, ma con un altro spirito: si impegnerà infatti ad abbattere le pastoie burocratiche per permettere la realizzazione, su una palude bonificata, di un giardino di grande utilità per i suoi concittadini. Al momento della sua morte costoro gli tributano un grande omaggio, ma c’è chi si ostina a negare il suo ruolo in tutto questo e chi, nonostante le promesse di seguire sul posto di lavoro di lì in poi il suo esempio, nella quotidianità successiva continuerà a comportarsi assai diversamente. Pochi registi si sono rivelati capaci di toccare le corde del sentimento con così tanta sobrietà ed efficacia quanto il maestro Kurosawa, ed anche questo lavoro ne è testimonianza. Film pienamente orientale per spirito, ritmo – lento e contemplativo – e significato, Vivere si rivela una pellicola dal messaggio morale semplice, sincero e mai buonista, reso ancor più efficace dalla toccante interpretazione di Takashi Shimura.
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great steven
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sabato 18 aprile 2015
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malinconico spaccato di un travaglio interiore.
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VIVERE (GIAP, 1952) diretto da AKIRA KUROSAWA. Interpretato da TAKASHI SHIMURA, NOBUO KANEJO, MIKI ODAGIRI, SHINICHI HIMORI, MINORU CHIAKI, HARUO TANAKA, BOKUZEN HIDARI, MINOSUKE YAMADA, KAMATARI FUJIWARA, MAKOTO KOBORI, ATSUSHI WATANABE
L’anziano capoufficio di un’istituzione di funzionari statali scopre di avere un tumore allo stomaco che gli permetterà di vivere solo per un altro anno. Nessuno dei suoi colleghi e sottoposti riesce ad aiutarlo, né tantomeno il figlio sposato, che anzi lo disprezza. L’uomo cerca di dare disperatamente un significato ai giorni che gli rimangono e, fallendo miseramente nei rapporti umani e in un conforto famigliare, decide di spendere il tempo che gli resta per tentare di aprire a un gruppo di bambini un’area precipuamente destinata ai loro giochi.
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VIVERE (GIAP, 1952) diretto da AKIRA KUROSAWA. Interpretato da TAKASHI SHIMURA, NOBUO KANEJO, MIKI ODAGIRI, SHINICHI HIMORI, MINORU CHIAKI, HARUO TANAKA, BOKUZEN HIDARI, MINOSUKE YAMADA, KAMATARI FUJIWARA, MAKOTO KOBORI, ATSUSHI WATANABE
L’anziano capoufficio di un’istituzione di funzionari statali scopre di avere un tumore allo stomaco che gli permetterà di vivere solo per un altro anno. Nessuno dei suoi colleghi e sottoposti riesce ad aiutarlo, né tantomeno il figlio sposato, che anzi lo disprezza. L’uomo cerca di dare disperatamente un significato ai giorni che gli rimangono e, fallendo miseramente nei rapporti umani e in un conforto famigliare, decide di spendere il tempo che gli resta per tentare di aprire a un gruppo di bambini un’area precipuamente destinata ai loro giochi. Riesce nel suo obiettivo, ma dopo la sua morte soltanto le madri dei pargoletti si ricordano di lui, mentre il sindaco del paese, gli amministratori e le altre autorità burocratiche si attribuiscono il merito dell’impresa e sbeffeggiano la sua memoria. Col termine del suo percorso vitale, compare la gioia di veder cominciare quello degli altri. Intriso di una malinconia esistenziale che rimanda ai migliori romanzi di Dostoevskij, è un film profondamente pessimistico riscattato tuttavia da un anelito di speranza che si concretizza nel sagace equilibrismo fra pathos e sarcasmo, nostalgia e candore, umanità e altruismo. La genuinità dei sentimenti che mette in mostra analizzando la psicologia di ogni personaggio è di caratura inconfutabilmente elevata e valida. Shimura, uno degli attori-feticcio di Kurosawa e certamente il suo partner lavorativo preferito insieme a Toshiro Mifune, dà il meglio nel definire i tratti caratteriali di un uomo afflitto, depresso e combattuto da drammi interiori, ma che trova insperatamente un mezzo per sopravvivere (anche emotivamente) in una lotta nel corso della quale tutti gli sbattono la faccia e c’è una specie di guerra implicita e silente che gli rema contro e quasi complotta per impedirgli di ottenere il suo scopo, innegabilmente umanitario e servizievole. Il regista non è estraneo alla rappresentazione di tragedie che vedono gli uomini assolutamente protagonisti, benché la natura e gli elementi giochino un importante ruolo nel tratteggiare il vuoto immenso che si apre nel cuore di un gruppo di perdenti che non possono fare a meno di popolare un mondo che, per l’appunto, condanna i suoi abitanti ad un’irrimediabile sconfitta. Non a caso il vecchio impiegato sa che sarà costretto a passare a miglior vita in un breve arco di tempo. L’unico contatto che lo rende temporaneamente felice è quello con la ragazza alle sue dipendenze che lo accompagna a fare shopping e pranza insieme a lui in una tavola calda. L’indifferenza sdegnosa del figlio, feritosi da bambino durante una partita di baseball, è esemplare nella raffigurazione di una generazione di uomini che trascurano i propri genitori ritenendoli ancora aggrappati a vetuste convenzioni ormai superate e incapaci di uscire da una spirale di macerazione che consuma l’anima e annichilisce le sensazioni. Parlando in conclusione di questo film riferendoci all’itinerario del suo eccellente regista, si può senza dubbio affermare che l’allora quarantaduenne Kurosawa era già in grado di realizzare pezzi di vita vissuta senza tralasciare i dettagli più oscuri e sardonici che una puntualizzazione emozionale pretende. Esemplificativi sono a tal proposito il cappello bianco del protagonista e la canzone sommessa che canta sottotono prima nel night club e poi sull’altalena del parco giochi, pochi istanti prima di morire. Due metafore eccezionali che restituiscono dignità sia ad una figura cinematografica decisamente caritatevole sia ad una personalità creativa tra le più influenti di tutto il cinema giapponese.
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luca scial�
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venerdì 5 luglio 2013
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spendere per gli altri gli ultimi giorni di vita
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Impiegato comunale scopre di avere un tumore allo stomaco. Non dice nulla al figlio, col quale ormai non ha più dialogo e decide di godersi gli ultimi mesi di vita come non ha mai fatto fino a quel momento, avendo passato una vita solo a lavorare. Ma capisce che il vero modo per riscattarsi è quello di prodigarsi per gli altri e decide di impegnarsi affinchè sia realizzato un giardinetto per bambini al posto di uno stagno. Ma troverà molti ostacoli.
In questo film Akira Kirosawa si pone a metà strada tra le angosce esistenziali di Dostoevskij e l'ottimismo a lieto fine di Frank Capra. Qui in realtà un lieto fine non c'è, perchè tutto torna come prima; l'illusione di una redenzione nell'uomo dura poco.
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Impiegato comunale scopre di avere un tumore allo stomaco. Non dice nulla al figlio, col quale ormai non ha più dialogo e decide di godersi gli ultimi mesi di vita come non ha mai fatto fino a quel momento, avendo passato una vita solo a lavorare. Ma capisce che il vero modo per riscattarsi è quello di prodigarsi per gli altri e decide di impegnarsi affinchè sia realizzato un giardinetto per bambini al posto di uno stagno. Ma troverà molti ostacoli.
In questo film Akira Kirosawa si pone a metà strada tra le angosce esistenziali di Dostoevskij e l'ottimismo a lieto fine di Frank Capra. Qui in realtà un lieto fine non c'è, perchè tutto torna come prima; l'illusione di una redenzione nell'uomo dura poco. Qualche lungaggine di troppo non gli consente di essere un capolavoro. Ma il regista giapponese non ama sintesi, si prende i suoi tempi per raccontare una storia. Non lasciando nulla di non detto o in sospeso.
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lucaguar
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domenica 10 novembre 2013
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il riscatto di un uomo di fronte alla morte
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"Vivere" è un film di straordinaria profondità spirituale. Il signor Watanabe, dopo trent'anni di impiego presso un ufficio comunale, si rende conto di essere ormai stanco della sua vita-non vita, vissuta in un ambiente lavorativo che non concede sbocchi nè soddisfazioni, comandato dalla "regina burocrazia" che crea immobilismo e cinismo in tutti i suoi "servitori".
Ad un certo punto Watanabe scopre di essere malato di cancro allo stomaco e la sua vita viene stravolta da questa notizia. L'uomo però, vede consistere il suo dramma più che nella malattia, nell'angoscia di esser arrivato alle soglie della morte senza aver mai vissuto pienamente, di non avere cioè vissuto la vera vita, bensì una lunga, lunghissima serie di giorni grigi e apatici, rinchiuso in una passività che gli ha impedito di donare e ricevere le gioie autentiche del vivere.
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"Vivere" è un film di straordinaria profondità spirituale. Il signor Watanabe, dopo trent'anni di impiego presso un ufficio comunale, si rende conto di essere ormai stanco della sua vita-non vita, vissuta in un ambiente lavorativo che non concede sbocchi nè soddisfazioni, comandato dalla "regina burocrazia" che crea immobilismo e cinismo in tutti i suoi "servitori".
Ad un certo punto Watanabe scopre di essere malato di cancro allo stomaco e la sua vita viene stravolta da questa notizia. L'uomo però, vede consistere il suo dramma più che nella malattia, nell'angoscia di esser arrivato alle soglie della morte senza aver mai vissuto pienamente, di non avere cioè vissuto la vera vita, bensì una lunga, lunghissima serie di giorni grigi e apatici, rinchiuso in una passività che gli ha impedito di donare e ricevere le gioie autentiche del vivere.
Il povero impiegato, ormai disperato, sempre più solo e incompreso da tutti, persino da un figlio freddo ed insensibile, cerca di recuperare il tempo perduto attraverso la vita mondana (alcool, donne e locali notturni in compagnia di un "mefistofele" che vuole aiutarlo a divertirsi) ma questo tentativo si rivela inutile ed è evidente l'impaccio e l'imbarazzo di un uomo che non si è mai concesso nulla a parte il lavoro.
L' unica speranza di Watanabe sembra essere Toyo, una giovane e solare impiegata del suo ufficio, nella quale vede la sua luce: è infatti la voglia di vivere della ragazza, nonostante la sua povertà, che gli fa capire il senso della vita, e in particolare l'azione scatenante della sua "rinascita spirituale" avviene quando la giovane gli mostra un piccolo peluche ed è in quel momento che l' uomo, vecchio e malato, capisce che il significato dell'esistenza sta nel rendere felici gli altri e nell'essere felici, cioè nel tornare un po' bambini. Egli decide così di riprendere il suo lavoro ma di sfuttare, per una volta, la sua posizione per fare qualcosa di concreto per le persone che lo circondano. Avvia quindi le pratiche per la costruzione di un parco giochi per bambini.
A questo punto Kurosawa, fa un balzo in avanti nel tempo portandoci dopo la morte di Watanabe, e ci mostra, in una lunga sequenza finale, il ricordo dei colleghi. Solamente un impiegato e alcune donne del quartiere però sembrano aver compreso veramente il dramma e il riscatto di Watanabe riconoscendo i suoi meriti, mentre gli altri colleghi si alternano in giudizi più o meno superficiali o ipocriti, come ci svela la scena fnale nella quale viene mostrato l'ufficio nel solito immobilismo di sempre.
In questo film il maestro Kurosawa esprime in modo profondo e appassionato il dramma di un uomo di fronte alla morte, ma non solo. A parer mio "Vivere" è una chiara critica nei confronti di una classe dirigente ipocrita ed egoista che, presa dai suoi interessi particolari, tarpa le ali ai grandi ideali umani, spegnendo la volontà e la forza di chi vuol vedere il lavoro come mezzo per donare felicità agli altri.
Veramente di rilievo l'interpretazione di Takashi Shimura nei panni di Watanabe ma di tutti gli attori in generale (la sequenza finale nella camera ardente è da far studiare nelle scuole di recitazione), e molto toccante la scena in cui Watanabe, poco prima di morire, si dondola solo, di notte, su un' altalena del parco giochi cantando "La vita è così breve". Se Rashomon era stato il film sorpresa che ha lanciato il regista giapponese tra gli "dei" del cinema mondiale, "Vivere" è il film dell' affermazione di Akira Kurosawa che vede unire l'espressività teatrale con tecniche narrative innovative e accattivanti (in realtà già presenti in Rashomon) come continui flash back e flash foward che però non tolgono alla pellicola il suo carattere contemplativo e straordinariamente sobrio, che solo il cinema orientale, ed in particolare il suo più alto esponente, sanno donare.
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carloalberto
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mercoledì 20 gennaio 2021
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inaccessibile alla sensibilità occidentale
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La risonanza con alcuni temi arcaici e con antiche modalità narrative della letteratura occidentale induce a considerare Vivere un’opera apparentemente fruibile, in modo non mediato, al di là delle sue origini ancestrali e dei confini culturali della madrepatria dell’autore. Al contempo, il film risulta alquanto ostico sia per i mezzi espressivi utilizzati da Kurosawa, sia per i contenuti,entrambi indissolubilmente intrinseci alla storia giapponese e alla visione del mondo orientale. La recitazione innanzitutto ed il movimento degli attori in scena sono propri di una rappresentazione esasperata dei caratteri che affonda le proprie radici nella tradizione teatrale giapponese e rende i personaggi del film più simili alle maschere del teatro Nō che agli attori cinematografici di quell’epoca, che, in occidente, grazie al primo piano, potevano abbandonare i toni forti del parlato e l’atteggiamento mimico eccessivo del palco a favore di una espressività più sfumata e verosimile, attraverso impercettibili lavorii dei muscoli facciali.
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La risonanza con alcuni temi arcaici e con antiche modalità narrative della letteratura occidentale induce a considerare Vivere un’opera apparentemente fruibile, in modo non mediato, al di là delle sue origini ancestrali e dei confini culturali della madrepatria dell’autore. Al contempo, il film risulta alquanto ostico sia per i mezzi espressivi utilizzati da Kurosawa, sia per i contenuti,entrambi indissolubilmente intrinseci alla storia giapponese e alla visione del mondo orientale. La recitazione innanzitutto ed il movimento degli attori in scena sono propri di una rappresentazione esasperata dei caratteri che affonda le proprie radici nella tradizione teatrale giapponese e rende i personaggi del film più simili alle maschere del teatro Nō che agli attori cinematografici di quell’epoca, che, in occidente, grazie al primo piano, potevano abbandonare i toni forti del parlato e l’atteggiamento mimico eccessivo del palco a favore di una espressività più sfumata e verosimile, attraverso impercettibili lavorii dei muscoli facciali.
Il Mono no aware, sentimento tipico della cultura giapponese, intraducibile nel comune sentire occidentale, veicolato dai versi di Gondola no Uta, una canzone derivata da una ballata popolare di inizi novecento, si presta ad una immediata quanto illusoria comprensibilità, riecheggiando già dal primo verso, La vita è breve. Innamoratevi fanciulle, prima che il fiore cremisi svanisca dalle vostre labbra, il carnascialesco Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia.
Così sul piano narrativo, l’evidente scopo edificativo della storia del vecchio impiegato cui è diagnosticato un tumore allo stomaco e decide di dedicare gli ultimi giorni della propria esistenza al prossimo, potrebbe fuorviare, richiamando lo schema di un panegirico raccontato nello stile delle leggende dei santi dell’agiografia medievale. In Vivere, tuttavia, il vecchio non è il santo dalla vita paradigmatica illuminato dalla luce divina, bensì il mezzo attraverso cui si mostra la realizzazione del fine dell’esistenza umana in osservanza ai principi dell’etica confuciana, simboleggiata dall’antico mito giapponese del coniglio lunare. Nella favola, il coniglio non avendo altro da offrire ad un indigente, a differenza degli altri animali che lo aiutano grazie alle loro specifiche abilità, si immola donandogli le proprie stesse carni per sfamarlo. La compiutezza ed il senso della vita individuale sta, quindi, nella concreta applicazione, nella vita di tutti i giorni, della virtù confuciana. E’ l’esaltazione dello spirito di servizio verso la famiglia, la collettività, lo Stato, spinta fino al sacrificio supremo della vita.
Il protagonista dopo la prematura scomparsa della moglie ancora giovane non si è risposato sacrificando la propria egoistica felicità per dedicarsi anima e corpo alla cura dell’unico figlio. Una volta che questi è divenuto adulto e la sua opera non è più necessaria nell’ambito familiare, si dischiude quello collettivo della comunità in cui vive, mostratogli provvidenzialmente dalla giovane impiegata con il dono del coniglietto giocattolo, simbolo del coniglio lunare del mito, che troverà posto emblematicamente dinanzi alla foto del defunto nella cerimonia funebre. La lentezza e la complessità della burocrazia che fanno da alibi al cinismo e all’indifferenza dei funzionari, l’inerzia e l’invidia dei colleghi, l’opportunismo dei politici ed i loschi interessi della mafia, sono soltanto esempi storicamente contingenti, simbolo degli eterni ostacoli che si frappongono, a seconda dell’epoca diversi, sul percorso universale della retta via che conduce alla vita perfetta, quella che si annulla in funzione del benessere della collettività. La filosofia di vita sottesa al film, estranea al modo di vedere prevalente in occidente, dove da sempre è in gioco la salvezza della vita individuale ed il prossimo è visto solo come un mezzo per raggiungere scopi egoistici, siano essi corporei o spirituali, è così distante dall’intimo sentire dello spettatore da rendere l’opera si intellegibile, ma non coinvolgente emotivamente. Insopportabile, infine, è la narrazione didascalica, con gli attori che, come in un coro greco, annunciano, di volta in volta, gli episodi delle scene seguenti del martirologio dell’eroe, riproposti nei flashback dei frammenti della sua lotta epica contro il male e che si ricompongono per un momento nel pianto unanime di amici e parenti, complice l’alcol che libera dalle catene dell’etichetta e del conformismo, abbattendo le barriere del reciproco gioco dei ruoli. Il giorno dopo, in quello che fu il suo ufficio, tutto riprende nell’uguale monotono trantran di negligente menefreghismo. Le ultime immagini del giardino creato al posto delle fogne a cielo aperto, grazie all’abnegazione del protagonista, bilanciano la pessimistica visione di Kurosawa sulla irredimibilità della natura umana. Nell’alternarsi malinconico delle stagioni della vita, i bambini che giocano in quel parco sono la nuova generazione, la rigogliosa primavera che fiorisce grazie al sacrificio dell’impiegato morente, il vecchio tronco inaridito dall’inverno, che, prima di cadere, ha steso i suoi rami protettivi a coprire la gemma assicurandole così la futura sbocciatura.
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